5° incontro dei Gruppi Famiglia nel Vicariato di C. di Godego a Vallà
03 Marzo 2002

La famiglia tra impegno e svago fuori delle mura domestiche: ricchezza o povertà?
Verso un’autentica educazione dei figli

Relatore: Maria De Giuseppe
Il taglio del mio intervento toccherà in modo particolare il sottotitolo indicato: Verso un’autentica educazione dei figli. Tuttavia farò dei collegamenti con il tema vero e proprio da voi scelto, ossia quello dell’impegno e dello svago fuori delle mura domestiche sia come ricchezza che come povertà. Considerando che voi che partecipate a questo incontro siete di età diverse, cioè siete genitori giovani, meno giovani ed anche dei nonni, vedo questo fatto come un fattore positivo perché la realtà dell’educazione è una realtà sempre viva, occorre infatti educare ed educarsi in ogni età. Nessuno ha mai finito di educarsi e di educare né genitori, né figli, né nipoti, né gli stessi nonni.
Per introdurre questa tematica voglio leggervi alcune frasi di un brano sicuramente molto noto di K. Gibran che riguarda i figli. Questo quadro che Gibran presenta dà proprio l’angolatura del lavoro che cercheremo di fare oggi. La direzione è: chi siamo noi? chi sono i figli? che significa educare in modo autentico come accenna il tema?
"Una donna disse al Profeta: - Parlaci dei figli. Ed egli disse: -I vostri figli non sono i vostri figli. Sono i figli e le figlie della fame che in se stessa ha la vita. Essi non vengono da voi, ma attraverso di voi, e non vi appartengono benché viviate insieme. Potete amarli, ma non costringerli ai vostri pensieri, poiché essi hanno i loro pensieri. Potete custodire i loro corpi, ma non le anime loro, poiché abitano case future, che neppure in sogno potrete visitare. Cercherete d’imitarli, ma non potrete farli simili a voi poi che la vita procede e non s’attarda su ieri. Voi siete gli archi da cui i figli, le vostre frecce vive, sono scoccati lontano. L’Arciere vede il bersaglio sul sentiero infinito, e con la forza vi tende, affinché le sue frecce vadano rapide e lontane. In gioia siate tesi nelle mani dell’Arciere; poi che, come ama il volo della freccia, così l’immobilità dell’arco."
Questo arciere che è il buon Dio ama il volo della freccia, i figli proiettati in avanti nella loro vita, ma ama allo stesso tempo la fermezza dell’arco, perché se l’arco non è fermo i figli non prenderanno la giusta direzione.
Questa dunque è l’ottica dell’incontro di quest’oggi: un educare che vuol dire proiettare qualcuno in avanti nella vita, nella sua vita, quel qualcuno che vi è stato affidato e che non vi appartiene. Tutto in una famiglia che oggi è messa in discussione, che è piena di problemi, in particolare famiglie giovani che hanno una grossa difficoltà di rapporto con i figli, difficoltà di capire bene che cosa vuol dire educare, difficoltà di trovare tempi e spazi adeguati per un rapporto sereno con i figli.
Perché le famiglie giovani hanno problemi nell’educazione dei figli? Questi giovani genitori sono a loro volta quei figli cresciuti in una situazione che essi stessi definiscono per vari motivi problematica. Cresciuti, divenuti adulti continuano a ripetere a se stessi: "Quando mi sposerò, quando sarò padre, quando sarò madre non sarò per i miei figli…, non farò o non darò …, non farò passare ai miei figli quello che ho passato io!". In quest’ottica i nuovi genitori mettono su famiglia attenti bene a non far passare ai figli le cose che loro hanno subito, che hanno vissuto male o che non sono loro piaciute. In questa prospettiva corrono il rischio di dare ai figli un’impronta che non è quella di cui hanno bisogno e sono tentati di proiettare sui loro figli tutto un vissuto che è il loro passato. Questi giovani genitori rischiano di rispondere a dei bisogni che i figli d’oggi proprio non hanno e magari ne hanno altri. In qualche modo essi stanno mettendo una toppa sul loro passato, stanno dando delle risposte al loro passato di ragazzo o di ragazza, di bambino o di bambina e non sono attenti in realtà a quel figlio e ai suoi bisogni. Succede allora che non trovano risposta nei figli. Ci si rende conto che non va bene guardare al proprio passato e che si fa fatica a trovare la via educativa adatta per il 2002.
