I VARI VOLTI DELLA CHIESA: SOCIETA’, COMUNITA’, POPOLO
Il volto più vero della Parrocchia è quello di “popolo di Dio”,
in cui tutti possono riconoscersi ed essere accolti

di Severino Dianich*
Nella sua impalcatura fondamentale la Chiesa è come Gesù l’ha pensata e voluta: si fonda sulla fede; le si appartiene con il battesimo, ha la missione di portare agli uomini il Vangelo della salvezza, si giova della Sacra Scrittura, del servizio sacerdotale dei preti e dei vescovi, ecc..
Ma poi essa si presenta al mondo, lungo il tempo, in forme diverse. La veste esterna della chiesa, e di riflesso della parrocchia (1), è determinata anche dalla circostanze nelle quali si trova a vivere.
Il grande travaglio interno della Chiesa oggi sembra essere proprio il difficile passaggio dalla forma di società alla forma di comunità. È importante però che in questo passaggio la Chiesa non perda la sua caratteristica più bella e preziosa, quella di essere, come dice la Bibbia, il “popolo di Dio”.

La Chiesa società
Da Costantino in poi, fino alla scoperta dell’America, i cristiani sono vissuti nella convinzione che il mondo fosse tutto cristiano. Le altre religioni o non erano conosciute, o venivano interpretate come sacche di resistenza alla predicazione del Vangelo. Così i confini della Chiesa sembravano coincidere con quelli della società civile del mondo conosciuto.
La Chiesa, così pensata, era quindi una società, governata dallo Stato per le cose terrene e dalla gerarchia per le cose dell’anima.
Quest’idea è entrata in crisi con l’inizio della modernità, segnata dalla nascita degli Stati nazionali e dalla spaccatura provocata dalla Riforma protestante.
La coscienza cattolica, però, ha continuato a puntare sulla visione antica come forma ideale di collocazione della Chiesa nella storia. Questa mentalità è così profondamente radicata, che ancora oggi molti cattolici non riescono a concepire che nei nostri paesi vi siano giovani che si sposano civilmente o vecchi che dispongono di avere, da morti, un funerale esclusivamente civile.
La Chiesa come società, perfetta, gerarchica e ineguale è anche stata una forma di difesa contro le ingerenze dell’assolutismo prima, e degli stati liberali poi (2), ma ha portato ad una realtà ecclesiale fondata più sulla legge che sull’amore fraterno, dove il cristiano vive nell’anonimato, con una fede più anagrafica che liberamente vissuta, e il parroco è sovente più funzionario che pastore.

La Chiesa comunità
L’idea di società è stata superata dal Concilio e, nella ricerca di una nuova forma di Chiesa che ne è seguita, è sembrato di poter trovare la risposta in una parola magica: “comunità”.
Oggi si sente più forte che in altri tempi il bisogno di vivere la Chiesa come un’esperienza quotidiana di concreti rapporti tra persone concrete e la parrocchia non sembra rispondere a questo bisogno, perché è troppo grande, raccoglie persone troppo disparate, è troppo burocratizzata.
Il piccolo gruppo, invece, nasce spontaneamente e raccoglie persone omogenee per età, per temperamento, per ambiente sociale.
Quando nel gruppo si fa l’eucaristia, celebrata in maniera familiare, si crea facilmente un clima di emozione. Si esce da quella messa con una forte carica spirituale ed è inevitabile il paragone con la messa parrocchiale, il più delle volte anonima e spenta.
Il contrasto è così forte che uno non può fare a meno di dire che la prima è una vera esperienza di Chiesa e la seconda no.
Di questo limite ne è anche consapevole la parrocchia, che cerca di realizzare nuove forme di aggregazione, nelle quali i rapporti tra le persone e la conseguente possibilità di realizzare un’esperienza di vita comune siano in primo piano.
Ma per molti la parrocchia non basta più e cercano di alimentare e condividere la propria fede altrove: ecco perché nel mondo cattolico vi è un pullulare di gruppi, associazioni, movimenti.
Il vasto risveglio comunitario che oggi si registra nella Chiesa offre, senza dubbio, a molti la possibilità di una forte esperienza ecclesiale.
A parte le comunità di base che si muovono nell’ambito delle parrocchie stesse, la proposta di vita comunitaria che viene dalle associazioni, dai gruppi e dai movimenti ha una caratteristica importante da tenere in gran conto. Essa chiede a chi intende di condividere non solo la pura fede nel Vangelo di ma anche una particolare linea di spiritualità, uno specifico carisma, un modo diverso di porsi nella società, uno specifico interesse da perseguire o, semplicemente, un certo stile di vita. In questo sta la sua forza e il suo limite.

