Foglio di collegamento tra Gruppi Famiglia

GF100 – dicembre 2018

LA PIÙ GRANDE AMICIZIA

Amoris laetitia: l'inno alla carità di san Paolo

 

Lettere alla rivista

1-I CORSI DI PREPARAZIONE AL MATRIMONIO

Far risuonare nelle coppie l’annuncio del Vangelo

Anche se in diminuzione, diverse coppie che scelgono il matrimonio religioso lo fanno non per fede ma per una serie di condizionamenti sociali. Questo di solito emerge nei corsi di preparazione al Sacramento. Perché la Chiesa permette che si sposino?

Alessandro

 

Le motivazioni che sono alla base della scelta del matrimonio religioso sono le più diverse. Questo non deve stupire.

Le coppie sono fatte di uomini e donne che vivono questo tempo di trasformazioni epocali rapide, a tutti i livelli; per cui – in assenza della consapevolezza della necessità di riferimenti comuni e condivisi, soprattutto per quanto riguarda la vita religiosa – ci si rifugia in visioni individualistiche, autoreferenziali, che immediatamente rassicurano ma non aprono alla ricerca della verità.

La domanda che mi pongo ora è: in che modo le comunità parrocchiali (ministri ordinati e laici) che vengono a contatto con queste coppie, possono stimolarle ad una ricerca di motivazioni più coerenti con la scelta maturata o far emergere quelle motivazioni di fede-fiducia presenti ma troppo trascurate?

L’agire pastorale, oggi, indica quotidianamente che non si può sempre supporre ci sia fede in chi ascolta. Occorre ridestarla in coloro nei quali si è spenta, rinvigorirla in coloro che vivono nell’indifferenza, farla scoprire, con l’impegno personale, alle nuove generazioni.

Le coppie dei gruppi famiglia che si occupano di percorsi prematrimoniali hanno, nelle varie opportunità di incontro con le coppie che chiedono il matrimonio religioso, una splendida opportunità di cogliere e di far emergere – assumendo lo stile di Gesù – la fede-fiducia che le anima.

Gesù, infatti, fa emergere la fede già presente nell’altro, attraverso la sua presenza di uomo-Dio affidabile e ospitale che, prima di guarire e a salvare, coglie la fede di chi a Lui si rivolge.

Fede-fiducia nella vita, negli altri, prima ancora che in Dio: non è infatti possibile, parafrasando un passo della Prima Lettera di Giovanni, “credere in Dio che non si vede, se non sappiamo credere all’altro, al fratello che si vede” (cfr 1Gv 4,20).

L’esperienza maturata attraverso diversi incontri con le coppie che chiedono il matrimonio religioso, indica che questo stile, ossia questa modalità di essere testimoni, trasmette, nelle persone più attente e sensibili, stimoli per “guardarsi dentro” e in profondità. “Solo a partire da una buona qualità dei rapporti umani – sostengono i vescovi italiani – sarà possibile far risuonare nei nostri interlocutori l’annuncio del Vangelo: essi l’hanno ascoltato, ma magari sonnecchia nei loro cuori in attesa di qualcuno o di qualcosa che ravvivi in loro il fuoco della fede e dell’amore” (1).

don Giovanni Villata

1 CEI, Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, Roma 2001, n.57.

 

Dialogo tra famiglie

2-QUANDO L’AMORE APPASSISCE

Imparare a credere con Fede e ad amare

 

Da tempo non provo più nulla nei confronti di mio marito. Purtroppo sono credente e non me la sento di divorziare. Perché questa catena?

Giulia

 

Perché è appassita la delicata piantina che era florida tempo fa? (non so da quanto siete sposati e se amavi davvero tuo marito e se, invece, è stata una scelta superficiale).

Mettiti davanti a uno specchio, guardati negli occhi senza cercare colpe altrui: già Adamo ha dato la colpa della sua disobbedienza a Eva e a Dio “la donna che Tu mi hai dato”. A te Dio ha regalato un uomo e, forse, dei figli.

Ripercorri con lealtà la vostra vita, cerca le radici, lontane e vicine, di questa situazione: le nostre vite a volte dipingono paesaggi meravigliosi, altre volte paesaggi scuri e dolorosi; entrambi fanno parte del cammino di chi sta imparando ad amare!

Ad amare, non a ‘sentire’!

Cosa vuol dire ‘non sento più niente’? Gli adolescenti si fermano al sentire, gli adulti no, a meno che siano diventati adulti solo per età, non per maturità…

Scrivi anche: “purtroppo sono credente”. Quel purtroppo dice che appartieni anagraficamente ad una religione, che probabilmente sei anche praticante, ma senza Fede, senza aver capito il sogno di Dio sull’uomo, altrimenti non parleresti di catene…

L’amore vive di libere scelte continue, quotidiane, non di rimpianti. Un bravo vivaista sa far rivivere le piantine morenti: fatti aiutare a riscoprire amore e Fede! Auguri!

Anna Lazzarini

 

Editoriale

3-SIAMO ARRIVATI A 100!

Molti sono stati i temi trattati in questi ventinove anni sempre orientati a sostenere le attività dei gruppi famiglia

 

di Franco Rosada

Dopo ventinove anni, oggi siamo qui a festeggiare l’uscita del centesimo numero!

Da alcune foto di matrimonio che illustrano questo numero si capisce quanto tempo è passato; molti di voi a cui mi sono rivolto mi hanno ricordato che le foto le avevano, ma erano in bianco e nero!

Ecco, l’uso del colore. È da nove anni che la rivista viene stampata in quadricromia e posso dire che questo miglioramento, voluto fortemente da Toni Piccin, ha segnato anche una svolta nei contenuti della rivista.

La rivista, da allora, è passata da essere un collage di sintesi tratte da articoli ad uno stile sempre più monografico.

Segue un invito: se cercate un argomento per il vostro gruppo famiglia provate, prima di fate tante ricerche, a visitare il nostro sito (www.gruppifamiglia.it) e a cliccare su “ricerca argomenti nel sito”; avrete buone probabilità di trovare ciò che cercate. Se poi desiderate approfondire qualche aspetto del tema ricordatevi che in molti numeri è presente una buona bibliografia.

Questa nuova struttura della rivista ha comportato da parte mia un nuovo tipo di impegno.

Quando, nell’anno 2000, era stato proposto a me e a mia moglie dall’allora coppia responsabile - Céline e Paolo Albert - di occuparci della redazione della rivista non pensavo che, con il tempo, questo impegno sarebbe diventato così assorbente, ma nel contempo anche così interessante.

In parte questo è legato alla nomina al soglio pontificio di papa Francesco, che ha riportato l’attenzione dei credenti su molti temi noti, ma proposti con un nuovo stile.

In parte dipende invece dall’evoluzione (anche se per molti viene considerata involuzione) dell’istituto matrimoniale.

Molti cambiamenti sono avvenuti negli ultimi anni intorno al tema famiglia: dal divorzio sempre più “facile” alle unioni civili e al diffondersi delle convivenze, tanto che ora un bambino su quattro nasce da coppie non sposate.

Anche il quadro sociale ha subito notevoli cambiamenti: la “grande recessione” ha lasciato il suo segno pesante su molte coppie e famiglie, mentre la secolarizzazione continua ad allontanare sempre più persone, soprattutto giovani e di mezza età, dalla pratica religiosa.

Di tutto questo abbiamo provato a darvi conto sulla rivista e contiamo a farlo anche nei prossimi numeri, confidando nella vostra collaborazione e nel vostro sostegno.

formazionefamiglia@libero.it

 

4-La Carità e il matrimonio

Lo Spirito Santo è stato “riscoperto” dalla teologia cattolica solo di recente, praticamente a partire dal Concilio Vaticano II. Questa mancanza aveva portato nei secoli a dimenticare, in Teologia Morale, il primato dell’amore.

Papa Francesco ha ben presente il primato della Carità e scrive proprio a partire da una ben viva e radicata esperienza dello Spirito.

Per questo il quarto capitolo è una lunga riflessione sull’amore, condotta alla luce dello straordinario inno di 1Cor 13 applicato alla vita matrimoniale.

Le sue non sono pie riflessioni adatte alla meditazione più che alla teologia, al contrario: se la Teologia Morale non torna a radicarsi nella Carità inevitabilmente finirà con il cadere nel legalismo. Infatti, un principio morale che non sia dedotto da 1Cor 13 non può nemmeno dirsi cristiano, appunto perché mancherebbe in esso lo Spirito Santo, cioè il quid specifico portato dal Cristianesimo, ciò che lo rende così diverso da ogni altra religione.

Così non ha senso parlare dei principi morali del matrimonio se non a partire dall’amore e da quel potenziamento dell’amore che è l’incontro con il Dio-Carità (cfr AL n. 89).

Per poter fare questo però, poiché “la parola amore, che è una delle più utilizzate, molte volte appare sfigurata”, è necessaria innanzitutto una ridefinizione dell’amore che sia fondata sulla Parola di Dio.

Per questo giustamente il Papa si rivolge alla pagina biblica forse più celebre sull’amore sottolineando che “questo si vive e si coltiva nella vita che condividono tutti i giorni gli sposi, tra di loro e con i loro figli” (AL n. 90).

Certo, si vive già oggi così nelle famiglie, ma come desiderio, come orizzonte, non certo come ideale già raggiunto, altrimenti non ci sarebbe stato evidentemente bisogno di un testo autorevole della Chiesa che rimettesse l’amore al centro della predicazione sulla famiglia!

don Fabio Bartoli

Sintesi della redazione

 

5-LA PIÙ GRANDE AMICIZIA

Dopo l’amore che ci unisce a Dio, l’amore coniugale è la “più grande amicizia”. È un’unione che possiede tutte le caratteristiche di una buona amicizia: ricerca del bene dell’altro, reciprocità, intimità, tenerezza, stabilità, e una somiglianza tra gli amici che si va costruendo con la vita condivisa. Però il matrimonio aggiunge a tutto questo un’esclusività indissolubile, che si esprime nel progetto stabile di condividere e costruire insieme tutta l’esistenza (AL n.123).

 

di Franco Rosada

Questo numero non a caso ha per titolo “la più grande amicizia”, una definizione del matrimonio che senz’altro colpisce durante la lettura dell’Esortazione Amoris laetitia.

Corriamo però il rischio di subire il fascino di questa definizione, senza provare ad analizzare tutta la frase in cui papa Francesco l’ha inserita.

 

I volti dell’amicizia

In primo luogo siamo chiamati a coltivare l’amicizia con Dio, che è la più grande in assoluto (p.e. vedi pag. 22-23 per il commento di Efesini 5,21-33), poi siamo invitati a capire in che cosa consiste l’amicizia e quali sono le sue caratteristiche.

Nei rapporti tra uomini e donne la parola amicizia assume molteplici sfumature. “Possiamo diventare amici?” chiede l’adolescente alla ragazza che gli ha “scaldato” il cuore; “siamo solo buoni amici”, si risponde a chi ci interroga circa una relazione su cui non ci vogliamo pubblicamente sbilanciare; “sono legati da un’affettuosa amicizia”, scrivono le riviste di gossip quando un uomo e una donna, non sposati tra loro, manifestano in pubblico i loro sentimenti; “restiamo amici?” si interrogano due amanti alla fine di una relazione; “siamo rimasti amici” è la risposta che viene fornita spesso dagli interessati quando il divorzio non è stato traumatico.

 

La più grande amicizia

L’espressione “maxima amicitia” è tratta dall’opera “Summa contra Gentiles” (1) di san Tommaso d’Aquino – di cui parleremo nel prossimo numero – che a sua volta ha ricavato il concetto dal filosofo greco Aristotele (2).

Per il filosofo l’amicizia è una virtù, cioè un mezzo per conseguire la felicità, per attuare pienamente se stessi (3).

Vi sono, per Aristotele, tre tipi di amicizia che dipendono da “ciò che è degno di essere amato” e che può essere ciò che è “buono o piacevole o utile”.

L’amicizia a cui fa riferimento Aristotele vale per tutti i tipi di relazione ma, come suggerisce il Papa, la dobbiamo esaminare soprattutto nell’ottica delle relazioni tra uomini e donne.

 

L’innamoramento

Qual è l’elemento che dà origine ad una coppia? Di solito è l’innamoramento che la cantante Anna Oxa presenta così: “È un’emozione nella gola, da quando nasce a quando vola, che cosa c’è di più celeste di un cielo che ha vinto mille tempeste, che cosa c’è se adesso sento queste cose per te” (4).

Più prosaicamente, Aristotele annota che “i giovani sono inclini alla passione amorosa, giacché gran parte del sentimento amoroso segue la passione e deriva dal piacere”, e commenta: “perciò essi s’innamorano e cessano d’amare rapidamente”.

Sembra la descrizione delle relazioni in questo inizio di millennio, ma in realtà sono tipiche di ogni società libera e opulenta.

 

L’amore “fragile” ieri

Arriva però un momento della vita in cui si sente la necessità di fermarsi e coltivare una relazione “stabile”, una “grande” amicizia. Senza amicizia, scrive il filosofo, “nessuno sceglierebbe di vivere, anche se possedesse tutti gli altri beni”.

Il pensiero logico che anima Aristotele lo porta, come già visto, a fondare questa relazione o sul buono o sul piacevole o sull’utile. Nella realtà di coppia tutti e tre questi elementi sono di solito presenti, anche se la durata e la qualità della relazione dipende da quale di questi tende a prevalere.

Infatti, scrive il filosofo, “Quelli che amano per il piacere lo fanno per ciò che è piacevole per loro, e non in quanto l’amato è quello che è, ma in quanto è utile o piacevole”.

