Foglio di collegamento tra Gruppi Famiglia
GF121 – novembre 2025
Alla ricerca di "senso" nella vita
Lettere alla rivista
1-LA FELICITÀ: OSSERVARE I COMANDAMENTI
ma anche vivere in perfetta onestà
Ho una curiosità: per l'Antico Testamento chi sono le persone felici?
Guido
“Faccio l'elogio dell'allegria, perché l'uomo non ha altra felicità sotto il sole che mangiare e bere e stare allegro. Sia questa la sua compagnia nelle sue fatiche, durante i giorni di vita che Dio gli concede sotto il sole” (Qo 8,15).
Ho cominciato con questo versetto di Qoelet, un po' come provocazione, un po' per descrivere un'idea di felicità non assente nell'Antico Testamento.
Il libro del Qoelet è spesso sarcastico, addirittura caustico, ci lascia sempre con un po' di amaro nel cuore. Sarebbe troppo riduttivo comunque prendere un versetto da un libro qualsiasi e costruirne una teoria. Anche se ciò spesso accade.
Il Deuteronomio, che va un po' più in profondità, ci insegna che la felicità sta nell'osservare i comandamenti:
Allora il Signore ci ordinò di mettere in pratica tutte queste leggi, temendo il Signore, nostro Dio, così da essere sempre felici ed essere conservati in vita, come appunto siamo oggi (Dt 6,24).
Questo è un concetto ripetuto molte volte nei salmi e nei libri sapienziali, ma prima vorrei citare Isaia che descrive l'uomo felice e che può cantare la felicità:
Colui che cammina nella giustizia e parla con lealtà, che rifiuta un guadagno frutto di oppressione, scuote le mani per non prendere doni di corruzione, si tura le orecchie per non ascoltare proposte sanguinarie e chiude gli occhi per non essere attratto dal male:
costui abiterà in alto, fortezze sulle rocce saranno il suo rifugio, gli sarà dato il pane, avrà l'acqua assicurata (Is 15,16).
Isaia e i profeti perciò vanno oltre, non è solo questione di osservare le leggi, ma di vivere in perfetta onestà.
Felici sono ovviamente coloro che abitano nella Terra che Dio ha loro dato:
Felici vi diranno tutte le genti,
perché sarete una terra di delizie,
dice il Signore degli eserciti (Ml 3,12).
Certo la felicità corrisponde a una benedizione di Dio che rende la terra fertile e produttiva.
Come vediamo anche oggi, nel bene e nel male, Israele ritiene che niente li faccia più felici che vivere nella Terra che il Signore ha loro assegnato.
Da notare che è il Signore degli “Eserciti” per cui vale la pena combattere e annientare il nemico per difendere la propria terra.
Nonostante i limiti del concetto di felicità in tutte le citazioni fatte finora, penso che il cuore di un ebreo fedele troverà la felicità nel vedere il Volto di Dio. Aspirazione impossibile, ma sempre desiderata.
padre Vincenzo Salemi IMC
Dialogo tra famiglie
2-UNA RICETTA PER LA FELICITÀ DI COPPIA
Fino a che punto accetto l’altro così com’è?
Vedo tante coppie che si separano. Per evitare questo c'è una ricetta per la felicità di coppia?
Elisabetta
Le ricette sono utili solo se scritte da un medico dopo una diagnosi corretta! Per la vita non ce ne sono…
In questo momento viviamo in una società individualista: ognuno pensa al proprio benessere, ascolta solo chi la pensa come lui/lei… non ci si interessa di chi ha problemi, si insulta chi la pensa diversamente (vedi i commenti sui social), ecc.
Per stare bene in due, credo occorra, oggi, cambiare il modo di guardare se stessi: una auto analisi che faccia capire fino a che punto siamo capaci di accettare l’altro così com’è e di aprirci all’altro; fino a che punto ci sentiamo disposti a non usare l’altro, ma ad affiancarci all’altro per un progetto di vita comune; fino a che punto siamo disposti alla comprensione, al rispetto, al perdono, al sacrificio per l’altro.
Senza questi presupposti la vita a due non può né nascere né vivere. La lealtà verso noi stessi e verso l’altro è l’alimento quotidiano della vita a due: bisogna essere consapevoli che o cerco la felicità dell’altro o non ci sarà mai felicità…
Quando pensiamo di essere disposti a quanto detto sopra, prendiamo e meditiamo il rito del Sacramento, soffermandoci soprattutto sulle promesse: noi faremo la nostra parte, la grazia del Sacramento colmerà le lacune nella misura in cui chiediamo allo Spirito di guidarci. La preghiera resta un’ottima - e unica - sorgente di vita autentica.
Anna Lazzarini
In questo numero
3-ALLA RICERCA DELLA FELICITÀ
Un itinerario nelle varie dimensioni della vita familiare
di Franco Rosada
In questo numero avremmo dovuto affrontare tre argomenti: Il male di vivere, Una società senza padri (e senza madri), Rimanere o separarsi? argomenti che nel sondaggio avviato tra i lettori avevano auto più preferenze.
Non è proprio andata così e provo a raccontarvi cosa contiene questo numero.
Abbiamo soprattutto trattato il primo tema: Il male di vivere, che abbiamo sviluppato come ricerca di senso, ricerca di certezze, desiderio di felicità.
Questo itinerario ha preso le mosse dal concetto di paternità e maternità, provando a cercare in che modo queste due realtà del maschile e del femminile sono oggi messe in discussione.
Se la maternità è ancora una caratterista del femminile, oggi circola l’idea che le donne ne possano anche fare a meno, e sentirsi ugualmente realizzate.
In altre parole, si fanno meno figli non solo per problemi economici, che sono tanti, ma anche per ragioni culturali: i figli sono solo un impiccio!
