LA FAMIGLIA DI CREDENTI, CHIAMATA ALLA MISSIONE.
COMPROMESSI CON GLI ALTRI

In ascolto della parola: "Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l'adozione a figli" (Gal 4, 4-5).
"Partito quindi di là, andò nella sua patria e i discepoli lo seguirono. Venuto il sabato, incominciò a insegnare nella sinagoga. E molti ascoltandolo rimanevano stupiti e dicevano: 'Donde gli vengono queste cose? E che sapienza è mai questa che gli è stata data? E questi prodigi compiuti dalle sue mani? Non è costui il carpentiere, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Joses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle non stanno qui da noi?'. E si scandalizzavano di lui" (Mc 6, 1-3; cfr Mt 13, 53-58).
Si è detto al Convegno di Palermo, proprio introducendo la riflessione sulla famiglia, che oggi dentro le profonde trasformazioni sociali in atto, la realtà familiare è un crocevia di attenzioni e di tensioni, di attese e di delusioni, di problemi acuti e di speranze altrettanto forti.
In particolare si è ricordato come sulla famiglia si abbattano o si rifrangano marcate contraddizioni, riassumibili da una parte in una tendenza all'isolamento ed allo smarrimento e dall'altra parte in una sorprendente riscoperta della solidarietà. Si è fotografata la famiglia come... "sempre più sola" ma anche "sempre più insieme".
Sempre più sola perché i numeri della famiglia al suo interno si sono fatti piccoli piccoli: single, anziani, coniugi separati, l'imporsi del figlio unico o di nessun figlio. Ma sempre più sola anche rispetto ai problemi concreti e drammatici: dal lavoro che manca, al figlio che si droga... La periferia della grande città con il maxi-condominio è diventata un po' l'immagine di una famiglia isolata nel mucchio, spesso senza grandi legami all'esterno, invece con profondi conflitti al suo interno. Le radici da cui si proviene (il paese natale, il sud, la campagna o la montagna... ) sono in parte tagliate ed in parte inefficaci o, in alternativa, vissute con nostalgia come parentesi ogni tanto e nulla più.
Ma anche "sempre più insieme": infatti sembrerebbe far capolino una sorta di solidarietà "sommersa", difficilmente documentabile con i dati delle inchieste, ma sperimentabile di persona, là dove le famiglie riscoprono la parentela in modo liberante (con il ritrovato ruolo dei nonni, ad esempio); là dove si stabiliscono rapporti e legami con altre famiglie per i problemi comuni dei figli, per bisogni concreti di assistenza e di accompagnamento, per aiuti di tipo sanitario e domestico. Anzi oggi a dispetto di tanta casistica pubblicizzata che da l'immagine del contrario, sembrerebbe che la malattia di un familiare sia in grado di attivare una rete di solidarietà insospettate ed inaspettate.
Vanno in ogni caso verificate queste annotazioni apparentemente contrastanti rimbalzate, come analisi, al Convegno di Palermo.
Contengono sicuramente del vero. Resta da soppesare concretamente quanto la bilancia penda, se verso la solitudine o verso la solidarietà.
In ogni caso si tratta di vedere collocata la famiglia dentro un intreccio sociale più vasto. È un microcosmo la famiglia ma non è un pianeta a sé. Vive dentro un tessuto composto innanzitutto di altre famiglie, di gruppi sociali, di condizioni di vicinato, di comunità allargate, di rapporti e relazioni, di istituzioni e di strutture, di presenze molteplici e variegate.
Un tratto evidente del nostro vivere è oggi quello del trovarci "compromessi con gli altri". Sempre è stato così, ma oggi la differenza sta nella intensità e nella molteplicità di questi legami e di questi rapporti con gli altri. Anzi la novità sta nell'essere dentro una barca di enormi dimensioni, tutti insieme. La barca è il pianeta-terra, con le cui sorti dobbiamo fare i conti. La mondializzazione della vita (economica, culturale, sociale, sportiva... ) è alla portata di tutti. Non soltanto per chi ha la possibilità di accedere ad Internet, ma anche solo per chi ha un'antenna parabolica. Il mondo ci entra in casa con la Tv.
Ovviamente non tutto è lineare nella comunicazione mass-mediale odierna. Ma questo è un altro discorso, che comunque conferma il bisogno di essere avvertiti e avveduti, sulla posta in gioco. Siamo mondializzati. Ma qualcuno (poteri forti, poteri più o meno palesi, interessi economici... ) ci vuoi dare del mondo l'informazione mirata a determinati scopi, con enfatizzazioni e censure di cui non sempre riusciamo a renderci conto. La famiglia ne è investita in pieno, sguarnita com'è di strumenti all'altezza per decodificare i messaggi, per completarli, per selezionarli.