Capita così, scrive Aristotele, che l’amato si lamenti “perché l’amante prima gli ha promesso di tutto”, ma poi “non mantiene nulla”. E commenta: “Tali cose succedono quando l’uno ama l’amato per il piacere, l’altro ama l’amante per l’utile, ma nessuno dei due ottiene ciò che desidera”.

Oppure capita che gli amanti, avendo basato la loro relazione in vista di un vantaggio, “chiedano sempre di più, e credano sempre di ricevere meno del dovuto, e rinfaccino all’altro di non ottenere da lui tanto quanto chiedono, pur essendone meritevoli”.

Sono due esempi di dissapori amorosi, validi oggi come duemilacinquecento anni fa.

C’è ancora un altro aspetto che sottolinea il filosofo, e cioè che le persone, con il trascorrere del tempo, “non rimangono uguali a se stesse”, e quando uno dei due amanti “non è più utile o piacevole, l’altro cessa di amarlo”.

La conclusione di Aristotele è lapidaria: “le amicizie di tale natura – basate sull’utile o sul dilettevole – si dissolvono facilmente”.

 

… e oggi

Gli psicologi Eugenia Scabini e Vittorio Cigoli (5), usando il linguaggio contemporaneo, affermano che in un matrimonio vi sono delle aspettative dichiarate ed altre sottese, che ciascuna delle due parti - pur senza dichiararlo - si attende dalla relazione. La durata della relazione dipende da quanto questi due tipi di aspettative coincidono (il buono, il piacevole e l’utile).

Gli autori sottolineano anche che gli sposi hanno bisogno, nel corso della vita, di misurarsi con tre diverse forme di matrimonio: “in giovinezza l’amore romantico e appassionato; per allevare i figli un rapporto con responsabilità condivise; più tardi nella vita un rapporto con forti capacità affettive e di accudimento reciproco”. Infatti, con il trascorrere del tempo, le persone “non rimangono uguali a se stesse”.

 

L’amore che “dura”

Quando un’amicizia amorosa può durare nel tempo? È, secondo il filosofo, quella che nasce tra soggetti “buoni e simili per virtù: costoro, infatti, vogliono il bene l’uno dell’altro, in modo simile, in quanto sono buoni. Coloro che vogliono il bene degli amici per loro stessi sono i più grandi amici; infatti, provano questo sentimento per quello che gli amici sono per se stessi, e non accidentalmente”.

Quindi, “l’amicizia di costoro perdura finché essi sono buoni, e, d’altra parte, la virtù è qualcosa di permanente”.

Siamo di fronte alla forma più grande di amicizia: l’amicizia coniugale.

 

Vediamo ora, seguendo il testo di papa Francesco proposto in apertura di articolo, quali sono le caratteristiche di questa amicizia.

 

Il bene dell’altro

L’amicizia tra marito e moglie, scrive Aristotele, è caratterizzata “sia dall’utilità sia dal piacere”. Ma si può fondare anche “sulla virtù, quando gli sposi sono persone per bene: c’è infatti una virtù propria di ciascuno di loro, ed essi ne proveranno gioia”.

Papa Francesco, in una sua omelia, ha affermato che “la terra si riempie di armonia e di fiducia quando l'alleanza tra uomo e donna è vissuta nel bene. E se l'uomo e la donna la cercano insieme tra loro e con Dio, senza dubbio la trovano. Gesù ci incoraggia esplicitamente alla testimonianza di questa bellezza che è l'immagine di Dio” (6).

Mentre, in Amoris laetitia, parla della “capacità di porre la felicità dell’altro al di sopra delle proprie necessità, e alla gioia di vedere il proprio matrimonio come un bene per la società” (n. 220).

 

La reciprocità

Su questo tema il nostro filosofo risente della cultura del suo tempo. Infatti scrive: “La comunità di marito e moglie è manifestamente di tipo aristocratico: il marito, infatti, esercita l’autorità conformemente al suo merito, e nell’ambito in cui è il marito che deve comandare; quanto invece si addice alla moglie, lo lascia a lei”.

Per Aristotele il maschio è superiore alla femmina, riconoscendo però una diversità di ruoli e l’importanza del merito.

Inoltre, afferma che “il marito che comanda su tutto trasforma la comunità matrimoniale in oligarchia, perché fa questo al di là del suo merito, cioè non per quanto è superiore alla moglie”.

Molto più attuali sono le parole di papa Francesco: “L'esperienza ce lo insegna: per conoscersi bene e crescere armonicamente l'essere umano ha bisogno della reciprocità tra uomo e donna.

Quando ciò non avviene, se ne vedono le conseguenze. Siamo fatti per ascoltarci e aiutarci a vicenda. Possiamo dire che senza l'arricchimento reciproco in questa relazione – nel pensiero e nell'azione, negli affetti e nel lavoro, anche nella fede – i due non possono nemmeno capire fino in fondo che cosa significa essere uomo e donna” (7).

E, in Amoris laetitia, citando una catechesi di san Giovanni Paolo II, scrive: “L’amore esclude ogni genere di sottomissione [...]. La comunità o unità, che essi debbono costituire a motivo del matrimonio, si realizza attraverso una reciproca donazione, che è anche una sottomissione vicendevole” (n. 156).

 

L’intimità

Oggi, nei rapporti amorosi, l’intimità fisica è uno dei primi traguardi della relazione ma papa Francesco fa notare che anche se “molte coppie stanno insieme tanto tempo, magari anche nell'intimità, a volte convivendo, non si conoscono veramente. Sembra strano, ma l’esperienza dimostra che è così” (8).

In Amoris laetitia il Santo Padre ci ricorda che l’intimità profonda dell’amato non è alla portata dell’amante. Infatti scrive: “C’è un punto in cui l’amore della coppia raggiunge la massima liberazione e diventa uno spazio di sana autonomia: quando ognuno scopre che l’altro non è suo, ma ha un proprietario molto più importante, il suo unico Signore.

Nessuno può pretendere di possedere l’intimità più personale e segreta della persona amata e solo Lui può occupare il centro della sua vita”(n. 320).

 

La tenerezza

In un periodo segnato dall’edonismo, tendiamo a legare questa parola alle manifestazioni erotiche tra amanti ma il suo significato è decisamente più ampio.

Papa Francesco, in una sua omelia, ci ricorda che “tenerezza è avere un cuore ‘di carne’ e non ‘di pietra’ (cfr Ez 36,26)” (9).

In Amoris laetitia, poi, parla della tenerezza più volte.

Infatti, “La tenerezza è una manifestazione dell’amore che si libera dal desiderio egoistico di possesso. Ci porta a vibrare davanti a una persona con un immenso rispetto e con un certo timore di farle danno o di toglierle la sua libertà” (n. 127).

È qualcosa “in grado di suscitare nell’altro la gioia di sentirsi amato. Essa si esprime in particolare nel volgersi con attenzione squisita ai limiti dell’altro, specialmente quando emergono in maniera evidente” (n. 323).

Quindi, “Il matrimonio è ‘un’unione affettiva’, spirituale e oblativa, che però raccoglie in sé la tenerezza dell’amicizia e la passione erotica, benché sia in grado di sussistere anche quando i sentimenti e la passione si indebolissero” (n. 120).

 

La stabilità

Scrive Aristotele: l’amicizia tra un uomo e una donna “richiede tempo e consuetudine di vita comune; secondo il proverbio, infatti, non è possibile conoscersi reciprocamente finché non si è consumata insieme la quantità di sale di cui parla appunto il proverbio: prima di conoscere bene una persona, ci devi mangiare insieme sette chili di sale”.

La scelta della convivenza, che molte coppie di giovani oggi fanno, in una qualche misura rientra in quest’ambito: prima di impegnarmi “per sempre” voglio provare se relazione funziona anche nella quotidianità.

Questo orientamento giovanile interroga sempre di più le famiglie e la pastorale.

Già san Giovanni Paolo II riconosceva, nella Familiaris consortio, che alla base della scelta di un’unione di fatto potevano “esserci elementi molto diversi fra loro”: oltre alla sola ricerca del piacere, ci poteva essere il timore di perdere dei vantaggi economici, la contestazione dell'istituto familiare, l’immaturità psicologica, ecc. (cfr n. 81).

Oggi, a trentacinque anni di distanza, papa Francesco riconosce che, nella società, “non si avverte più con chiarezza che solo l’unione esclusiva e indissolubile tra un uomo e una donna svolge una funzione sociale piena, essendo un impegno stabile e rendendo possibile la fecondità” (AL n. 52).

Il matrimonio, diventa così un valore ideale da coltivare. “La decisione di dare al matrimonio una configurazione visibile nella società… manifesta la sua rilevanza: mostra la serietà dell’identificazione con l’altro, indica un superamento dell’individualismo adolescenziale ed esprime la ferma decisione di appartenersi l’un l’altro” (AL n. 34).

 

La somiglianza

“Persistendo nell’amicizia”, scrive Aristotele, gli sposi “finiscono con l’amare i rispettivi caratteri, essendo divenuti simili fra di loro”.

Se si vuole davvero il bene dell’altro è necessario un adattamento reciproco dei gusti e delle esigenze, anche se le differenze permangono.

Su un piano più elevato, “la differenza tra uomo e donna non è per la contrapposizione, o la subordinazione, ma per la comunione e la generazione, sempre ad immagine e somiglianza di Dio”, ha spiegato in un’omelia papa Francesco (10).

 

L’indissolubilità

Al tempo di Aristotele non si parlava certo di indissolubilità del matrimonio e anche nel popolo eletto era previsto il ripudio (cfr Mc 10,4).

Non era invece presente la poligamia, poiché il filosofo scrive che “l’amore è simile ad un eccesso, e un sentimento di questo genere si rivolge, per sua natura, ad una sola persona”.

Così, per coloro che coltivano le buone virtù, “tale amicizia, naturalmente, è permanente, giacché congiunge in sé tutte le qualità che gli amici devono possedere”.

Anche se, si affretta ad aggiungere, “è naturale che simili amicizie siano rare, giacché pochi sono gli uomini di tale natura”.

Sul tema dell’indissolubilità papa Francesco, in Amoris laetitia, torna più volte.

“L’indissolubilità del matrimonio non è innanzitutto da intendere come ‘giogo’ imposto agli uomini, bensì come un ‘dono’ fatto alle persone unite in matrimonio” (AL n. 62).

E, sempre su questo tema, aggiunge: “L’amore matrimoniale non si custodisce prima di tutto parlando dell’indissolubilità come di un obbligo, o ripetendo una dottrina, ma fortificandolo grazie ad una crescita costante sotto l’impulso della grazia” (AL n. 134).

Infatti, la riuscita di un matrimonio è sempre un dono di grazia, come già a suo tempo scriveva san Roberto Bellarmino: “Il fatto che un uomo e una donna si uniscano in un legame esclusivo e indissolubile, in modo che non possano separarsi, quali che siano le difficoltà, e persino quando si sia persa la speranza della prole, questo non può avvenire senza un grande mistero” (AL n. 124).

formazionefamiglia@libero.it

 

1 Summa contra Gentiles, Libro III, capitolo 123, n.5

2 Etica nicomachea, Libro VIII, n.12

3 Fonte: www.skuola.net

4 Fonte: parliamoitaliano.altervista.org

5 Il familiare, Raffaello Cortina Editore, Milano 2000.

6 Omelia del 15 aprile 2015

7 Ibidem

8 Omelia del 27 maggio 2015

9 Omelia del 18 marzo 2015

10 Omelia del 15 aprile 2015

 

Per il lavoro di coppia e di gruppo

•          Quanto la parola amicizia trova spazio nel nostro matrimonio?

•          Quali, tra le caratteristiche del matrimonio elencate da papa Francesco, sono più presenti nella nostra unione?

•          Nei confronti di quelle meno presenti quale spiegazione ci diamo?

 

6-La carità è paziente

La prima espressione utilizzata è macrothymei. La traduzione non è semplicemente “che sopporta ogni cosa”. Il senso si coglie dalla traduzione greca dell’Antico Testamento, dove si afferma che Dio è “lento all’ira”. Il potere di Dio si manifesta quando agisce con misericordia.

 

Essere pazienti non significa lasciare che ci maltrattino continuamente, o tollerare aggressioni fisiche, o permettere che ci trattino come oggetti. Il problema si pone quando pretendiamo che le relazioni siano idilliache o che le persone siano perfette, o quando ci collochiamo al centro e aspettiamo unicamente che si faccia la nostra volontà.

Allora tutto ci spazientisce, tutto ci porta a reagire con aggressività. Se non coltiviamo la pazienza, avremo sempre delle scuse per rispondere con ira, e alla fine diventeremo persone che non sanno convivere, antisociali incapaci di dominare gli impulsi, e la famiglia si trasformerà in un campo di battaglia.

L’amore comporta sempre un senso di profonda compassione, che porta ad accettare l’altro come parte di questo mondo, anche quando agisce in un modo diverso da quello che io avrei desiderato.

Amoris laetitia n.92

 

di Nicoletta e Davide Oreglia

Giulia si sente in apnea, vorrebbe respirare, ma è come avesse la testa sott’acqua da troppo tempo.

Tutto è iniziato con l'influenza del piccolo... Avevano progettato di regalarsi una domenica di svago lei e Gianni ed invece sabato pomeriggio ecco la sorpresa: febbre a 40°. Per carità niente di grave però la domenica è passata e poi in settimana due riunioni a scuola e l'incontro in parrocchia hanno riempito tutti i buchi delle giornate. Prima ha provato sconforto e poi rabbia, anche perché il suo Gianni pare non essersi reso conto di nulla... Con il suo benedetto pragmatismo ha detto: “Pazienza Giulia, dai andrà meglio tra qualche giorno”.

E questo ha innervosito ancora di più la moglie perché le ha bloccato lo spazio della lamentazione. Giulia non è una lagna, ma a volte ha bisogno di poter fare le lamentazioni e stavolta Gianni non le ha lasciato lo spazio in cui farlo.