Il sistema educativo dei nostri genitori non va più bene, quello che stiamo usando elaborato dal nostro vissuto non va bene ancora.

Qual’è la via? Qual’è la strada?
Intanto c’è sempre un punto fermo, quella grossa realtà che è la famiglia che resta sempre valida soprattutto all’interno della vita cristiana. Questa famiglia è nata da qualcuno che di famiglie se ne intendeva bene, l’Arciere di cui abbiamo parlato che si chiama Dio. Le nostre famiglie attingono dall’ottica e dalla dinamica familiare che è in Dio, perché Dio è famiglia. Dio non è solitudine ma famiglia: c’è un Padre, c’è un Figlio, c’è l’amore tra loro che si esprime nella persona dello Spirito Santo. Dio è famiglia, una famiglia talmente piena d’amore che non ha potuto rimanere chiusa in se, che ha agito più del dovuto per far scaturire questo amore incarnandolo in una creatura che si è chiamata umanità. Ecco la fecondità dalla Trinità: la fecondità di questa famiglia siamo noi, l’uomo, ognuno di noi.
Allora la famiglia è una realtà buona, è una realtà bella e ricca destinata alla fecondità, alla procreazione di figli, destinata anche all’apertura verso gli altri. Questo è il grande valore di vivere con gli altri, tra gli altri, donandosi, donando del tempo, donando dello spazio.
Ma allora educare dei figli, vivere l’educazione, che cosa comporta? Che cosa vuol dire la parola educare? Una volta educare voleva dire dare dei valori, dare una linea e far si che i figli crescessero in quella direzione, con quelle direttive, un qualcosa quindi che veniva dall’esterno. Il valore poi veniva applicato al figlio, gli veniva insegnato a vivere bene. Si diceva: "Per crescere bene ti devi comportare così!". E a partire dal "ti devi comportare così" c’era tutta una scaletta di comportamenti necessari per essere un buon figlio/a e quindi una brava persona e un bravo cristiano.
Oggi progredendo nella conoscenza psicologica e pedagogica siamo arrivati a capire che il termine, la parola "educare" vuol dire "tirar fuori qualcosa che dentro c’è già, che già esiste. Educare è una parola latina che significa appunto tirar fuor qualcosa che c’è già. L’educazione allora non è qualcosa che dobbiamo dare ai figli ma qualcosa che dobbiamo tirar fuori da loro. Il tema della giornata per la vita quest’anno era "Riconoscere la vita".
Per educare i figli, per educarci il primo atto da fare è riconoscere la vita, riconoscere questo figlio, questa figlia. Uno dei bisogni fondamentali, una delle realtà più importanti della vita, cioè dell’esistenza nostra è il fatto di essere riconosciuti. Stiamo parlando di figli ma forse facciamo prima a parlare di noi per capire che cosa succede nei piccoli e cosa vuol dire riconoscere qualcuno.