Ma il mondo ci entra in casa e nella vita anche in... carne ed ossa: ormai siamo coinvolti in una società multi-etnica. I colori diversi della pelle, le differenti religioni, le culture lontane del mondo arabo o dell'Africa nera... sono presenti all'asilo, nella scuola elementare, per strada, all'oratorio, al bar, al supermercato. I bimbi di oggi crescono già dentro questo orizzonte multi-razziale.
Sono per un verso facilitati perché l'approccio è immediato, diretto e disincantato. Ma sono anche più esposti a preclusioni razziste, a battute discriminatorie, a considerazioni squalificanti che possono raccogliere qua e là (come avviene per le parolacce, che sono le prime ad essere imparate, non si mai da chi di preciso).
Nessuno potrà fermare questo movimento di popoli dal Sud, dall'Est, dalle aree più povere del pianeta. Certo ha il sapore di un evento epocale, rispetto al quale i più si mostrano impreparati e quindi reagiscono con affanno e con esasperazione. Se anni fa erano pochi "profeti" a richiamare, non sempre ascoltati, sull'urgenza di dare ascolto ai popoli affamati del terzo mondo e quindi sulla necessità di ripensare alla ripartizione delle risorse e ad una nuova concezione della giustizia sul piano planetario, oggi la drammaticità di situazioni intollerabili in troppi punti caldi o neri del mondo ci è evidenziata direttamente sotto casa, dal lavavetri al semaforo, alle prostitute del viale, dai marocchini che suonano il campanello. E indubbio che salgono vistosamente alla ribalta soprattutto gli episodi limite, di degrado, di disperazione. La tentazione, a tutta prima, che prende molti (ed anche con un pizzico di dignità culturale), è quella di difendere se stessi, chiudendosi a riccio, tutelando ciò che ci si è conquistato magari anche a fatica. È una reazione comprensibile ma miope. In ogni caso non porterà da nessuna parte, anche se la legalità andrà reclamata sempre e con forza, da tutti. Il problema è un altro. Sta nell'entrare nella prospettiva di una società che cambia, anche e soprattutto per la molteplice presenza di altre culture, di altre religioni, di altre etnie, di altre mentalità.
Stiamo vivendo tutti con enorme fatica questa svolta. Le stesse comunità cristiane, a parte alcune avanguardie profetiche e coraggiose, stanno naufragando, per la loro componente di maggioranza silenziosa, in un atteggiamento pilatesco di rifiuto dell'altro, per paura, per incapacità a rapportarsi con lui, per ansietà dal dover fare i conti con il diverso (non messo in conto). Culturalmente si stenta ad entrare in questa visione pluralista, in cui ci attende una nuova stagione umana e sociale: dovremo cambiare tutti. E il cambiamento ci inquieta e ci intimorisce. Le resistenze sono forti e talora anche sconsolanti (sotto il profilo della coerenza cristiana). La battuta che circola tra i benpensanti anche delle nostre comunità cristiane "Io non sono razzista, però..." mostra l'ambiguità di un approccio che vorrebbe giustificare soprattutto il rifiuto, accampando ragioni di tutela e di legalità, là dove fa comodo generalizzare e criminalizzare alla rinfusa (prendendo le mosse da casi reali e poi ampliando la squalifica a "tutti" gli extra-comunitari). Il salto nella molteplicità è temuto come un salto nel buio. Invece di essere vissuto come una sfida sicuramente epocale ma arricchente, diffìcile ma positiva, arrischiata ma ineludibile.
Indubbiamente questo "nuovo" contiene una serie di problemi anche seri. L'impatto immediato può risultare magari per qualcuno persino traumatico. Ma è meglio affrontarlo per quello che è, invece di sottrarsi ad un confronto che comunque sarà riproposto... perché rientrerà dalla finestra. Anche solo dal punto di vista strategico, sembra decisamente più efficace prepararsi a vivere questa stagione inedita per noi, segnata dalla molteplicità delle etnie e delle culture. Senza che ci precipiti addosso, nonostante ci si sia scansati (inutilmente).
Ma l'essere "compromessi con gli altri" sul piano più generale (che non vuoi dire meno concreto) comporta sempre di più di essere, per dirla con Giovanni Paolo II, "tutti responsabili di tutti". Il che presuppone appunto "responsabilità" cioè consapevolezza di essere collegati a filo doppio gli uni agli altri, nella convinzione che i nostri gesti non finiscono semplicemente là dove ce ne accorgiamo noi. In realtà si prolungano e si ripercuotono in ambito più vasto, proprio perché non siamo isole ma siamo dentro i nodi di un intreccio che ha le proporzioni del mondo. Il positivo di questa "compromissione con gli altri" ci conduce a scoprire appunto responsabilità educative, morali, economiche, ambientali... che si allargano a macchia d'olio. L'affinare questa sensibilità rende cittadini del mondo, come già lo siamo, ma con un protagonismo dal basso che non è retorico o patetico.