L'anno scorso era successa una cosa simile e lei aveva chiesto alla sua amica Lucia di andare a prendere un caffè insieme. Giulia conosce Lucia da una vita e così l'ha di nuovo cercata con questa richiesta esplicita: “Ho bisogno di fare due chiacchiere sennò scoppio”.

Lucia aveva risposto al richiamo, solerte e veloce come solo un'amica sa fare. Ma poi, lì al bar, mentre Giulia si lamentava del lavoro, dei figli, dei suoi e di Gianni, Lucia aveva ascoltato e poi guardando Giulia negli occhi aveva rincarato la dose dicendo: “Hai ragione, il tuo Gianni è un insensibile, come mio marito, come tutti gli uomini. Io sono stufa di tutto questo e gliel'ho detto: o si cambia, o me ne vado e ti faccio vedere io di cosa sono capace!”.

Giulia era salita sulla barca della sua amica Lucia che non si chiamava “lamentazione e ricerca di sostegno” ma “rivendicazione e ripicca”.

Ma quando Giulia si è trovata fuori dal locale ha sentito che sulle sue spalle c'era un peso, una rabbia che non erano le sue. Aveva imbarcato la rabbia di Lucia, per un attimo pensava fosse sua, ma poi ha visto con chiarezza che la sua amica viveva forse più fatiche delle sue. Giulia, invece di un po' di sostegno, aveva trovato un amplificatore alle sue ombre. Serviva accendere una luce...

Questa volta cambiamo modalità, si era detta Giulia. Così aveva preso il telefono e aveva chiamato Gianni: "Ciao Gianni, sono Giulia... No, tutto bene, avevo solo voglia di sentirti. Come? Un caffè con me? Tu? Stamattina? Sì che ne ho voglia. Ma con i tuoi colleghi? No, solo noi due. Va bene ci vediamo al bar alle 11,15. Ah, Gianni... grazie, ti amo!”

Ecco un amore che si eleva, non lo fa snobbando le fatiche o stigmatizzandole, ma prendendole in considerazione in modo creativo. Sperimentando vie nuove per incontrarsi di nuovo.

Una umanità bella non è una umanità perfetta, ma in cammino verso la pienezza che ci attende poi.

Rendersi conto delle nostre strategie buone e perfezionarle è un segreto importante per la nostra vita di singoli e di coppia, ma ciò che rende il cammino più sicuro è la capacità di vedere che a volte facciamo cose che non ci aiutano e tentare di evitarle.

 

7-Benevola è la carità

Segue la parola chresteuetai, derivata da chrestos (persona buona).

San Paolo vuole mettere in chiaro che la “pazienza” nominata al primo posto non è un atteggiamento totalmente passivo, bensì è accompagnata da un’attività, da una reazione dinamica e creativa nei confronti degli altri.

 

L’amore non è solo un sentimento, ma si deve intendere nel senso che il verbo “amare” ha in ebraico, vale a dire: “fare il bene”.

In questo modo l’amore può mostrare tutta la sua fecondità, e ci permette di sperimentare la felicità di dare, la nobiltà e la grandezza di donarsi in modo sovrabbondante, senza misurare, senza esigere ricompense, per il solo gusto di dare e di servire.

Amoris laetitia n.94

 

di Paolo Albert

Papa Francesco desidera invitarci a vivere la carità non come un’astrazione teologica ma in una dimensione umana, etica, illuminata dallo Spirito, sempre nel concreto delle situazioni che vive la coppia e la famiglia.

Il testo di san Paolo ci spiega cos’è l’amore che proviene dal Signore nella sua ricchezza e novità di sempre.

In quest’ottica, Amoris laetitia (AL) non vuole essere un trattato sul matrimonio, ma una meditazione sull’amore coniugale. Il matrimonio è combinazione di gioie, fatiche, sofferenze, soddisfazioni.

La benevolenza di cui parla l’apostolo si può tradurre in un atteggiamento di servizio da parte di uno sposo/a che la dimostra con gesti concreti. È donazione senza riserve, senza interessi, per il solo piacere di dare.

Ci dà modo di mostrare tutta la sua fecondità e ci permette di sperimentare la gioia di dare; la nobiltà e la grandezza di donarsi alla moglie, ai figli in modo completo, sovrabbondante, senza misura, senza chiedere ricompense, per il solo gusto di dare e di servire. L’amore-benevolenza fa del bene agli altri e li promuove.

È collegato alla pazienza, che non è un atteggiamento passivo, bensì è accompagnata da un’attività, da una reazione creativa nei confronti degli altri.

Essere buono ti fa sentire “a posto” e di solito genera, a sua volta, “benevolenza” nei tuoi confronti. Ma questa risposta positiva non è dovuta e non sempre c’è. Di sicuro il mio essere benevolo lascia una situazione familiare e di relazione più positiva e distesa, in cui i protagonisti si muovono più a loro agio e con maggiore disponibilità a confrontarsi, aprirsi, essere sinceri con se stessi e con gli altri.

Nella famiglia la benevolenza è esperienza di ogni giorno; non è sempre facile perché sembra che debba negare me stesso. Essa è essenziale per rinnovare ogni giorno la relazione tra marito e moglie.

La benevolenza nasce in gran parte dall’empatia con cui ascolto, rispetto mia moglie/marito, i figli. Quasi sempre il “dono” non è materiale, ma è rendere chiaro all’altro che l’ho ascoltato per davvero, che su quel tema accetto, rispetto, anche dentro di me, mia moglie, i figli.

Penso in modo particolare ai figli che si affacciano alla loro indipendenza, alla loro vita. Qui tante volte le situazioni sono davvero difficili, le idee molto diverse. Con questo nostro comportamento umano, ma illuminato dallo Spirito, percorriamo come una pista per incontrare il Divino.

I genitori devono essere capaci di affidare alla “Provvidenza” i loro figli.

Ciò rasserena e forse permette di seguirli meglio, in un rapporto di libertà, in cui questi sentono nei genitori una vera disponibilità ad accettarli per come sono e pensano. Mi sembra che questa sia una forma importante di essere benevoli in famiglia.

Non è detto che nel corso degli anni non constatiamo anche noi genitori che, tutto sommato, la loro vita non è stata così difficile come ci saremmo aspettati. Ma ciò che è importante è la gioia che godiamo giorno per giorno da una relazione che resta in buoni termini, senza che restino in noi, forse per lunghi anni, rimpianti, rancori…

La benevolenza vissuta in famiglia spinge a esercitarla, portarla fuori.

Un ambito importante è la nostra comunità parrocchiale, il parroco.

Lì si traduce in servizio, in lievito per rapporti di pace, ma anche tenendo viva la speranza che la nostra Chiesa, la nostra parrocchia impari a parlare sempre più della famiglia con il nuovo linguaggio e lo stile suggerito da AL.

 

8-Non è invidiosa

Nell’amore non c’è posto per il provare dispiacere a causa del bene dell’altro. L’invidia dimostra che non ci interessa la felicità degli altri, poiché siamo esclusivamente concentrati sul nostro benessere.

Il vero amore accetta il fatto che ognuno ha doni differenti e strade diverse nella vita.

 

L’amore ci porta a un sincero apprezzamento di ciascun essere umano, riconoscendo il suo diritto alla felicità. Amo quella persona, la guardo con lo sguardo di Dio Padre, che ci dona tutto “perché possiamo goderne”, e dunque accetto dentro di me che possa godere di un buon momento.

Questa stessa radice dell’amore, in ogni caso, è quella che mi porta a rifiutare l’ingiustizia per il fatto che alcuni hanno troppo e altri non hanno nulla, o quella che mi spinge a far sì che anche quanti sono scartati dalla società possano vivere un po’ di gioia. Questo però non è invidia, ma desiderio di equità.

Amoris laetitia n.96

 

di Paola Misciagna

L’invidia è un sentimento corrosivo che inquina i rapporti umani ed altera gli affetti.

Anch’io ho provato questo sentimento diverse volte: pur cercando di non ammettere davanti a me stessa di essere invidiosa (infatti, chi è invidioso è molto meschino), ricordo di avere vissuto questa situazione più di una volta nella mia vita.

Mi è successo quando, da giovane, invidiavo le mie amiche che avevano il fidanzato; le compagne di scuola che trovavano un lavoro mentre io lo stavo ancora cercando; le giovani spose…

Poi, procedendo nel corso degli anni, l’invidia si è presentata meno alla mia porta perché devo dire che godo di una vita piena, divisa fra una bella famiglia e un lavoro che amo.

Forse, qualcosa è anche cambiato in me: ho imparato un po’ di più ad evitare il confronto con gli altri e contemporaneamente ad essere più consapevole di ciò che sono ed ho.

In compenso, da un certo punto in poi, ho sperimentato diverse volte cosa vuol dire essere oggetto di invidia e devo ammettere che, anche se non viene espresso, questo sentimento penetra nei rapporti e li logora pericolosamente.

Come si può infatti vivere un'autentica amicizia con una persona che non condivide le tue gioie?

Che relazione è quella in cui ogni tuo traguardo sembra portare via qualcosa all’altro?

In questo caso, credo sia importante sapersi difendere, innanzitutto con la consapevolezza del fatto che questo sentimento esiste e che può ferire, ma anche che la persona che ne soffre si ritiene inferiore rispetto a te e per questo sta male.

Ultimamente sto dolorosamente sperimentando la difficoltà di superare l'invidia fra me e mio fratello.

Lui, ormai da anni, crede di aver ricevuto dai nostri genitori meno di me e di mia sorella e, per questo motivo, si ritiene legittimato a vivere a una certa distanza da noi e a rinfacciarci periodicamente ciò che gli è mancato.

Chiaramente questo atteggiamento non fa che aumentare le distanze e le incomprensioni reciproche. Purtroppo non siamo ancora riusciti a superare questo conflitto perché, anche se più di una volta c'è stato un riavvicinamento, alla prima occasione si ricade nella vecchia dinamica.

Certo, vivere da invidiosi non è bello. Vuol dire stare con la testa girata da un'altra parte. Al posto di guardare a come potrei migliorare la mia situazione, magari anche attraverso il perdono, osservo con astio quelli che mi sembrano aver raggiunto ciò che doveva spettare a me. Sicuramente si tratta di una grande mancanza di libertà interiore che, oltre ad immergere la persona in un rancore sordo, limita fortemente la possibilità di cercare nuovi sbocchi per la propria vita.

Credo che sia possibile guarire almeno un po' dall'invidia attraverso il riconoscimento di ciò che nella vita ci è stato donato o abbiamo raggiunto. Riconoscimento è anche uguale a ringraziamento. Se diciamo grazie al Signore che ci ha regalato talenti ed occasioni, il nostro cuore si scalda e lo sguardo che posiamo su chi ci sta di fronte si rasserena.

 

9-Non si vanta, non si gonfia d’orgoglio

Segue l’espressione perpereuetai, che indica la vanagloria, l’ansia di mostrarsi superiori per impressionare gli altri con un atteggiamento pedante. La parola seguente – physioutai – è molto simile, perché indica che l’amore non è arrogante. In realtà quello che ci rende grandi è l’amore che comprende, cura, sostiene il debole.

 

È importante che i cristiani vivano questo atteggiamento di umiltà nel loro modo di trattare i familiari poco formati nella fede, fragili o meno sicuri nelle loro convinzioni.

Questo atteggiamento è qualcosa che è parte dell’amore, perché per poter comprendere, scusare e servire gli altri di cuore, è indispensabile guarire l’orgoglio e coltivare l’umiltà.

Nella vita familiare non può regnare la logica del dominio degli uni sugli altri, o la competizione per vedere chi è più intelligente o potente, perché tale logica fa venir meno l’amore.

Amoris laetitia n.98

 

di Toni Piccin

“Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili” (Lc 1,52).

Al contrario di quanto canta il Magnificat, il nostro non è un tempo umile ma presuntuoso: invita a cercare e desiderare ciò che si trova in alto; chi studia, sempre più spesso, non lo fa per sapere ma per arrivare, chi lavora non lo fa con la voglia del creare ma per avere.

Le generazioni passate conoscevano di più l’umiltà, e non solo per l’influenza di una cultura religiosa, imparavano a scoprirla nascosta nella terra che lavoravano con le mani, toccando il legno da modellare, le attrezzature semplici e faticose da usare, i panni poveri, il poco cibo.

Oggi la strumentazione moderna crea l’illusione di onnipotenza.

Umiltà, parola fuori moda, forse dà anche fastidio perché indica qualcosa di basso, al livello del terreno, infimo… magari umiliante.

Eppure, la parola uomo deriva da humus, terra. Così, se scaviamo sotto il livello del terreno ci accorgiamo che lì sotto esiste la matrice della vita vegetale, che è poi matrice di quella animale ed anche umana, come pensavano i nostri antenati (cfr Gn 2, 7).

Possiamo riferirci all’immagine di un albero, dalle radici fino ai rami e foglie; l’umiltà non si insegna ma si impara a viverla in un rapporto corretto con gli altri, mantenendo ognuno il proprio posto con le proprie capacità e doti. Solo così, insieme e ognuno al suo posto, possiamo realizzare una vera comunione umana e spiritualmente feconda.

La mancanza di radicamento, umile e concreto, mette davvero la persona nella condizione di dipendenza ideologica, morale, religiosa…

Siamo convinti di essere noi a scegliere liberamente e invece siamo fortemente condizionati da cose, persone, mode.

L’umiltà invita ad ascoltare voci e pareri diversi, ma permette anche di fermarsi e riflettere per far sedimentare e valutare con obiettività. Solo così possono nascere idee solide cui riferirsi per orientare la vita di ogni giorno.