Per riconoscere qualcuno io ho prima bisogno di vederlo questo qualcuno, ho bisogno di capire chi è e come è fatto. Allora il riconoscimento non è solo dire: "Tu sei mio figlio Marco, hai gli occhi azzurri, hai il naso in questo modo, sei alto così". Questo è un aspetto del riconoscimento esteriore del figlio, mentre riconoscere un figlio vuol dire scoprire chi è questo mio ragazzo che mi vive accanto. Chi è davvero questo figlio? In questa semplice domanda si gioca la vita del figlio. Educare dunque vuol dire prima di tutto riconoscere chi è il figlio. Perché è necessario che io lo riconosca? Perché se io riconosco mio figlio vuol dire che ho già gli occhi su tutto quello che mio figlio farà. Solo così sarò in grado di educarlo dall’esterno, cioè potrò dire a mio figlio: "Questo devi vivere, perché questo tu sei, così devi crescere!" Riconoscere un figlio vuol dire riconoscerne l’originalità e l’unicità. In tutto questa realtà di ricchezza, in tutta questa "capacità di" è scritta l’identità del figlio. Chi è un figlio, qual’è la sua identità, quali sono le sue caratteristiche? Un genitore ha bisogno di conoscere queste cose, diversamente come farà un ragazzo a conoscersi, a capire chi è, a trovare come vivere se non sa chi è? Una delle grosse difficoltà che trovo nei minori che seguo, a cominciare dai ragazzini perché fino alla quinta elementare è il problema principale, rimane l’auto identificazione: chi sei tu, prova a dirmi chi sei? "Ah! Non so!" "Come? Non sai, cosa dicono gli altri di te?". Quando incontro ragazzi che fanno fatica a dirmi che cosa dicono gli altri di loro a cominciare dagli amici, perché se dico di partire da mamma e papà le frasi sono già belle e fatte del tipo "si mi posso impegnare di più, devo fare di più questo, sono intelligente ma non sfrutto la mia intelligenza", significa che non hanno avuto queste due figure di riferimento X e Y che sono i genitori che non hanno dato loro quello che serviva per crescere e cioè il rispecchiamento.
Il giudizio dei compagni espresso con frasi come queste "sei simpatico, a volte sei un po’ per conto tuo, hai fantasia, sei originale,…" confermano il ragazzo. Altrimenti si ha un vuoto d’identità, si hanno ragazzi che non sanno chi sono. Eppure in ogni persona ci sono moltissime realtà positive, moltissime ricchezze, tante capacità che sono uniche e peculiari della persona. Ecco allora che educare vuol dire tirar fuori dal figlio tutto questo ben di Dio che gli è stato dato da Dio. Qui sta l’unicità e l’originalità di ciascuno di noi, qui c’è l’impronta del divino, e quando diciamo che ogni uomo è stato creato a immagine e somiglianza di Dio affermiamo questa realtà. Dov’è l’impronta di Dio in noi? In questi doni singolari dati a ciascuno di noi e che ognuno vivrà in un modo unico sta scritta l’identità di ciascuno, la vocazione di ciascuno.
Educare vuol dire aiutare un figlio a diventare quello che è, quello che è stato pensato, quello che è stato voluto, vuol dire aiutarlo a crescere secondo la pasta, secondo la materia che lo costituisce. È un errore voler educare mio figlio secondo quello che io penso, secondo come io lo voglio, secondo l’ideale che mi sono fatto su mio figlio e quindi indicarli, suggerirgli le vie che secondo me sono quelle buone per lui, perché corrispondono al mio modo di pensare. Ben diverso invece è dire: ti guardo figlio mio, vedo chi sei, scopro qual’è la tua unicità, la tua originalità e t’invito a crescere, a camminare lasciando che questa vita che c’è in te venga fuori, si realizzi, si compia, perché ognuno di noi si compirà nella misura in cui vivrà quello per cui è stato creato. Questo è vivere, è crescere, questo è educare ed educarsi.
Il ruolo di genitore che deve educare e quello di orientare, ossia deve sollecitare ad attuare quanto il ragazzo è in grado di fare. Ma proprio perché il bambino è ancora piccolo non sa come vivere e attuare le potenzialità che ha in sé. Il ruolo del genitore sarà quello di prendere quello che c’è già nel figlio e dare delle piste: "Bene, per vivere questo aspetto di te puoi fare così". Gli indica cioè la strada, gli propone qualche modalità concreta. "Questa è la realtà che tu hai dentro di te, per viverla puoi fare in questo modo. Per vivere la tua generosità puoi fare in questo modo, per vivere il tuo amore per gli altri puoi fare in questo modo, …"
Ecco come il genitore interviene dando una gerarchia certa di valori proprio mentre indica la strada al figlio, non quella che secondo lui genitore sarebbe quella buona, ma quella che è buona e utile per la crescita del figlio, che è utile per il suo divenire.