La Chiesa popolo di Dio
Anche la Chiesa degli inizi ha sentito con grande forza il valore dei vincoli comunitari. Ce lo testimoniano i “riassunti” presenti negli Atti degli Apostoli (At 2,44-47; 4,32-35).
Ma i primi cristiani non pensavano affatto di creare una nuova religione, staccandosi dal popolo d’Israele e dalla sua grande tradizione di fede. Non si sentivano neanche una setta giudaica ma il compimento pieno che quel popolo, chiamato da Dio, andava assumendo.
L’inserimento dei pagani creò gravi problemi e lo si risolse dichiarando superata la legge mosaica come strumento assolutamente necessario per la salvezza. Fu questa la grande battaglia sostenuta da Paolo: basta la fede in Gesù per appartenere al popolo di Dio ed essere salvi.
Proprio a partire da questo principio fondamentale la Chiesa si è sempre trovata a suo agio nella forma di “popolo”. Ebrei e greci, uomini e donne, schiavi e padroni, tutti possono farne parte. Così molto presto si ammisero nella Chiesa anche i bambini, né mai si esclusero i tiepidi, i dubbiosi, i peccatori.
Papi e vescovi sapevano benissimo che da questo punto di vista, lungo la storia cristiana, non pochi di loro, per primi avrebbero potuto essere cacciati dalla Chiesa.
La forma di popolo si è perpetuata nella Chiesa soprattutto attraverso il battesimo dei bambini, e questo carattere di aggregazione popolare ha permesso il suo forte inserimento nella storia, nella cultura e nelle tradizioni di ciascun popolo.
La Chiesa è “popolo di Dio”: essa non è una specie di aristocrazia spirituale che si distacca dalla comune convivenza umana. Da qui deriva il fatto che alcuni, accostandosi alla vita di una normale comunità cristiana, parrocchiale, ne restano delusi.
Credevano di trovarvi dei supermen della vita spirituale, invece vi incontrano della povera gente, carica di incoerenze e debolezze.
D’altra parte così oseranno accostarsi alla Chiesa, in cerca di salvezza, anche quei peccatori, da tutti segnati a dito, che Gesù amava e cercava. E chiunque vi potrà apprendere cosa significhi che la speranza dell’uomo va riposta nella grazia di Dio più che nei propri meriti.
* teologo

Testo tratto da: S. Dianich, La casa del popolo di Dio, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 1993, pag. 61-69 (supplemento a Jesus, dicembre 1993). Sintesi a cura di Franco Rosada.

(1) Cfr. Christifideles laici, n.26: La parrocchia è “ultima localizzazione della Chiesa, in un certo senso la chiesa stessa che vive in mezzo alla case dei suoi figli e delle sue figlie”.
(2) Cfr. G. Ghirlanda, Introduzione al diritto ecclesiale, Piemme, Casale Monferrato 1993.

La parrocchia: un'intuizione biblica

di Enzo Bianchi *
La parola “parrocchia” deriva dal greco paroikía, che significa letteralmente “presso le case” e pároikos è colui che risiede in situazione di “stranierità”, lontano dalla propria casa, a ridosso delle dimore altrui.
La lettera a Diogneto ci fornisce un suggestivo ritratto della condizione dei cristiani nel mondo. Essi sono degli stranieri domiciliati, per i quali “ogni terra straniera è patria e ogni patria terra straniera” (5,5).
Il loro stile di vita è quello del viaggiatore, che vive una quotidiana precarietà, che soggiorna presso gli altri ma resta sempre uno straniero, perché la sua cittadinanza vera, il suo stile di vita è nei cieli, dove non si è più “stranieri e pellegrini” ma “ospiti di Dio” (Ef 2,19).
Questa coscienza è ben presto assunta dalla Chiesa, se già alla fine del primo secolo Clemente di Roma può rivolgersi alla chiesa di Corinto in questi termini: “La chiesa di Dio che soggiorna (paroikoûsa) in Roma alla chiesa di Dio che soggiorna (paroikoûsa) in Corinto”.
Da queste testimonianze si può dedurre che il vocabolo legato al termine paroikía non si applicava alla realtà che noi conosciamo oggi come “parrocchia” ma designava piuttosto la condizione di una chiesa locale in un determinato territorio.
I cristiani che abitavano città e a volte villaggi, che conducevano una vita ordinaria sposandosi, esercitando mestieri diversi, parlando la lingua del luogo, vivevano tuttavia la consapevolezza di essere “altri” e sapevano mostrare la differenza cristiana nel quotidiano, con un comportamento, uno stile di vita diverso pur nella compagnia degli uomini.
Questa condizione pasquale – in base alla quale si sta nel mondo, solidali con l’umanità, ma si è cittadini del regno veniente – viene bene espressa dal verbo paroikeîn “soggiornare da stranieri”, il quale dice come la parrocchia si sia edificata su un’intuizione biblica.
* priore della comunità di Bose

Testo tratto da: E. Bianchi, R. Corti, La parrocchia, Edizioni Qiqajon, Magnano 2004, pag. 15-17.