Ma non solo, essa aiuta a tenere sotto controllo le sensazioni, ovvero le informazioni che ci arrivano da tutti e cinque i sensi perché sia la volontà personale, non l’istinto, a dirigere la nostra vita.

Nel nostro mondo “virtuale” l’uomo ha cancellato l’humus, sostituendolo con la pretesa di sostituirsi a Dio.

Questa virtualità ci impedisce anche di avere un vero rapporto con il “tu”, isola le persone rendendole paurose e incapaci di un vero rapporto con gli altri.

L’umiltà è una medicina efficace e preziosa perché aiuta a prendere atto della verità sul sé, sul mondo, sulla vita.

Si capisce che nelle cose più belle e grandi la nostra parte è molto piccola ed ancora si prende atto che quello che siamo o possediamo lo abbiamo semplicemente ricevuto dalla generosità della vita. Tutto è grazia! L’umile è sempre grato per tutto quello che ha ricevuto ed è grato a Dio per i suoi doni: solo l’umile sa pregare.

Umiltà regina o ancella delle altre virtù? Si potrebbe dire che è l’humus per far fiorire il mondo.

 

10-Non manca di rispetto

L’espressione aschemonei vuole indicare che l’amore non opera in maniera rude, non agisce in modo scortese, non è duro nel tratto. Detesta far soffrire gli altri.

Essere amabile non è uno stile che un cristiano possa scegliere o rifiutare: è parte delle esigenze irrinunciabili dell’amore, perciò “ogni essere umano è tenuto ad essere affabile con quelli che lo circondano”.

 

Per disporsi ad un vero incontro con l’altro, si richiede uno sguardo amabile posato su di lui.

Uno sguardo amabile ci permette di non soffermarci molto sui limiti dell’altro, e così possiamo tollerarlo e unirci in un progetto comune, anche se siamo differenti.

L’amore amabile genera vincoli, coltiva legami, crea nuove reti d’integrazione, costruisce una solida trama sociale.

Chi ama è capace di dire parole di incoraggiamento, che confortano, che danno forza, che consolano, che stimolano.

Amoris laetitia n.100

 

di Daniela Parolin

Secondo qualcuno, dopo tanti anni di vita assieme, si raggiunge tra i coniugi una tale affinità che quasi si annullano le differenze. Per noi invece non è stato così. Siamo diversi, lo siamo sempre stati e continueremo ad esserlo, anzi più si avanza con gli anni e più certe caratteristiche dell’uno e dell’altro si accentuano.

Ed è su queste diversità che a volte ci si manca di rispetto… Ci sono aspetti dell’altro che ci irritano o che ci fanno gonfiare di orgoglio e di presunzione. “Lui è così…” “Io sono migliore…”.

Allora succede che si assumano atteggiamenti scortesi e toni di voce sgradevoli, si pronuncino parole che umiliano e che irritano e l’intesa sembri venir meno.

Pensiamo che sarebbe bello abbattere le differenze, arrivare a capirci perché si è uguali e giungere alla fusione totale: “L’altro è come me, pensa quello che penso io, è stato fatto a mia misura!”. Ma non è proprio così!

Anche dopo tanti anni di matrimonio si fa fatica ad accettare la diversità.

Io sono impulsiva e immediata, vorrei che le cose si facessero presto e subito, mio marito invece aspetta e magari rinvia le decisioni… Io sono più precisa e ordinata, lui creativo…

Nel momento in cui capisco che sono proprio quelle caratteristiche che lo differenziano da me che mi arricchiscono e mi donano un modo nuovo di vedere le cose, comincio ad accoglierlo come un dono che mi è stato messo accanto. La fatica di capirci, di confrontarci, diventa allora ricchezza e occasione continua di crescita.

Quando si abbandona il desiderio umano di cambiare l’altro, si può finalmente conoscerlo nella sua realtà piena con quei lati positivi che possono essere una vera risorsa, anche se, a prima vista, non lo si sarebbe mai detto.

Quando avrò imparato da amare anche i suoi difetti potrò dirlo di amarlo veramente e non gli mancherò più di rispetto, anzi cercherò di regalargli parole di gentilezza, di consolazione e di apprezzamento.

Le parole possono essere frecce, muri oppure carezze e finestre. Per nutrire i sentimenti sono necessarie parole leggere e carezzevoli.

Papa Francesco ci ricorda di fare sempre pace a fine giornata, forse si può aggiungere che possiamo scambiarci parole di pace nel corso di tutta la giornata, cominciando a salutarci con gentilezza ogni mattino.

Uno scrittore americano era convinto che se “i mariti salutassero le mogli, prima di andare al lavoro, vi sarebbero meno divorzi”. E lo stesso vale nei confronti dei figli.

Il famoso pediatra statunitense Benjamin Spock ricordava che “la cura amorevole prestata con gentilezza ai figli, vale cento volte più che un pannolino messo alla perfezione”.

Regalando gesti di gentilezza sarà più facile camminare passo dopo passo alla ricerca della felicità in due!

L’amore coniugale si custodisce grazie a più atti di rispetto, più atti di affetto e più tenerezza.

Sono i piccoli gesti di perdono quotidiano e le parole di pace tra di noi che ci danno di volta in volta la forza ricominciare e di prenderci cura l’uno dell’altro come fa Dio con noi.

 

11-Non cerca il proprio interesse

Diciamo sovente che per amare gli altri occorre prima amare se stessi. Tuttavia, questo inno all’amore afferma che l’amore “non cerca quello che è suo”. Davanti ad un’affermazione così chiara delle Scritture, bisogna evitare di attribuire priorità all’amore per se stessi come se fosse più nobile del dono di se stessi agli altri.

 

San Tommaso d’Aquino ha spiegato che “è più proprio della carità voler amare che voler essere amati”. Perciò l’amore può spingersi oltre la giustizia e straripare gratuitamente, “senza sperarne nulla”, fino ad arrivare all’amore più grande, che è “dare la vita”per gli altri.

È ancora possibile questa generosità che permette di donare gratuitamente, e di donare sino alla fine? Sicuramente è possibile, perché è ciò che chiede il Vangelo.

Amoris laetitia n.102

 

di Elda Brunetti

Papa Francesco conclude il suo commento a questa frase dell’inno paolino domandandosi se sia ancora possibile donare gratuitamente, e sino alla fine.

In effetti, “non cercare le cose per se stessi” è proprio ciò che caratterizza specificamente l’amore-carità, l’agàpe (cioè l’amare davvero al modo di Dio), che non è l’amore-eros, cioè passione e desiderio di unione e possesso, né l’amore-filìa, cioè la benevolenza amicale, più tipiche dell’amore umano.

Amare in modo paziente, benigno, senza invidia… può forse riuscire anche per una propria inclinazione del carattere, ma si può davvero non cercare alcun interesse, anche in modo non del tutto consapevole, in ciò che si fa e si dà?

Ricordo, per esempio, quando, al corso per volontari ospedalieri, per incoraggiarci nel servizio, ci dicevano “vedrete che non sarà facile, ma che riceverete più di quanto sarete capaci di dare!”. È un atteggiamento umano, come è umano giustificare il perseguimento di ciò che desideriamo, purtroppo a volte anche a costo di mettere da parte o sacrificare qualcun altro, dicendo di aver diritto di “stare bene” o di “realizzarsi”.

Anche quando pensiamo di poter essere capaci di qualsiasi sacrificio per le persone che più amiamo, difficilmente siamo scevri da qualunque tornaconto: come genitori, non vorremmo forse che i nostri figli corrispondessero come desideriamo al nostro affetto e ai nostri progetti su di loro? E come sposi, non pensiamo di amare fino a dare la vita per il nostro partner, purché però ci sia fedele?

Dice, con crudezza, Gary Chapman: “L’innamoramento ci dà l’illusione di aver sradicato i nostri atteggiamenti egocentrici… nutriamo pensieri così generosi perché crediamo sinceramente che il nostro amato provi gli stessi sentimenti verso di noi. Crediamo sia desideroso di soddisfare le nostre necessità”. Purtroppo, conclude l’autore, “questo pensiero è sempre irreale”.

Allora, com’è possibile questo amore, quello di cui Papa Francesco - commentando la sesta parola del decalogo: “non commettere adulterio” - diceva che “si manifesta proprio oltre la soglia del proprio tornaconto”, un amore fedele ogni costo?

Tra l’altro, la fedeltà, data per scontata almeno per l’amore sponsale, non è inserita da san Paolo fra gli attributi della carità, forse perché è sottintesa proprio nel donarsi senza riserve e calcoli, per sempre. Per amarsi non solo finché conviene, ma sia nella gioia che nel dolore, sia nella salute che nella malattia… non si può contare soltanto sulla buona volontà o sulla speranza “che la cosa funzioni”.

Abbiamo bisogno, continua il Papa, di basarci “sul terreno solido dell’Amore fedele di Dio”.

Credo che ciò significhi non “cercare”, ma semmai “accogliere” quel guadagno che si può sperare senza vederlo, quando amare costa fatica, sofferenza, sacrificio.

Come ci ricorda Gesù nella parabola del Giudizio finale, i giusti accolgono il premio con sorpresa, non essendosi accorti di aver amato proprio Lui negli ultimi e nelle persone che si trovano nelle situazioni meno accattivanti e amabili!

 

12-Non si adira

Questa parola – paroxynetai – si riferisce ad una reazione interiore di indignazione provocata da qualcosa di esterno. Si tratta di una violenza interna, di una irritazione non manifesta che ci mette sulla difensiva davanti agli altri, come se fossero nemici fastidiosi che occorre evitare.

 

Il Vangelo ci invita a guardare la trave nel proprio occhio piuttosto che la pagliuzza negli occhi degli altri. Perciò, non bisogna mai finire la giornata senza fare pace in famiglia.

La reazione interiore di fronte a una molestia causata dagli altri dovrebbe essere anzitutto benedire nel cuore, desiderare il bene dell’altro, chiedere a Dio che lo liberi e lo guarisca.

Se dobbiamo lottare contro un male, facciamolo, ma diciamo sempre “no” alla violenza interiore.

Amoris laetitia n.104

 

di Patrizio Righero

“Lavoravo tutto il giorno. Mia moglie, che al contrario di me è laureata, stava a casa. A badare ai figli. Poi, per nulla, esplodeva la mia rabbia. Sbattevo i pugni, urlavo, chiedevo conto delle spese di casa, controllavo il cellulare per vedere quante telefonate avesse fatto e a chi.

Consideravo mia moglie una nullafacente presuntuosa che al mio ritorno non aveva nemmeno approntato la cena. Ricordo tante urla, da perdere la voce, feroci litigate con offese, piatti rotti, pugni sul tavolo e ai muri. Qualche straccio gettato in faccia. Mai schiaffi, mai.

Al ritorno dal lavoro ero esausto, accumulavo stress. Vedevo mia moglie trastullarsi tra ricette e interessi che ritenevo superficiali. Dopo un po' mi irritavano anche i bambini. Avvertivo una rabbia sorda, mi sentivo umiliato, insoddisfatto. Ritenevo che tutti dovessero badare a me. Ero io a portare i soldi a casa. Credevo di essere virile e invece ero solo fragile e inadeguato”.

Sono queste le parole di un marito che ha trovato la lucidità e la forza per farsi aiutare prima che fosse troppo tardi.

I fatti di cronaca dicono che molti passano questo limite. E la rabbia – spesso soffocata per anni – diventa violenza.

In questa deriva sta il punto critico e per certi versi di non ritorno.

L’ira in sé, tuttavia, almeno nel suo primitivo scatto, non è un male assoluto.

È piuttosto una reazione istintiva di fronte ad una situazione di male, un moto dell’anima che si ribella alla menzogna, alla cattiveria e all’ingiustizia. Per certi versi l’ira può anche essere uno spazio di verità.

Ampi passi della Bibbia testimoniano che lo stesso YHWH di adira. Si legge nel libro di Isaia (30,27): “Ecco il nome del Signore venire da lontano, ardente è la sua ira e gravoso il suo divampare”.

L’ira di Dio nell’Antico Testamento si scatena a causa dell’infedeltà di Israele e dell’ingiustizia che opprime i poveri.

Questa rabbia la troviamo anche nel Magnificat: “Ha spiegato la potenza del suo braccio, ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni”.

Lo stesso Gesù non reprime la sua indignazione: “Guai a voi, scribi e farisei ipocriti...! Serpenti, razza di vipere, come potrete sfuggire alla condanna della Geenna?” (Mt 23,13.33).

Nel versione lucana perfino le beatitudini culminano con una serie di “guai” tutt’altro che rassicuranti. “Guai a voi, che ora siete sazi, perché avrete fame. Guai a voi, che ora ridete, perché sarete nel dolore e piangerete. Guai, quando tutti gli uomini diranno bene di voi”. (Lc 6,20-26).

Eppure l’ira, anche se legittima, non è e non può essere l’ultima parola.

“Dite ciascuno la verità al proprio prossimo; perché siamo membra gli uni degli altri. Nell'ira, non peccate; non tramonti il sole sopra la vostra ira, e non date occasione al diavolo” è l’esortazione di san Paolo agli Efesini (Ef 4,25-27). Un’esortazione che può diventare una buona prassi per la gestione della rabbia familiare che non è solo quella dei mariti violenti.

L’ira non risparmia nessuno. Basti pensare ad alcune scenate dei figli, o dei suoceri!

“Nell'ira, non peccate”, mette in guardia da ogni deriva. La carità, quella sì, deve avere l’ultima parola, magari dopo un confronto – anche schietto e diretto –innescato da un legittimo e umanissimo scatto d’ira.

 

13-Non tiene conto del male ricevuto

La frase logizetai to kakon significa “tiene conto del male”, “se lo porta annotato”, vale a dire, è rancoroso.