Per fare questo lavoro di educazione occorre conoscerli questi figli e per conoscerli occorre stare con loro. Qui mi riallaccio alla prima parte del tema di oggi, "la famiglia tra impegno e svago fuori dalle mura domestiche". Se tutto il nucleo è impegnato in attività serie e formative, quando la mamma, il papà, i figli sono inseriti in gruppi parrocchiali, ecc., credo che ci sia un’efficacia che si riflette su tutta la famiglia. Ma quando, per esempio, l’impegno è relativo soltanto ad uno dei genitori, o quando si parla di svago, di impegno lavorativo, quando le ore che si passano fuori casa sono 10/12 al giorno, diventa improbabile conoscere questo figlio, come è improbabile che avvenga la conoscenza di coppia. Non si ha il tempo per poterlo fare, perché questa conoscenza di cui stiamo parlando richiede tre aspetti fondamentali.
- Richiede un’attenzione degli occhi del corpo, vedere i figli, guardarli.
- Richiede un’attenzione degli occhi del cuore, cercare di capire che cosa provano.
- Richiede l’attenzione degli occhi della mente, la mia intelligenza che scruta il figlio che cerca di capirlo di conoscerlo.
I bambini hanno bisogno di essere guardati (osservati, ascoltati), amati (guardati con amore), studiati (capiti).
Per poter vivere questa attenzione bisogna passare un po’ di tempo con loro, perché tutto questo presenta il presupposto di un ascolto dei figli che stanno crescendo sia dei piccolini che dei più grandi. Senza ascolto non c’è il dialogo, senza dialogo non c’è comunicazione, senza comunicazione non c’è conoscenza. Il tempo passato con i figli è importante perciò occorre che i genitori diano un’occhiata ai loro impegni, anche gli impegni in parrocchia. Il Padre Eterno non chiede a nessuno di mettere al primo posto le realtà riguardanti la comunità perché la prima comunità, la prima chiesa è la famiglia. Il primo impegno morale, se vogliamo parlare di priorità, è nei confronti di se stessi e dei figli soprattutto quando sono piccoli, o comunque fino a quando sono in casa con noi.
Ci sono delle mamme, persone buone e brave, impegnate in cinquantamila attività parrocchiali che i figli non vedono quasi mai, ed essi si devono giostrare in modo che il più grande bada al più piccolo.
I figli sono appunto quelle frecce che l’Arciere ci ha affidato perché ce ne prendiamo cura, essi rappresentano il futuro e attraverso di loro il Padre Eterno continuerà la sua opera creatrice. È dunque fondamentale che abbiano il primo posto nella nostra vita.
Per poter seguire un figlio, per poterlo capire, per poter passare del tempo con lui bisogna che io dosi i miei impegni, bisogna che io veda anche fino a che punto posso prendermi degli svaghi. Il genitore dovrà rinunciare a darsi delle cose perché ci sono i figli? Non è questo, occorre trovare delle modalità, occorre trovare dei tempi, occorre studiare dei momenti da passare insieme perché la famiglia come nucleo non abbia da soffrire a causa di questa mancanza, di questa presenza di un genitore.
In genere i bambini e i ragazzi di cui mi prendo cura diciamo che hanno tutto, fatta eccezione di qualche famiglia. Però se c’è una denuncia che questi bambini e questi ragazzi di "famiglie bene", non parliamo di famiglie con problemi gravi, fanno è proprio quella dell’assenza di uno o di entrambi i genitori e questo viene a pesare in un modo incredibile quando un figlio si sente dire: "Facciamo tutto per voi, addirittura vi facciamo seguire da un consulente". Talora il ragazzo ha coraggio di dire al consulente: "Ma non lo capisce che sono loro (i genitori) ad avere bisogno di lei, altro che io!" Quando un ragazzino di 13 anni mi dice così, è già tutto chiaro, tutto già detto. Lui sta male, lui soffre perché papà è assente, perché le poche volte che è presente non fa altro che comandare. Dice che in casa comanda lui, che si fa come dice lui e se uno la vede in un modo diverso ha torto. Queste dinamiche non hanno niente di educativo. Quando l’adulto si pone accanto al minore dicendo: "Io sono tuo padre, io ho ragione!", questo è un fallimento da parte dell’adulto, perché vuol dire che papà non ha autorevolezza e che l’unico modo per farsi valere è quello di battere i pugni sul tavolo.