C'è comunque anche il rovescio della medaglia: l'essere imbarcati sul convoglio enorme e complesso dell'umanità tutta può portare a perdersi nella massa, a non sapere più chi si è e che cosa si persegue.
Può diventare comodo lasciarsi trascinare dalla corrente, essere avvolti dal deresponsabilizzante "Così fan tutti", tramutarsi in gregge indistinto. È un rischio reale oggi in un sistema di condizionamenti culturali molto forti, soprattutto per la presa e la pressione enorme e capillare che hanno e che esercitano gli strumenti della comunicazione che danno dignità a comportamenti, mode, abitudini, scelte di vita, modelli esistenziali, miraggi più o meno fasulli. Una trentina di anni fa sorridevo con sufficienza di fronte allo slogan che riassumeva una corrente fìlosofìca ben più micidiale di quanto si potesse pensare a tutta prima, si trattava del paradosso rilanciato dagli strutturalisti esasperati che dicevano "L'uomo non esiste, parla", intendendo affermare che l'uomo singolo è solo lo strumento più o meno consapevole di una mentalità' in circolazione che precede la stessa persona e che tramite la persona viene alla ribalta. In sostanza si voleva far passare un'idea semplice e preoccupante: ognuno non è più se stesso, ma è in tutto il figlio di un mondo che l'ha preceduto, l'ha generato, lo avvolge, lo assorbe, se ne serve.
Sorridevo perché mi sembrava una "boutade". Oggi non sarei più tanto convinto, purtroppo, che gli strutturalisti avessero ed abbiano torto. Abbiamo i bimbi che parlano come gli spot televisivi, abbiamo gli adolescenti che parlano e ragionano come "Cioè" o "Tutto". Abbiamo i giovani che si identificano nel popolo della notte, del sabato sera, della discoteca a tutta. Abbiamo papa e mamme che si fanno trainare da cosa comandano le regole più o meno esplicite della moda per l'auto, le vacanze, la casa, l'abbigliamento...
C'è ancora un aspetto dell'essere "compromessi con gli altri" che va preso in considerazione e che purtroppo sembra presentare più ombre che luci. Come singoli e come famiglie siamo parte di una comunità civile che non ci può essere estranea più di tanto, perché in essa cerchiamo e troviamo le risposte a svariate esigenze indispensabili per la vita: dalle strade in ordine, alle fogne che funzionino, alla luce elettrica che arrivi, alla sanità che sia all'altezza, alla scuola che sia adeguata, al sistema previdenziale per quando si è vecchi...
Oggi in Italia tutto quanto concerne la "polis" (la città degli uomini) e quindi la "politica" è sotto una luce ambigua. Veniamo da stagioni davvero tetre, da dimenticare. Registriamo l'emergere di personaggi tutt'altro che rassicuranti. Assistiamo a spinte anche laceranti e sconcertanti. In tutto questo scenario poi dobbiamo incassare una sorta di smarrimento collettivo dei credenti, che sentendosi "scottati" da esperienze deludenti di potere ove compariva purtroppo l'aggettivo "cristiano" preferiscono stare alla finestra, evitare di scendere in campo, scegliere il meno "compromettente" o forse il più asettico ed ideale "volontariato".
A questo momento sotto-tono dei credenti rispetto alla politica, fa peraltro riscontro un dato altrettanto sintomatico: fa difetto su vasta scala "la cultura del pubblico", cioè il senso dello Stato, la consapevolezza di dover operare per la casa comune che non ci piove dall'alto ma viene costruita con il contributo di tutti. Questa carenza diffusa di senso del pubblico è stato il terreno di coltura di tutte le piccole e grandi corruzioni. Si partiva dall'assunto deprimente e mortificante secondo cui "lo Stato è una mucca da mungere", in alto ed in basso.
La gara non è a far funzionare lo Stato ma a profittarne. Al centro non sta la comunità degli uomini in cui ognuno possa ritrovare i servizi che gli sono indispensabili, ma al centro sta l'interesse personale, di gruppo, di clan, di lobby, di partito... È qui che si è inceppato il cosiddetto "Stato sociale" che, come dicono i vescovi in un documento del '95 (purtroppo poco letto e poco commentato) "non va smantellato ma reso efficace ed efficiente".
Don Corrado Avagnina
(continua sul prossimo numero)
NDR: in realtà la continuazione non è mai stata pubblicata.