La nostra tendenza è spesso quella di cercare sempre più colpe, di immaginare sempre più cattiverie, e così il rancore va crescendo e si radica. In tal modo, qualsiasi errore o caduta del coniuge può danneggiare il vincolo d’amore e la stabilità familiare.

 

Quando siamo stati offesi o delusi, il perdono è possibile e auspicabile, ma nessuno dice che sia facile. La verità è che “la comunione familiare può essere conservata e perfezionata solo con un grande spirito di sacrificio”.

Oggi sappiamo che per poter perdonare abbiamo bisogno di passare attraverso l’esperienza liberante di comprendere e perdonare noi stessi.

C’è bisogno di saper convivere con i propri limiti, e anche di perdonarsi, per poter avere questo medesimo atteggiamento verso gli altri. Ma questo presuppone l’esperienza di essere perdonati da Dio, giustificati gratuitamente e non per i nostri meriti.

Se accettiamo che l’amore di Dio è senza condizioni, allora potremo amare al di là di tutto, perdonare gli altri anche quando sono stati ingiusti con noi.

Amoris laetitia n.106-108

 

di Livio e Letizia

Il perdono sembra, e forse è, un’impresa umanamente molto ardua, per certi versi impossibile. Nello stesso tempo è qualcosa di necessario: un’azione liberante, vantaggiosa soprattutto per chi perdona l’offesa ricevuta. L’alternativa al perdono, infatti, cioè vivere nel rancore e nelle emozioni connesse (rabbia, amarezza, ecc.), danneggia primariamente chi rimane prigioniero di questi sentimenti negativi.

Il perdono si rivela indispensabile non solo per il benessere della coppia ma per la sua stessa sopravvivenza. Una coppia, una famiglia in cui non ci si riesce a perdonare è destinata a vacillare, perché è proprio delle relazioni, soprattutto quelle più intime, il rischio di ferirsi reciprocamente. Tanti matrimoni finiscono proprio, o almeno anche, per mancanza di perdono.

Ma se, pur essendo necessario e liberante, perdonare rimane umanamente impossibile: come si può viverlo?

Sia che ne siamo consapevoli o no, solo da Dio possiamo attingere la forza e la grazia di perdonare. Grazia che non esclude la collaborazione umana, ma la richiede, a partire dal creare un atteggiamento interiore di predisposizione, alimentando il desiderio e la volontà di perdonare, per quanto deboli possano essere.

Il primo passo, concreto, è quello di pregare per la persona che ci ha ferito. Questo cammino di preghiera serve anche ad alimentare quel desiderio e quella volontà di perdono di cui si diceva. E ci condurrà gradatamente a vedere l’altro con gli occhi di Dio, e dalla prospettiva “sopraelevata” e “lungimirante” - cioè che guarda dall’alto e più in profondità - della Croce e dell’Amore, che dà significato alla Croce.

Poi, e siamo al secondo passo, guardare, con umiltà, ai propri limiti, difetti e fragilità può servire ad accettare le fragilità e gli errori dell’altro. L’umiltà costituisce infatti la precondizione del perdono.

Infine, la Grazia e le circostanze ci aiuteranno ad individuare gli altri passi più pratici da compiere, fino al chiedere a propria volta scusa.

Nella coppia il perdono non è tanto quello eroico che può essere necessario in casi eccezionali (quali, per es., una infedeltà coniugale) ma soprattutto quello che viene richiesto quotidianamente a tutti i coniugi per superare le ferite che si possono infliggere dal contatto gomito a gomito o i “piccoli tradimenti” che spesso costellano la vita matrimoniale (dare troppo spazio al lavoro, alla famiglia di origine, ad altri “idoli”).

Ogni sera, come ci invita la Sacra Scrittura, bisognerebbe avere il coraggio di chiedersi ed accordarsi il perdono, reciprocamente.

Pensando alla nostra esperienza di coppia, non ci viene facile vivere proprio questa dimensione quotidiana, feriale, del perdono, e questo ci porta non di rado ad accumulare una certa rabbia reciproca, che poi diventa più difficile smaltire.

Pensiamo che, oltre ad allenarsi al dialogo autentico e al vero ascolto, il confronto con un padre spirituale di coppia e magari con un’altra coppia, possa essere un valido aiuto, talvolta necessario, ad affrontare i conflitti in modo costruttivo e ad educarsi al perdono.

Anche gli incontri dei gruppi famiglia potrebbero favorire questo processo, creando occasioni periodiche che permettano alle coppie di scambiarsi il perdono. E questa è la proposta che lanciamo a tutti i GF.

 

14-Non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità

L’espressione chairei epi te adikia indica l’atteggiamento velenoso di chi si rallegra quando vede che si commette ingiustizia verso qualcuno.

Segue un’espressione positiva: synchairei te aletheia, cioè si rallegra per il bene dell’altro, quando viene riconosciuta la sua dignità, quando si apprezzano le sue capacità e le sue buone opere.

 

Quando una persona che ama può fare del bene a un altro, o quando vede che all’altro le cose vanno bene, lo vive con gioia e in quel modo dà gloria a Dio.

Se non alimentiamo la nostra capacità di godere del bene dell’altro e ci concentriamo soprattutto sulle nostre necessità, ci condanniamo a vivere con poca gioia.

La famiglia dev’essere sempre il luogo in cui chiunque faccia qualcosa di buono nella vita, sa che lì lo festeggeranno insieme a lui.

Amoris laetitia n.110

 

di Renato Durante

Lo sguardo di cui sentiamo di più la necessità, in coppia come nella società e nella Chiesa, è quello di chi condivide contento la riuscita dell’altro, come fosse quella del proprio figlio.

Questo tipo di felicità richiede occhi nuovi e un cuore non appesantito.

Ci viene spontaneo riconoscere questo atteggiamento nel viso dei genitori di fronte ai successi del proprio figlio: mai disconoscono le sue fatiche, sempre lo incoraggiano e lo sostengono soprattutto quando viene demotivato ingiustamente.

Mi ritrovo spesso a considerare quanto sono meravigliosi molti nostri giovani, coraggiosi e infaticabili navigatori controcorrente; quanto li sento vicini negli ideali e nell’essere degli inguaribili ottimisti per poter cambiare questo mondo! Che segno di speranza per noi adulti, per noi genitori!

Serve, nei loro confronti, manifestare un atteggiamento paterno e materno che dia loro fiducia, scorga il buono e il bello ancora prima che si manifesti pienamente: quanto è preziosa l’azione delle sentinelle che scorgono la speranza ben in anticipo, quanto bene fanno!

Questo sguardo non va disgiunto dalla ricerca della verità: oggi è sempre difficile accettare che la verità sia fatta di sfumature, di attenzioni alla persona, di toni sussurrati.

Senza la ricerca della verità diventiamo strilloni agli angoli delle strade, incapaci di confronto e chiusi nelle nostre “ragioni”, lasciando proprio la ragione fuori della nostra porta, e vivendo in balìa delle emozioni.

Si discute in coppia o con i figli come se fossimo al bar, per affermare se stessi e non per ascoltare l’altro. Si ricerca lo scontro più dell’incontro e il risultato è la solitudine, la percezione dell’altro come ostacolo alla realizzazione di noi stesso.

Niente è più devastante di vedere l’altro come colui che impedisce la mia felicità: non resta che disfarsene in ogni modo possibile.

Come uscire da questo vicolo cieco, di uno contro l’altro, generazione contro generazione?

Il prof. Giuseppe Goisis, parlando della verità, afferma: “Quando Papa Francesco usa la metafora della Chiesa come ospedale da campo per curare le sofferenze e le sventure dell’umanità, sottolinea soprattutto l’aspetto dei bisogni dell’uomo: c’è una verità che va ben oltre la semplice dottrina, è quello che definirei ‘Gesù Cristo come impulso per la vita’. Gesù, infatti, ci ricorda di essere lui stesso Via, Verità e Vita (cfr Gv 14,6).

In questa affermazione la verità è posta tra via e vita, in modo che acquisti il suo vero e pieno significato. Mi pare che quello che ci può essere richiesto è che ognuno diventi in sé - attraverso la carità - una piccola verità, una fiammella di verità, un gradino della scala verso la verità”.

Gesù, Via, Verità e Vita, ci dice che credere in lui è vivere la vita come l’ha vissuta lui: nel dono totale, nell’amare di più e poi ancora di più.

La mia gioia deve stare nell’essere in relazione positiva con l’altro: solo così si può generare il bene e il bello.

“Fare” la verità, è proprio una bella idea da sostituire alla verità calata dall’alto ed estranea alla vita. Ecco la verità che ci rende liberi!

 

15-Tutto scusa

Panta stegei può significare “mantenere il silenzio” circa il negativo che può esserci nell’altra persona. Implica limitare il giudizio, contenere l’inclinazione a lanciare una condanna dura e implacabile.

Molte volte si dimentica che la diffamazione può essere un grande peccato, una seria offesa a Dio, quando colpisce gravemente la buona fama degli altri procurando loro dei danni molto difficili da riparare.

 

Gli sposi che si amano e si appartengono, parlano bene l’uno dell’altro, cercano di mostrare il lato buono del coniuge al di là delle sue debolezze e dei suoi errori.

In ogni caso, mantengono il silenzio per non danneggiarne l’immagine. Però non è soltanto un gesto esterno, ma deriva da un atteggiamento interiore. E non è neppure l’ingenuità di chi pretende di non vedere le difficoltà e i punti deboli dell’altro, bensì è l’ampiezza dello sguardo di chi colloca quelle debolezze e quegli sbagli nel loro contesto; ricorda che tali difetti sono solo una parte, non sono la totalità dell’essere dell’altro.

L’amore convive con l’imperfezione, la scusa, e sa stare in silenzio davanti ai limiti della persona amata.

Amoris laetitia n.113

 

di Nicoletta e Corrado Demarchi

Quando ci siamo sposati abbiamo scelto il brano della prima lettera di San Paolo ai Corinzi perché “l’inno alla carità” ispirasse il nostro cammino di sposi. Colpiti dalla grandezza e dalla profondità di queste parole, ci siamo subito resi conto della fatica, dell’impegno e della costanza quotidiana che richiedevano.

Quanto allenamento nelle nostre relazioni per arrivare a chiedere un sincero e profondo “scusami” che partisse dal cuore e superasse le incomprensioni!

Per non spaventarci di fronte ad un livello così alto di perdono abbiamo imparato nel tempo ad individuare quelle cattive scuse che non avevano niente a che fare con la carità: quelle non sincere senza alcun sentimento, quelle eccessive ripetutamente banali ed autoflagellanti, quelle incomplete senza pentimento che assomigliano più ad un “mi dispiace” e quelle “non scuse” dove, alla fine, non è mai colpa di nessuno.

Ci siamo resi conto che questa parolina semplice, ma così potente, aveva bisogno di essere accompagnata da una buona dose di umiltà, per superare il nostro orgoglio ed il nostro ego.

Il principio del chiedere scusa, infatti, parte da un movimento, da un inizio, dalla volontà, per primi, di interrompere un circolo negativo di parole cattive od atteggiamenti malevoli.

Ci siamo aiutati vicendevolmente a capire che chiedere scusa non ci fa perdere niente, non ci rende più deboli, ma anzi è un dono che ci ha fatti crescere per assumere le responsabilità dei nostri comportamenti e ci ha spronati a rimediare all’offesa ed all’errore compiuti.

Questo gesto spalanca le porte alla possibilità di una riconciliazione ed è un’azione che fa del bene a tutte le persone coinvolte, non solo a chi lo riceve, ma anche a chi lo compie, perché una sincera richiesta di scuse mitiga i sensi di colpa, alleggerisce la nostra coscienza e, soprattutto, permette di riprendere la relazione ed il cammino insieme.

Più difficile ancora è il chiedere scusa ai figli, quando necessita, perché comporta un’umiltà più marcata per noi genitori, rispetto alla relazione paritaria col coniuge, ma è decisamente benefico per loro che, così spiazzati da un nostro indietreggiare, respirino più aria di rispetto e perdono sincero.

È importante quindi che nelle nostre famiglie ci alleniamo e ci educhiamo vicendevolmente, marito e moglie, genitori e figli alla riconciliazione.

Quanti torti subiamo e facciamo subire a chi ci sta vicino, in modo consapevole e non, nella nostra quotidianità!

Senza il gesto concreto di una richiesta di scuse, le offese diventano delle barriere, che impediscono all’amore ed al rispetto di crescere ed impoveriscono i nostri rapporti interpersonali.

La carità che tutto scusa invece è quella di chi dà una fiducia incondizionata al “colpevole”, è quella di chi tende sempre la mano, di chi nella correzione fraterna non ammonisce, ma incoraggia, di chi non ha fretta e non pone condizioni, di chi ama incondizionatamente nonostante le ricadute e di chi si fa operatore di pace nelle discordie.

 

16-Tutto crede

Panta pisteuei: “tutto crede”. In questo contesto non si deve intendere questa “fede” in senso teologico, bensì in quello corrente di “fiducia”.

 

L’amore ha fiducia, lascia in libertà, rinuncia a controllare tutto, a possedere, a dominare.

Questa libertà, che rende possibili spazi di autonomia, apertura al mondo e nuove esperienze, permette che la relazione si arricchisca e non si chiuda in se stessa.

In tal modo i coniugi, ritrovandosi, possono vivere la gioia di condividere quello che hanno ricevuto e imparato al di fuori del cerchio familiare.

Una famiglia in cui regna una solida e affettuosa fiducia, e dove si torna sempre ad avere fiducia nonostante tutto, permette che emerga la vera identità dei suoi membri e fa sì che spontaneamente si rifiuti l’inganno, la falsità e la menzogna.

Amoris laetitia n.115

 

di Maria Rosa Tonda

La carità di cui parla san Paolo è amore di donazione totale, un amore senza pretese di rivalsa o di interesse.