I ragazzi d’oggi spesso hanno tutto ma continuano a sentire la mancanza dell’essenziale e l’essenziale è il sentirsi voluti bene, il sentirsi riconosciuti per quello che sono, il sentirsi aiutati a crescere nel meglio di se stessi, cioè a venir fuori per come sono.
Una ragazza poco tempo fa ha compiuto un atto trasgressivo, è andata a prendere della droga al confine e, assieme ad altri, è stata fermata dalla polizia. Quella ragazza non aveva mai disturbato in casa, la mamma stessa mi disse: "È cresciuta come se non l’avessi mai avuta, non mi ha mai disturbato!". Non capiva quella signora che questo è già un problema. Come mai il figlio vive felice se lo lasci per ore tranquillo a giocare e non da mai fastidio? Questo è un problema perché il bambino, se c’è, si fa sentire; non fa proprio mai in modo di far silenzio per non disturbare. Quando un bambino non disturba vuol dire che ha già intuito che è lui un disturbo e che se vuole sopravvivere non deve disturbare. Quella ragazza rispose al padre: "Tu mi rimproveri per questo fatto, mi rimproveri per questo ragazzo ma mi hai mai chiesto se ero felice?" I ragazzi continuano a dire: "Ho fatto l’esame all’università mi hanno detto: - Si bravo è andato bene - , ma a morire se una volta mi si dice: - Sei soddisfatto, quanto contento sei? -". Che cosa prova un figlio, che sentimenti ha dentro, che cosa sta portando nel suo cuore? Questo sembra non interessare e così abbiamo portato dentro la famiglia la cultura dell’azienda dove quello che vale è il fare, il produrre. Le frasi più comuni sono: che cosa c’è da fare oggi, che cosa hai fatto a scuola, quali sono i compiti da fare. Tutto ciò ha a che fare con lo "stile azienda". L’azienda ha le cose da fare per cui tutto quello che è l’essenziale per la persona (cioè che siamo, ciò che proviamo, come ci sentiamo, siamo stressati, siamo tesi, …) non trova posto. Come mai faccio fatica a entrare in relazione con il compagno, perché non oso mai difendermi in classe e le prendo, come mai sono sempre irritato e faccio il diavolo a quattro quando sono a scuola? Che cosa hanno dentro questi figli? Sembra che tutti questi aspetti siano insignificanti, meritino poca considerazione. Ci si accorge poi quando si arriva alla trasgressione o al fatto che il genitore diventa incapace, ad un certo punto, di gestire il suo rapporto con i figli.
Questo malessere viene a galla quando i fidanzatini che stanno per sposarsi o la coppia appena sposata è già in crisi. Ciò che manca dentro è la capacità di capire che cosa vuol dire amare, volere bene. Persone che crescono senza sapere chi sono, che cosa vogliono, che non si sentono amate da nessuno. Quindi pare che tutto il mondo dell’essere, cioè di ciò che siamo dentro di noi, più si va avanti e più è soverchiato dal mondo del fare. Si vedono solo le cose da fare per non rimanere indietro rispetto agli altri.
Tutto può essere bene e buono ma ad un certo punto occorre fare anche una selezione, non tutto quello che fa bene è anche ciò di cui ha davvero bisogno mio figlio. Se fare nuoto, karatè o non so quale altra cosa il figlio è stressato perché è troppo, lasciamo perdere, che stia tranquillo a casa e si rilassi perché possa crescere bene.