Quando l’apostolo delle genti afferma che la carità tutto crede, ci propone come coppia, di accogliere la verità dell'altro, credendogli in modo assoluto.

Questo significa accogliere a 360 gradi, senza la pretesa di voler interpretare la verità che l'altro ci presenta ma con la consapevolezza che, nel matrimonio, io mi consegno a lui (o a lei) senza volerlo manipolare, senza pretendere il controllo sull'altra persona.

Capita sovente - nella relazione matrimoniale - di cadere in un tranello invisibile: va tutto bene e ci amiamo molto, ci sembra che l’altro sia in sintonia con i nostri pensieri, le nostre scelte, il nostro modo di interpretare la vita.

Quella persona con cui mi gioco tutto, però, ha una sua esperienza e una sua intelligenza e una sua capacità di amare e di conseguenza può fare e pensare in maniera diversa da noi, può per esempio decidere di starsene in panciolle a rilassarsi, mentre ci sono diecimila cose pratiche da fare in casa.

Quante volte abbiamo voluto programmare la sua giornata, per far si che tutto filasse liscio, proprio come volevamo che succedesse?

Quante volte abbiamo minato le basi della nostra convivenza senza nemmeno accorgercene?

Però appena l'altro prova ad accennare un minimo controllo sulle nostre idee o sulle nostre decisioni ci accorgiamo del tranello in cui siamo caduti e ci arrabbiamo moltissimo.

Quindi l'amore che ci presenta san Paolo si può davvero realizzare?

Siamo sicuri di vivere in piena libertà la nostra storia d'amore? Di accettare anche la libertà del nostro coniuge?

Molte volte è l'ansia del voler controllare tutto che distrugge i rapporti.

È vero che la vita ci presenta un conto non sempre piacevole da saldare, per esempio se subentra una malattia devastante, come la demenza senile o un cancro, è logico che il coniuge più in salute si prenda carico dell'altro, ma se quella malattia diventa un'ossessione va a finire che noi stessi ci ammaliamo e possiamo rimetterci la vita.

Tornando al rapporto di coppia, secondo me dobbiamo stare molto attenti a non spegnere il desiderio che l'altro nutre in sé.

Su questo tema don Maurizio Chiodi afferma che, nella società post-moderna, anche la coppia corre il grosso pericolo di frantumarsi attraverso il ripiegamento narcisistico degli affetti, per cui le nostre emozioni o non le condividiamo più con il coniuge, o le richiudiamo in un cerchio a due in una sorta di intimismo claustrofobico.

In questo modo tendiamo ad escludere progressivamente il mondo esterno dalla relazione. Cediamo all’illusione che il nostro amore sia così infallibile da bastare a se stesso, così il nostro volersi bene viene soffocato da un controllo reciproco snervante, e crea uno spaesamento e una fragilità che rende instabile qualsiasi rapporto.

L’inno alla carità, l’inno all’amore di San Paolo ci mette in guardia da questi tranelli.

Infatti, l’esortazione del “tutto crede, tutto copre e tutto spera” si fonda sulla consapevolezza che l’amore è al di là di ogni controllo e di ogni artefatto: esiste nella misura in cui noi sappiamo donarci all’altro senza riserve, in anima e corpo e... per sempre.

 

17-Tutto spera

Panta elpizei: non dispera del futuro. In connessione con la parola precedente, indica la speranza di chi sa che l’altro può cambiare. Spera sempre che sia possibile una maturazione, che le potenzialità più nascoste del suo essere germoglino un giorno.

 

Non disperare nel futuro implica accettare che certe cose non accadano come uno le desidera, ma che forse Dio scriva diritto sulle righe storte di quella persona e tragga qualche bene dai mali che essa non riesce a superare in questa terra.

Qui si fa presente la speranza nel suo senso pieno, perché comprende la certezza di una vita oltre la morte. Quella persona, con tutte le sue debolezze, è chiamata alla pienezza del Cielo.

Questo altresì ci permette, in mezzo ai fastidi di questa terra, di contemplare quella persona con uno sguardo soprannaturale, alla luce della speranza, e attendere quella pienezza che un giorno riceverà nel Regno celeste, benché ora non sia visibile.

Amoris laetitia n.116-117

 

di Elisabetta Bordoni

Ci sono circostanze in cui non è facile rimanere aperti alla speranza, intesa non come generica aspettativa di un futuro migliore, ma come ferma fiducia nel Bene che Dio ha preparato per ciascuno di noi, e che rimane vero sempre, anche quando il cammino appare duro e faticoso.

Non c’è bisogno di scomodare il pessimismo leopardiano per accorgersi che spesso la realtà si rivela assai diversa da quelli che erano i nostri progetti e le nostre aspettative. Nonostante l’impegno profuso, le preghiere, la frequentazione dei gruppi “giusti”, i rapporti si logorano, i figli fanno le loro scelte, con gli anni la vita familiare sembra complicarsi in mille modi… ma non finisce qui, in una palude di genitori anziani, pensione lontanissima, energie che si esauriscono.

Le persone possono cambiare, le situazioni possono illuminarsi di una luce nuova e il dolore e le preoccupazioni, deposti nelle mani del Signore, possono trasformarsi in realtà nuove, nutrite di amore e fiducia, impensabili e sorprendenti.

Questo vale nel rapporto fra marito e moglie, ma anche nella più estesa rete degli affetti familiari, spesso complicati da incomprensioni, aspettative non rispettate, silenzi troppo lunghi o parole troppo aspre; l’Amore non si rassegna mai: anche là dove un rapporto appare ormai deteriorato per sempre, lascia uno spazio di speranza, un atteggiamento di apertura, perché Egli può fare nuove tutte le cose.

Questo non significa che prima o poi Dio arriverà con una bacchetta magica e la nostra vita diventerà perfetta e meravigliosa, piuttosto significa affrontare ogni difficoltà, ogni imprevisto, ogni delusione con la certezza di non essere soli, abbandonati e impotenti.

“Aiutati che Dio ti aiuta” è un detto pieno di saggezza e verità: l’amore tutto spera, cioè non molla mai, inventa, cerca, riparte, non si lascia abbattere o deprimere, nella consapevolezza che Dio accompagna e dà un senso ad ogni fatica e anche ad ogni fallimento.

Vivere nella speranza significa anche accettare che determinate persone o situazioni forse non si trasformeranno mai in ciò che io avrei voluto e progettato, ma forse sono io che devo cambiare la mia prospettiva e fidarmi dell’Amore di Dio, che scrive dritto sulle nostre righe storte.

Questo vale soprattutto nel rapporto con i figli: i genitori in buona fede spesso commettono errori di valutazione e fanno fatica a smontare i loro progetti per accettare i figli nelle loro realtà complicate, anzi, spesso si litiga fra marito e moglie e ci si accusa reciprocamente alla vana ricerca di un colpevole. È bello quando, deposta l’ascia di guerra, consegniamo a Dio e alla sua inesauribile fantasia le nostre fragilità, accogliendoci reciprocamente e confidando nella Speranza che non delude.

Inoltre, tutto ciò che qui è irrisolto, incompiuto, insoddisfacente, è destinato a trovare pienezza nella vita eterna: tutto quell’amore che non siamo riusciti a dare, o che avremmo voluto ricevere, tutti quei rapporti familiari difficili che non arrivano ad una soluzione in questa vita, tutto prenderà nuova forma in Paradiso, dove l’amore sarà davvero perfetto.

 

18-Tutto sopporta

Panta hypomenei significa che sopporta con spirito positivo tutte le contrarietà. Significa mantenersi saldi nel mezzo di un ambiente ostile.

Non consiste soltanto nel tollerare alcune cose moleste, ma in qualcosa di più ampio: una resistenza dinamica e costante, capace di superare qualsiasi sfida.

 

Nella vita familiare c’è bisogno di coltivare questa forza dell’amore, che permette di lottare contro il male che la minaccia. L’amore non si lascia dominare dal rancore, dal disprezzo verso le persone, dal desiderio di ferire o di far pagare qualcosa. L’ideale cristiano, e in modo particolare nella famiglia, è amore malgrado tutto.

Ammiro, per esempio, l’atteggiamento di persone che hanno dovuto separarsi dal coniuge, e tuttavia, a causa della carità coniugale, sono stati capaci di agire per il suo bene, benché attraverso altri, in momenti di malattia, di sofferenza o di difficoltà.

Amoris laetitia n.119

 

di Antonella Ronchegalli

Questo passo dell’Inno alla carità - “[la carità] tutto sopporta”- per molto tempo mi ha dato fastidio, perché leggevo il verbo sopportare in maniera negativa. Coglievo solo la rassegnazione: non posso farci niente, allora sopporto.

Ma quando sono andata a cercare il suo significato sul vocabolario e ho letto: “adattarsi, resistere senza difficoltà a condizioni avverse o fastidiose; tollerare; assoggettarsi con pazienza e forza d'animo a una situazione dolorosa; subire, patire”, ho capito che sopportare non è essere passivi, ma è reagire ad una situazione negativa cercando di costruire qualcosa di bello.

Riferendomi alla situazione accennata dal Papa circa la separazione dal coniuge sopportata da tanti credenti, situazione in cui mi trovo anch’io ormai da molti anni, devo dire che dopo un inizio di rifiuto, di smarrimento e diciamo pure di paura, grazie alla vicinanza di molti amici sono riuscita a uscirne, oserei dire a rinascere, e a superare il periodo nero.

Sì, all’inizio mi sentivo veramente persa, non riuscivo più a vedere un domani, non sapevo più perché avrei dovuto vivere, ogni mattina al risveglio mi chiedevo “e adesso che cosa faccio?”; poi piano piano sono stata costretta a vivere, ad andare avanti giorno dopo giorno perché c’erano tre bambini di cui mi dovevo occupare, che avevano il diritto di essere felici nonostante tutto.

Sono riuscita a ripartire e a crescere i miei tre figli, credo in maniera equilibrata senza far loro pesare i miei problemi con il padre; ho dovuto essere per loro madre e padre e vedendoli adesso felicemente sposati e con figli sono contenta di come sono riuscita a sopportare questa situazione che mi è capitata.

Non è facile resistere alla vendetta, all’usare i figli per fare del male al coniuge, al vendicarsi del torto subito, ma un atteggiamento simile non costruisce nulla, anzi distrugge ancora di più di quello che è già stato distrutto.

Mi sono sforzata di pensare positivo, di vedere oltre per non cadere nei luoghi comuni che tutti mi indicavano come la strada più logica e scontata - ma perché non hai ancora un altro? Allora ci sono novità? Saprei io come fargliela pagare! - ma che mi avrebbe sprofondato in una palude di cattiveria e di vendetta da cui non sarei mai riuscita ad uscire.

Non è stato facile sopportare, e adesso, guardandomi indietro, sono orgogliosa di come sono riuscita ad uscirne e quante esperienze nuove e appaganti sono riuscita a vivere, soprattutto condividendo con gli altri quella che sono: una donna divorziata che non si piange addosso, ma che cerca di vivere al meglio con l’aiuto del Signore e di tutte le persone che incontra sulla strada della vita, compreso un ex-coniuge che mi ha costretta a proseguire da sola una strada iniziata in due.

Nella vita spesso ci si immagina un futuro che poi nella realtà non si avvera; purtroppo questo ci porta al malumore, alla tristezza, alla depressione, bisogna proprio imparare a sopportare e ad accettare quello che la vita ci offre cercando di trovare il positivo che sicuramente c’è in ogni situazione, anche brutta, perché, come dopo il temporale torna sempre il sereno, anche dopo la tristezza rispunterà un sorriso; a volte bisogna faticare, attendere, talvolta piangere, ma alla fine arriva.

 

19-Per mettere a frutto quanto letto

Come usare questa pagina

Nelle tredici pagine precedenti abbiamo scorso, passo dopo passo, l’intero inno alla carità di san Paolo.

In questa pagina conclusiva riportiamo, per ciascuno dei punti trattati, le domande per il lavoro di coppia e di gruppo, più un brano per la Lectio divina. Buon lavoro!

 

La carità è paziente

•          Sappiamo accettare i limiti degli altri? In quale misura?

•          Siamo impulsivi o riflettiamo prima di prendere decisioni di cui potremmo pentirci?

•          La pazienza di Dio: Sap 12,2.15-18

 

È benevola è la carità

•          Quanto sappiamo “dare” senza aver sempre la pretesa di ricevere?

•          Abbiamo fatto molto per i nostri figli; quanto ci è stato “restituito”?

•          Parole di benevolenza: Ef 4,29-31

 

Non è invidiosa

•          A volte siamo invidiosi della “fortuna” altrui perché pensiamo che non se la meritino?

•          Nella nostra famiglia ci sono stati motivi di invidia? Come li abbiamo superati?

•          Non desiderare ciò che è di altri: Es 20,17

 

Non si vanta, non si gonfia d’orgoglio

•          Tendiamo a sottolineare quanto siamo bravi, quanto sono bravi i nostri figli/nipoti?

•          Siamo disponibili ad ascoltare il parere di altri o pensiamo di sapere già tutto?

•          Imparare il servizio: Mt 20,25-28

 

Non manca di rispetto

•          Di fronte alle avversità della vita incoraggiamo e confortiamo, o tendiamo a giudicare e scoraggiare?

•          Cosa mi irrita nel comportamento degli altri? Cosa faccio per superarlo?

•          Il rispetto di Gesù verso la peccatrice: Mc 14,4-9

 

Non cerca il proprio interesse

•          Sappiamo amare “gratis”, senza aspettarci nulla in contraccambio?

•          Quanto conta, nella nostra relazione, la fedeltà?

•          La povertà del discepolo: Mt 10,8-10

 

Non si adira

•          Quando litighiamo, sappiamo mantenere la calma dicendo cosa non va?

•          Sappiamo indignarci di fronte all’ingiustizia o ci voltiamo dall’altra parte?

•          Saper controllare l’ira: Ef 4,25-27

 

Non tiene conto del male ricevuto

•          Dopo aver litigato, serbiamo rancore o ci impegniamo a fare pace?

•          Sappiamo riconoscere con umiltà ai nostri limiti, difetti e fragilità?

•          Saper perdonare: 1 Pt 3,8-9

 

Non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità

•          Ben gli sta! Ci capita di usare questa frase? La usiamo sempre a proposito?

•          I nostri giovani: condividiamo il loro ottimismo, le loro speranze o siamo cinici?

•          Donare con gioia: 2 Cor 9,6-7

 

Tutto scusa

•          In pubblico parliamo bene del nostro coniuge o tendiamo a lamentarci incrinando la sua buona fama?

•          Come ci comportiamo sui Social? Siamo consapevoli delle conseguenze di un loro uso irresponsabile?

•          Condanna delle malelingue: Gc 3,6-11

 

Tutto crede

•          Siamo portati a controllare tutto e tutti?

•          Quanto ci fidiamo del nostro coniuge, dei nostri figli?

•          L’incredulità di Israele: Dt 1,29-35

 

Tutto spera

•          Tutto va male! Non c’è più speranza! Ci è mai capitato di usare queste espressioni? Quando?

•          Nella prova, siamo capaci a mettere la nostra vita nelle mani di Dio, affidandoci a Lui?

•          Confidare nel Signore: Sir 2,3-6

 

Tutto sopporta

•          Lutti, gravi malattie, figli allo sbando: come reagiamo in queste circostanze?

•          Di fronte ad un’esperienza di separazione suggeriamo vendetta o perdono?

•          Sopportare la prova: Gc 1,12-15

 

Per approfondire il tema

Scorrendo il nostro archivio, abbiamo trovato, in un libro di don Andrea Gasparino, il “Piccolo codice della Carità”. Lo trovate all’indirizzo:

www.gruppifamiglia.it/Gasparino.pdf

 

Uomini e donne nella Bibbia

20-Il matrimonio cristiano

La pericope sul matrimonio nella Lettera di san Paolo apostolo agli Efesini (5,21-33)

 

di Rinaldo Fabris*

Nella seconda parte della lettera agli Efesini, il progetto di vita cristiana inaugurato dal battesimo viene presentato mediante un elenco di doveri, ispirato al modello dei “codici familiari”.

All'interno di questo testo l'autore sviluppa una riflessione sul rapporto tra Cristo e la Chiesa, che dà la motivazione profonda dei doveri degli sposi nel contesto di una teologia del matrimonio cristiano.

Il “codice familiare” è un modello letterario in cui i doveri dei componenti la famiglia sono elencati di seguito, con qualche rapida motivazione.

L’origine di questo modello letterario si può trovare negli elenchi di doveri proposti dagli scrittori greci alle varie categorie di persone in relazione al proprio stato.

Ma il modello più simile a questo proviene dagli scrittori giudeo-ellenisti, i quali si ispirano al modello biblico dei comandamenti.

È dunque tramite la diaspora giudaica che la tradizione cristiana ha riletto gli schemi o manuali di doveri dell'ambiente greco-ellenistico, ma con una motivazione specifica ispirata alla nuova esperienza di fede.

Ciò che qualifica questo brano rispetto al modello letterario del codice familiare è l'ampio spazio dato alla motivazione, che assume evidenti connotati cristologici e ecclesiali.

 

Siate sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo

Il primo punto da chiarire è il significato dell’espressione “essere sottomesso”. Va detto innanzitutto che esso fa parte della tradizione ellenistica dei codici familiari. In questo ambiente l’espressione indica la subordinazione propria di chi si comporta in modo confacente al suo ruolo o rango. Ma nel contesto cristiano l’espressione “essere sottomesso” viene utilizzato per descrivere la relazione di Gesù, il Figlio, nei confronti di Dio (1Cor 15,28) e il riconoscimento del ruolo di servizio autorevole svolto a favore della comunità (1Cor 16,16). In questo caso esso corrisponde a quell’atteggiamento di reciproco servizio o dedizione che Paolo richiede ai cristiani come attuazione dell'amore.

L'invito alla sottomissione va ripensato e riletto in questa nuova prospettiva. Infatti, la sottomissione è richiesta in riferimento all'esperienza di fede cristiana, la quale è richiamata con una formula inconsueta: “nel timore di Cristo”.

La reciproca sottomissione che i cristiani sono invitati a prestarsi si basa dunque sulla fede in Gesù Cristo, riconosciuto come unico Signore, e si esprime nel servizio vicendevole ispirato dall'amore.

 

Le mogli siano sottomesse ai mariti come al Signore...

Per le mogli la sottomissione ai mariti è dunque il modo concreto ed esistenziale con cui esse devono realizzare l'impegno assunto nel battesimo di camminare nella comunione fraterna.

L'affermazione secondo cui il marito è capo della moglie proviene dal contesto culturale antico sia greco-ellenistico che giudaico, mentre la dichiarazione che Cristo è capo della Chiesa è caratteristica della visione cristologica ed ecclesiale di questa lettera.

Con questo sfondo sia la sottomissione delle mogli ai mariti, sia l'amore dei mariti verso le mogli acquistano una nuova valenza: sono l’attuazione della fede cristiana che riconosce Gesù Cristo Signore e salvatore, fonte e modello delle giuste relazioni tra i credenti.

 

E voi, mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa…

Le motivazioni che stanno alla base dei doveri dei mariti verso le mogli sono riassunte nel verbo “amare”.

Anche questo verbo ricorre nei codici familiari dell'ambiente greco-ellenistico. La novità dell’uso cristiano sta nel fatto che il verbo “amare” è diventato quasi tecnico per descrivere l'amore gratuito e salvifico di Dio rivelato e attuato in Cristo.

Gli effetti del dono di sé con il quale Cristo manifesta il suo amore per la Chiesa sono descritti per mezzo di una serie di proposizioni finali che rimandano a vocabolario tipico della prassi battesimale: purificare, lavacro, acqua, parola, gloria, santa, immacolata.

La prassi battesimale va a sua volta collocata nell'orizzonte dall'alleanza biblica, dove i rapporti Dio-comunità sono trascritti con la simbologia sponsale.

Così i riti di purificazione sono ispirati al modello del rito sponsale preceduto dal bagno e dalla presentazione della sposa da parte del sensale di matrimonio. Nella Chiesa, purificata dal bagno battesimale e diventata “tutta gloriosa... senza macchia né ruga”, si può facilmente intravedere la sposa del Cantico dei cantici.

 

Così anche i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo...

L'introduzione del termine “corpo” offre lo spunto per un nuovo sviluppo cristologico-ecclesiale incentrato sulla simbologia corpo-membra. Esso è intrecciato con il tema dell'amore in termini che riecheggiano il comandamento biblico: “Amerai il tuo prossimo come te stesso” (Lv 19,18b). L'amore sponsale viene così presentato come un caso concreto di attuazione dell'amore del prossimo.

 

Nessuno mai infatti ha preso in odio la propria carne...

L'autore passa ora ad esplicitare alcune implicazioni del rapporto di amore che unisce il marito alla moglie.

L'idea secondo cui la moglie è corpo-carne del marito è suggerita dal riferimento alla relazione di Cristo con la Chiesa. In questa prospettiva sono rilette anche le clausole previste dai contratti matrimoniali circa il dovere del marito di provvedere alla moglie il nutrimento e la cura.

I termini “nutrire” e “curare”, che richiamano la manifestazione dell'amore nelle relazioni parentali, potrebbero contenere un’allusione al sacramento dell'Eucarestia, in parallelo con il rito battesimale menzionato prima.

 

Per questo l'uomo lascerà suo padre e sua madre…

Questo modo di citare L'Antico Testamento senza alcuna formula introduttiva (per esempio “sta scritto”) è proprio della tradizione cristiana primitiva.

Nuova è invece l'applicazione che ne viene fatta: “Questo mistero è grande, lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa”. Questa puntualizzazione ha una nota polemica, o perlomeno mostra che l'autore intende prendere posizione nei confronti di altre possibili interpretazioni.

Il termine “mistero” non indica certamente una spiegazione segreta, “misteriosa”, del testo biblico citato. Esso infatti fa parte dell'universo linguistico della lettera, dove la parola “mistero” designa il disegno salvifico di Dio, ora svelato e fatto conoscere in Cristo, che consiste nella riunificazione e orientamento di tutte le cose in Lui. In questo orizzonte salvifico universale l’attuazione del mistero nella Chiesa consiste nella unificazione in un solo corpo dei due popoli divisi, ebrei e pagani.

 

Questo mistero è grande…

L'autore afferma che questo mistero è “grande”, cioè importante, perché la relazione sponsale, in cui si realizza dei due “una carne sola”, ha il suo prototipo nella relazione Cristo-Chiesa.

È infatti in Cristo che i due popoli divisi sono un solo corpo, e questo corpo, di cui i credenti battezzati sono membra, è la Chiesa. In altre parole il testo di Genesi sulla unificazione dei due in termini sponsali trova la sua realizzazione esemplare nel disegno salvifico di Dio sull'unificazione dei divisi e si attua per mezzo di Cristo nella Chiesa.

La relazione sponsale o matrimonio cristiano trova in questo orizzonte la sua definitiva fondazione.

 

* Tratto da: Alessandro Sacchi e collaboratori, Lettere paoline e altre lettere, Elledici, Leumann (TO) 1996. Sintesi della Redazione

 

Per il lavoro di coppia e di gruppo

•          L’invito è quello di usare questo testo come punto di partenza (che cosa dice il testo biblico in sé?) per fare in gruppo l’esperienza della lectio divina.

•          Per le modalità di svolgimento della Lectio vi rimandiamo all’articolo di pag. 24, tratto dall’Esortazione Verbum domini di Benedettto XVI.

 

21-LA LECTIO DIVINA

Se si legge la Bibbia con la venerazione dovuta alla parola di Dio e come lettura spirituale per almeno mezz’ora si accede all’indulgenza plenaria, se per meno di mezzora l’indulgenza sarà parziale. Enchiridion Indulgentiarum 30, § 1

 

di Benedetto XVI

Nei documenti che hanno preparato ed accompagnato il Sinodo (1) si è parlato di diversi metodi per accostare con frutto e nella fede le sacre Scritture. Tuttavia l’attenzione maggiore è stata data alla lectio divina, che è davvero “capace di schiudere al fedele il tesoro della Parola di Dio, ma anche di creare l’incontro col Cristo, parola divina vivente”.

Vorrei qui richiamare brevemente i suoi passi fondamentali: essa si apre con la lettura (lectio) del testo, che provoca la domanda circa una conoscenza autentica del suo contenuto: che cosa dice il testo biblico in sé? Senza questo momento si rischia che il testo diventi solo un pretesto per non uscire mai dai nostri pensieri.

Segue, poi, la meditazione (meditatio) nella quale l’interrogativo è: che cosa dice il testo biblico a noi? Qui ciascuno personalmente, ma anche come realtà comunitaria, deve lasciarsi toccare e mettere in discussione, poiché non si tratta di considerare parole pronunciate nel passato, ma nel presente.

Si giunge successivamente al momento della preghiera (oratio) che suppone la domanda: che cosa diciamo noi al Signore in risposta alla sua Parola? La preghiera come richiesta, intercessione, ringraziamento e lode, è il primo modo con cui la Parola ci cambia.

Infine, la lectio divina si conclude con la contemplazione (contemplatio) durante la quale noi assumiamo come dono di Dio lo stesso suo sguardo nel giudicare la realtà e ci domandiamo: quale conversione della mente, del cuore e della vita chiede a noi il Signore? San Paolo nella Lettera ai Romani, afferma: “Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto” (12,2).

La contemplazione, infatti, tende a creare in noi una visione sapienziale della realtà, secondo Dio, e a formare in noi “il pensiero di Cristo” (1Cor 2,16). La Parola di Dio si presenta qui come criterio di discernimento: essa è “viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore” (Eb 4,12).

È bene poi ricordare che la lectio divina non si conclude nella sua dinamica fino a quando non arriva all’azione (actio), che muove l’esistenza credente a farsi dono per gli altri nella carità.

 

Questi passaggi li troviamo sintetizzati e riassunti in modo sommo nella figura della Madre di Dio. Modello per ogni fedele di accoglienza docile della divina Parola, Ella “custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore” (Lc 2,19; cfr 2,51), sapeva trovare il nodo profondo che unisce eventi, atti e cose, apparentemente disgiunti, nel grande disegno divino.

Vorrei richiamare, inoltre, quanto è stato raccomandato durante il Sinodo circa l’importanza della lettura personale della Scrittura anche come pratica che prevede la possibilità, secondo le abituali disposizioni della Chiesa, di acquistare l’indulgenza per sé o per i defunti.

La pratica dell’indulgenza implica la dottrina degli infiniti meriti di Cristo, che la Chiesa, come ministra della redenzione, dispensa e applica, ma implica anche quella della comunione dei santi e ci dice “quanto intimamente siamo uniti in Cristo gli uni con gli altri e quanto la vita soprannaturale di ciascuno possa giovare agli altri”. In questa prospettiva, la lettura della Parola di Dio ci sostiene nel cammino di penitenza e di conversione, ci permette di approfondire il senso dell’appartenenza ecclesiale e ci sostiene in una familiarità più grande con Dio. Come affermava sant’Ambrogio: “quando prendiamo in mano con fede le sacre Scritture e le leggiamo con la Chiesa, l’uomo torna a passeggiare con Dio nel paradiso”.