Ho incontrato questa mattina un gruppo di ragazzi tra i 16 e i 19 anni con i quali abbiamo parlato dell’affettività ed ancora una volta ho notato il disagio che loro vivono per l’incapacità di esprimere affetto e di capire anche chi è amico e chi non lo è, e come ci si deve comportare. Può avere il sopravvento la freddezza o la paura, altre volte l’invadenza o la possessività. Ci si deve chiedere il perché di queste sensazioni ed atteggiamenti. Non ho sentito un ventenne che mi abbia detto di vivere una affettività serena. Sia nell’età adolescenziale che quasi fuori dell’adolescenza (18 / 19 anni) non si trova un ragazzo od una ragazza che viva la sua dimensione affettiva in modo sereno. Se pensiamo che la dimensione affettiva è fondamentale per la vita dell’individuo come costruiranno la loro vita quando già a questa età vivono tanti problemi? Quando poi avranno il fidanzato/a che vita di coppia cominceranno a vivere? Il lato debole è che manca uno sguardo introspettivo che rende la persona capace di riconoscersi e le opportunità di essere riconosciuti. Spesso i nostri giovani non hanno avuto qualcuno che abbia fatto loro rispecchiamento.
Noi abbiamo sempre inteso che educare sia dare regole. Le regole ci vogliono nella vita ma sono regole date in vista di un vivere meglio io e di far vivere meglio gli altri. Quindi la regola non è ti privo di qualcosa, invece io te la do a tutela della tua vita, te la do perché tu possa vivere meglio con te stesso e con gli altri.
Le regole sono necessarie ed educare vuol dire anche dare delle regole ma non me le devo inventare partendo dalle mie paure. Come genitori occorre chiederci da dove partiamo per dare queste regole? Perché secondo noi una cosa è giusta ed un’altra è sbagliata?
Un papà al mare era in ansia perché la bambina di 7/8 anni voleva fare una nuotata nell’acqua più alta. Da notare che la bambina faceva nuoto e nuotava benissimo, il papà però aveva il terrore dell’acqua e continuava a proibire di non oltrepassare un certo limite. Ad un certo punto si è reso conto che trasmetteva solo paura a sua figlia mentre lei era serena e tranquilla, e quindi che problema c’era di lasciarla andare? Questa non è la tutela della figlia, ma è la tutela delle proprie paure. Ci si deve chiedere se le regole che diamo le diamo davvero per loro perché crescano sereni o stiamo dando delle regole perché noi ci possiamo sentire tranquilli? È importante allora questo sguardo aperto del genitore che si domanda se nel suo modo di relazionarsi con il figlio, nel modo di aiutarlo a crescere, nel modo di dare delle regole, delle linee perché vada avanti nella vita, che cosa gli sta trasmettendo.
Osserviamo "la freccia" e vediamo che prosegua per la sua strada perché diventi quello che è, perché vada a toccare la via che deve toccare o mentre la guardiamo tiriamo fuori tutto quello che sta in noi di paura, di attese, di desideri, di ideali e glieli proiettiamo addosso? Ci si deve chiedere quanto siamo liberi dentro, fino a che punto siamo liberi? Educare vuol dire aiutare i figli a vivere il meglio di se stessi. Educare vuol anche dire saper ascoltare. Prima di parlare occorre saper ascoltare fino in fondo, questo non significa che quando lui comincia ad aprir la bocca io sto già pensando a che cosa gli devo rispondere. L’attenzione bisogna che passi da quello che io penso a lui. Che cosa che mi sta dicendo? Di cosa mi sta parlando, che disegno ha? Cosa mi sta chiedendo? Quindi un’attenzione che passi da quello che io voglio che faccia a quello di cui lui ha bisogno. Ecco perché il bambino non si sente ascoltato, non si sente preso sul serio perché il genitore interviene con il suo modo di vedere, di pensare e gli blocca la vita.
Spesso i ragazzi di qualsiasi età si sono ormai fatti la convinzione che non vale la pena esporre qualcosa a papà e mamma: tanto non mi ascoltano e non mi capiscono. È già scontato per loro!