Verbum domini, n. 87, 10 novembre 2010

1 Si tratta del Sinodo dei Vescovi tenutosi nel 2008 in Vaticano e avente come tema “La parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa”.

 

22-CAMPI ESTIVI 2018

Un’altra estate di belle esperienze per le famiglie

 

Costano - Assisi, 5-12 agosto

Da bravo pugliese trapiantato da vent’anni in Veneto, ogni anno ad agosto andavo giù in Puglia con la mia famiglia per stare con i parenti.

Quest’anno, complice Antonella Durante, abbiamo cambiato programma e abbiamo partecipato al campo di Costano, un paese vicinissimo ad Assisi.

Era la nostra prima esperienza di questo tipo, ma abbiamo percepito che sarebbe stato un evento speciale dalla cordialità e dall’accoglienza che abbiamo ricevuto appena arrivati.

Ho colto, tra chi era arrivato prima per iniziare ad aprire e sistemare la casa, la presenza di una bella amicizia consolidata, ma anche l’apertura alla condivisione e all’accoglienza.

Anche tutti i ragazzi che arrivavano, la maggior parte figli delle coppie presenti nel campo, erano molto contenti di ritrovarsi e poter condividere un altro campo.

Gli incontri fatti sono stati molto interessanti ed è stato molto proficua la dinamica - tipica del campo - di visitare ogni giorno una nuova realtà, sentire testimonianze e scelte di vita diverse, provando a capire cosa significa porre Dio al centro della propria vita.

Quello che ci ha arricchito di più è stato l’incontro tra noi che apriva ogni giornata, e che le dava il “LA “.

Il tema del campo era la “libertà” e ogni comunità che andavamo a visitare ci illuminava, secondo il suo carisma, su un singolo aspetto del tema.

Queste piccole realtà non fanno scelte che li isolano dal mondo, ma cercano di capire che cosa Dio dice all’umanità del nostro tempo, con le sue fatiche e sfide.

Anche nella condivisione tra famiglie mi è sembrato che ci si interrogasse quale scelta di vita fosse più facile: la nostra di famiglia o la loro?!

È più facile rispondere a Dio stando in relazione con il proprio coniuge, figli e nipoti, suoceri… o liberi da vincoli familiari?!

Come famiglia ci ha segnato la testimonianza di suor Milena delle Clarisse di Trevi, che ci ha aiutato a scoprire l’importanza delle regole da applicare ai vari impegni della nostra giornata e che si può riassumere con: “Se uno è fedele nel poco, sarà fedele anche nel molto!” (cfr Mt 25,21).

Pensando infine al tema della “libertà” mi ricordo il masso enorme che per tutto il primo giorno di campo mi sono dovuto portare in giro. Quel sasso ci doveva insegnare a liberarci di tutte quelle cose inutili che nella nostra vita non ci lasciano liberi nelle nostre relazioni. Comunque il mio sasso era veramente grande!

Un grande grazie va a tutti gli animatori che hanno avuto cura e premura delle nostre bambine; infatti loro sono ancora entusiaste e li ricordano tutti con gioia. Veramente le vite di questi giovani sono da benedire nei loro cammini e desideri di vita.

Spero, infine, di poter camminare ancora insieme con voi e di conoscere nuove famiglie.

Vito Rinaldi

 

Bessen Haut, 12-19 agosto

Oggi intervistiamo le capoanimatrici del campo Bessen Haut 2018, Francesca Spiller e Francesca Cavallin.

Quest’anno siete diventate capoanimatrici. Cosa ha significato avere una maggiore responsabilità? Quali ostacoli avete dovuto superare?

Beh, dopo tanti anni di campi famiglia e animazione in generale, ci siamo sentite abbastanza pronte nonostante i nostri soli 19 anni. Certo, durante la settimana il peso di questa responsabilità si è fatto sentire, ma quattro spalle sono meglio di due. Inoltre abbiamo potuto contare su uno staff di animatori davvero d’eccellenza, che è riuscito ad alleggerire anche le situazioni di tensione e fatica, rendendo questo compito non soltanto fattibile ma anche divertente.

Per quanto riguarda le difficoltà, senza dubbio coordinare 13 ragazzi, molti dei quali alla prima esperienza di animazione, non è stato proprio semplicissimo, ma con l’impegno e la buona volontà di tutti e l’incondizionato appoggio dei responsabili, Laura e Cristiano, anche i problemi che all’inizio ci sembravano insormontabili si sono ridimensionati.

Cosa significa essere animatori di un campo famiglie?

Mentre animare bambini significa spesso soltanto intrattenere e far divertire, indubbiamente in un campo famiglia subentra la fondamentale dimensione spirituale. Infatti non basta organizzare giochi e inventare attività e laboratori, bisogna inserire il gioco in un contesto di fede, proponendo attività inerenti al tema del campo.

Inoltre, bisogna tenere in considerazione che ogni sera a noi animatori era affidato il compito di animare il dopo cena, sia per i più piccoli ma anche per gli adulti, dovendo così conciliare diverse età e diversi modi di ”stare al gioco”.

Il tema del campo era “L’Amore e i verbi dell’Amore”. Come si trasmettono messaggi così alti e complicati ai più piccoli?

Innanzitutto abbiamo cercato di concretizzare il più possibile questi concetti, spesso percepiti come molto astratti, attraverso storielle, scenette, giochi… È stato poi fondamentale rendere partecipi i ragazzi, soprattutto quelli delle medie, chiedendo loro di raccontare le proprie esperienze ed esprimere le proprie opinioni, esponendoci noi stesse in prima persona, in modo da far mettere da parte l’iniziale vergogna o timore del parere altrui. Tutto ciò sarebbe stato però vano senza il supporto delle Sacre Scritture, le cui pagine hanno guidato il campo e le riflessioni di bambini e adulti.

Cosa secondo voi non può mancare in un campo famiglie?

Beh, a costo di sembrare di parte, la prima figura che ci viene in mente è quella dell’animatore, che ha il compito fondamentale non solo di guidare i bambini nelle attività, ma anche di far sì che gli adulti, con la serenità del sapere i propri figli in ottime mani, siano in grado di dedicarsi appieno alle riflessioni proposte dai relatori.

Un altro ruolo indubbiamente di primo piano è quello del cuoco, perché a pancia piena tutto appare più bello.

E come parlare di un campo famiglie senza citare il sacerdote? Quest’anno abbiamo avuto la fortuna di essere guidati da don Manuel che, con il suo cuore grande e il suo accento buffo, in poco tempo è riuscito a parlare di Gesù a grandi e piccini.

Ma non esisterebbe il campo senza coloro che lo organizzano e coloro che vi partecipano, quindi di fatto la presenza di ognuno è fondamentale.

Francesca & Francesca

 

Valle di Cadore, 18-25 agosto

Anche questa estate abbiamo vissuto con gioia e coinvolgimento l’esperienza di una “Settimana Estiva Famiglie” a Valle di Cadore, all’interno di un itinerario di pastorale familiare delle parrocchie della zona di Riese Pio X.

I sentimenti, prima della partenza, erano molti: di attesa, di curiosità, di gioia, di voglia di staccare e riposare; tutti però legati da una forza interiore molto intensa che ci invitava a rivivere nuovamente questa esperienza.

Da subito si è respirato un clima di amicizia e di familiarità, lontano dai ritmi frenetici della vita quotidiana, immersi nella natura. Tutto ciò ci ha aiutato ad avvicinarci e conoscerci tra noi e con le altre famiglie presenti ed entrare in profondità con il messaggio di Gesù.

La presenza di famiglie giovani, parecchie della zona di Riese Pio X, dei bambini e ragazzi ha reso questa settimana ricca di vivacità e intrisa di valori come con-divisione, amicizia e aiuto reciproco. Questo ci ha permesso di nutrire la nostra fede con tanta semplicità e umiltà. Insieme abbiamo scoperto che le difficoltà sono simili e comuni a tutti e che le soluzioni sono possibili: tutti possono insegnarci qualcosa e pregare insieme migliora ognuno di noi.

Il tema della settimana è stato molto interessante: “Cittadini del mondo” tenendo sullo sfondo la storia biblica di Rut. A condurre gli incontri degli adulti è stata la dott.ssa Gabriella Del Signore, biblista.

Ad aiutarci a vivere pienamente questa esperienza è stata importante la presenza del nostro parroco don Daniele. L’aver condiviso questa settimana con lui ha rafforzato il legame di fiducia, di affetto, di fede e amore verso Dio. Molto belli e importanti per affiatarci e approfondire i rapporti tra di noi e con il Signore sono stati i momenti del tempo libero (le confidenze pomeridiane in giardino, l’escursione in alta quota, l’uscita in gelateria), la S. Messa alla sera tutti insieme, la giornata penitenziale e il rinnovo delle promesse matrimoniali, momenti questi ultimi due colmi di spiritualità e intimità con Dio.

Un ringraziamento speciale ai cuochi, un vero esempio di servizio gratuito...

Il cammino parallelo di formazione dei figli è stato fondamentale per vivere appieno questa esperienza: la loro semplicità e la facilità con cui sanno fare comunità è stato un esempio per noi adulti.

Questa settimana, impegnativa per alcuni versi, è stata una risposta concreta alle esigenze della nostra famiglia, che aveva bisogno di essere sostenuta, di ritrovare l’entusiasmo, il tempo per stare assieme e crescere insieme con l’aiuto dell’amore di Gesù.

Fabrizio, Deborah, Giacomo, Simone.

 

Voltago Agordino, 19-26 agosto

Anche quest'anno abbiamo vissuto l'esperienza della settimana estiva a Voltago Agordino (BL).

Il tema era: " Valori dimenticati. Un materialismo che trascura l'essenziale". Si tratta di un tema molto vasto e molto attuale, che tocca moltissimi valori. Tutti ne parlano, tanti credono di viverli, ma siamo sicuri di sapere quali sono? E cosa intendiamo per valori?

Aiutati da suor Rita Barbato, abbiamo provato ad approfondirne alcuni.

Abbiamo parlato dell'affettività come valore che “massaggia il cuore”. Oggi siamo molto tecnologici e questo impoverisce le nostre relazioni, le priva della consolazione che possono dare le parole, i gesti, il contatto fisico.

I nostri giovani, forse anche noi, soffriamo di analfabetismo relazionale.

Dovremmo educarci a controllare il tono della voce, perché sia un tono moderato, saper usare parole di “seta”, fare gesti gentili. Educare ed educarci all'affettività.

Un altro valore è il silenzio; il silenzio che custodisce, il silenzio che ascolta, il silenzio di chi raccoglie, il silenzio di chi contempla, di chi prega, di chi medita.

C’è poi il perdono che è il valore dei forti, il valore che ci rimette in piedi, ci orienta verso l'altro, ci aiuta a creare ponti, anche dentro a noi stessi, perché a volte è difficile perdonarsi.

Infine c’è lo stupore: l'uomo che non sa stupirsi è un soggetto senza vita. Abbiamo molti motivi per stupirci anche se a volte preferiamo brontolare e lamentarci.

Approfittando del bel tempo, abbiamo fatto varie uscite e questo ci ha permesso di stupirci e di rendere grazie per i luoghi meravigliosi che abbiamo potuto ammirare.

Ci ha accompagnato nella settimana padre Francesco Pellizzer... e la buona cucina della cuoca Mariagrazia.

Fiorenza e Antonio

 

23-Notizie in breve

Ma non per questo meno importanti!

 

Carissimi,

Approfitto di questo piccolo spazio per condividere con voi alcune notizie e richieste.

I temi dei prossimi numeri

In attesa di ricevere da voi lettori un numero sufficiente di proposte per i temi dei prossimi numeri, come Redazione abbiamo deciso che i primi due numeri del 2019 saranno dedicati all’approfondimento dell’intero capitolo 4 dell’Esortazione Amoris laetitia.

Una tiratura eccezionale (per noi)

Questo numero è stato stampato in 4000 copie - non ci era ancora accaduto di avere una tiratura così elevata - per poterlo inviare a tutto il nostro indirizzario e disporre di un numero significativo di copie per tutte le famiglie e i gruppi che ne vorranno fare richiesta.

La rivista, infatti, se il parroco lo permette, può essere posta sul tavolo degli avvisi in fondo alla chiesa che frequentate e/o offerto in lettura alle famiglie che conoscete.

Una rivista in attesa di nuovi lettori

Vi ripeto infine l’invito già fatto nello scorso numero: fateci avere, nel rispetto della privacy, indirizzi postali di famiglie, sacerdoti, religiosi e religiose a cui la rivista possa interessare.

Vi ricordiamo che l’invio della rivista è gratuito, anche se ad ogni copia è abbinato un modulo di conto corrente postale precompilato (confidiamo sempre nella Provvidenza!).

Attendo, su tutti questi argomenti, il vostro contributo.

Noris Bottin

Presidente associazione Formazione e Famiglia

 

24-Per concludere

Che san Giuseppe, «uomo giusto», lavoratore instancabile, custode integerrimo dei pegni a lui affidati, custodisca tutte le famiglie, le protegga, le illumini sempre.

Che la Vergine Maria, come è Madre della Chiesa, così anche sia la Madre della «Chiesa domestica», e, grazie al suo aiuto materno, ogni famiglia cristiana possa diventare veramente una «piccola Chiesa», nella quale si rispecchi e riviva il mistero della Chiesa di Cristo. Sia Lei, l'ancella del Signore, l'esempio di accoglienza umile e generosa della volontà di Dio; sia Lei, Madre Addolorata ai piedi della Croce, a confortare le sofferenze e ad asciugare le lacrime di quanti soffrono per le difficoltà delle loro famiglie.

E Cristo Signore, Re dell'universo, Re delle famiglie, sia presente, come a Cana, in ogni focolare cristiano a donare luce, gioia, serenità, fortezza.

San Giovanni Paolo II