È difficile tutto questo, e siccome sto parlando a persone cristiane dico: "Certo che è difficile, non sto dicendo che il compito di educare è facile ma che è possibile". In più, se ci diciamo cristiani, sappiamo bene di aver ricevuto dei doni da questa "benedetta" presenza che si chiama Spirito Santo, tra cui il dono dell’intelletto, la capacità di andare oltre l’apparenza dei figli e di leggere che cosa gli succede che cosa hanno dentro quei figli, della scienza, la capacità di amare con tutto il cuore e di capire da dentro l’altro, della sapienza, la capacità di valutare se è il momento o se non è il momento di intervenire.
Educare non è facile ma è possibile e per poterlo fare occorre che l’altro diventi il centro della mia attenzione.
A volte ce n’è uno di figlio, a volte due, a volte tre o più e sono uno diverso dell’altro e ciascuno ha bisogno di tutto questo solo per sé. Teniamo presente che è possibile darlo. Ognuno ha diritto ad avere il suo posto in casa, un suo spazio, il suo amore, ha diritto di essere guardato, di essere riconosciuto, di essere amato per quello che è. All’arrivo del fratellino il primo figlio non si vede più al centro dell’attenzione, tutto quello che ha avuto fino allora d’improvviso comincia a diventare la metà, la mamma e il papà sono presi da qualcun altro, tutti quelli che arrivano in casa hanno attenzioni per il nuovo arrivato ed è normale che ci siano delle gelosie. Questi bambini hanno bisogno di essere capiti e non devono sbrigarsela da soli perché è arrivato il secondo e poi il terzo fratello. Ognuno va amato per quello che è. Molte volte i figli non si sentono amati per quello che sono, accettati così come sono, dai genitori che si aspettano sempre di più. Arrivano dai genitori messaggi come: così non mi vai bene. Porto come esempio una mamma che ha difficoltà con il bambino più grande di 5 anni, l’altro ne ha 3, e l’unico modo che trova, quando non ne può più, è di "menarlo". Immaginate la situazione, il bambino vive questo suo disagio e quando la mamma va a prenderlo all’asilo, come la vede, tira calci e pugni. Questa mamma dice: "Ma io, pur di avere l’affetto di mia madre, ho annullato la mia personalità (è giovane questa mamma), ho fatto tutto quello che le faceva piacere pur di sentire che mia mamma era contenta di me perché lei guardava sempre mio fratello, lui era bravo e di me invece non gli andava mai bene nulla."
Nel fare di tutto per far piacere alla mamma questa donna si è annientata, non ha vissuto quello che lei era, ha vissuto sempre lo sforzo di piacere a sua madre. Oggi di fronte al figlio, che vuol dire qualcosa, lei, nervosa perché non ha una buona identità, non sa come prenderlo e va in tilt. In soli 15 giorni ha cambiato modalità di rapporto con il figlio, ha preso un altro tono di voce, gli è andata incontro e il bambino non tira più calci e pugni.
Quindi educare davvero vuol dire avere l’attenzione sul figlio, non costringere questi figli a fare quello che vogliamo noi, non costringiamoli a piacerci, ad annullarsi. I bambini colgono immediatamente quello che i genitori stanno vivendo, quello che i genitori si aspettano da loro e pur di soddisfarli di piacergli sono disposti a tutto, anche quelli che sembrano monelli. Tocca a noi avere gli occhi attenti alla loro crescita secondo quello che l’Arciere divino ha messo dentro di loro perché diventino quello per cui sono stati creati. E allora le due vitamine che aiutano i figli a crescere sono l’amore e la fermezza. La fermezza non è rigidità, la fermezza non è cattiveria, non è durezza.
La fermezza è questo e non quello in base a ciò che voi ritenete sia bene per loro, a partire dalla realtà hanno dentro di loro, sempre unita ad un grande amore. Una vitamina senza l’altra non è efficace, fa dei figli fragili, dei figli senza midollo. Le due vitamine insieme fanno dei figli forti e sani.
Il mio invito è quello di guardare i vostri figli con quest’ottica perché non sono dei contenitori da riempire di qualcosa ma sono delle persone create in un modo unico che si portano Dio nel cuore, che lo sappiano o no, che sono stati creati per diventare se stessi e non qualcos’altro. Quindi educare in modo autentico è aprire la strada alla felicità.