Invece, è ora di far sapere che è vero il contrario.
La paternità è una realtà meno immediata rispetto alla maternità. L’uomo è da sempre genitore, senza il suo seme la vita non inizia, ma l’essere padre è stato frutto di un cammino culturale.
Più il maschio viene marginalizzato o addirittura estromesso dalla vita familiare più la società corre rischio di perdere la figura paterna.
Perché i maschi non manifestano agli altri la bellezza di essere padre?
Scorrendo il numero noterete come la titolazione di molti articoli sia sempre la stessa: Ha ancora senso...
Come per la maternità e la paternità, abbiamo usato questo titolo anche per parlare di famiglia, amore di coppia, bambini, catechismo.
Per la famiglia abbiamo attinto al nuovo libro di Adriano Bordignon, presidente nazionale del Forum delle associazioni familiari. A livello sociale ed economico la famiglia ha ancora senso? Anche noi che crediamo nella famiglia non corriamo il rischio della rassegnazione?
Come cambia l’amore di coppia al tempo di Internet?
In realtà, è il modello di famiglia che con la rivoluzione industriale è progressivamente cambiato. Internet è solo l’attuale punto di arrivo. È quanto ci racconta Paolo Benanti, un vero esperto del mondo digitale.
Nel numero c’è anche spazio per i bambini. La questione di senso non riguarda tanto loro ma il nostro modo di considerarli. I nostri sono tesori preziosi ma, nel clima di guerra latente che viviamo, come consideriamo i bambini “altri”, quelli che vivono sotto le bombe o fuggono dalla fame e dalla miseria?
Partendo dai bambini e dalla loro formazione alla fede, il passo successivo è stato: rispetto a quanto abbiamo appreso da piccoli, quanto è cresciuta la nostra fede, con cosa la alimentiamo?
Allora, non rimane che un ultimo passaggio: il senso della nostra vita, la fonte della nostra felicità riposa in Dio o negli idoli di questo mondo?
Come colmiamo la negatività che troviamo in noi, nel mondo e nella Storia?
L’ultima parola di “senso” con cui si chiude il numero è quella di Gesù: è Lui che dà senso alla nostra vita, quando ci sembra che questa non abbia più senso.
Ma quanto pratichiamo la Parola?
NOTE A MARGINE
In questo numero riportiamo anche il resoconto dell’unico campo estivo che siamo riusciti a realizzare: quello di Barcis (PN), in cui è stato sviluppato un tema particolare: Intelligenza artificiale. Indicazioni per l'uso.
Purtroppo, non siamo riusciti ad avere un articolo sul tema ma, incuriositi, siamo passati a fare una prova pratica: l’articolo di apertura, come potrete vedere, è stato realizzato con il supporto di ChatGTP, un assistente editoriale virtuale basato sull’intelligenza artificiale.
Sui risultati giudicate voi!
4-SU COSA SI BASANO LE NOSTRE CERTEZZE?
Affetti, lavoro, responsabilità, crescita personale, trascendenza possono dare senso alla nostra vita ma, come tutte le realtà umane, possono riservare delusioni e procurare senso di vuoto.
A cura della Redazione
Abbiamo bisogno di certezze, di dare un senso alla nostra vita quotidiana, altrimenti questa ci sembra insensata.
Affetti, lavoro, responsabilità, crescita personale, trascendenza sono alcuni valori con cui cerchiamo certezza, con cui proviamo a dare un senso alla nostra vita.
Le relazioni affettive
La prima fonte di senso è quella che troviamo nelle relazioni affettive: i figli, il coniuge, il prossimo. Sentirsi amati e necessari agli altri dà uno scopo e un motivo per andare avanti anche nei momenti difficili. “Vivo per i miei figli”, “per chi amo”, “per chi ha bisogno di me” sono tra le frasi più frequenti con cui sintetizziamo le nostre ragioni di vita.
"Vivo per i miei figli."
Potremmo riassumere così questo sentimento: “Nei compiti, nelle paure, nelle loro prime cadute io provo a diventare il posto dove tornare - non un eroe, solo un porto che non chiude mai il suo cancello. Quando dicono il mio nome, anche la fatica prende senso”.
Ma, come ben sappiamo, i figli crescono e spiccano il volo. Ce lo ricorda bene Gibran:
“I vostri figli non sono figli vostri. Sono i figli e le figlie del desiderio che la vita ha di sé stessa. Essi non provengono da voi, ma attraverso di voi.
E sebbene stiano con voi, non vi appartengono. Potete dar loro tutto il vostro amore, ma non i vostri pensieri. Perché essi hanno i propri pensieri”.
Ma non solo. Possono purtroppo essere fonte di delusione. Ci aspettiamo un minimo di riconoscenza per quello che abbiamo fatto per loro e, invece, nel momento del bisogno sono assenti o fanno cadere dall’alto il loro aiuto.
Vivo per chi amo.
L’amore riempie la vita. “Vivo per chi amo non come si vive per un ideale lontano, ma come si cura un fuoco acceso in una stanza: con gesti quotidiani, con attenzione che non fa rumore. Non è possesso ma scelta. Amare è dare un nome semplice a quel che vale la pena”.
Ma l’amore a volte, oggi forse più spesso, finisce e scopriamo che la persona che amavamo, a cui avevamo dato tanto, era solo un egoista, che non pensava che a se stesso e ci ha ingannato. Oppure era un debole, incostante, incapace di tenere fede alla parola data.
Vivo per chi ha bisogno di me.
Ci sono parecchie persone che si impegnano seriamente, per professione o per scelta ad aiutare il prossimo. “Vivo me come chi tiene una lanterna per altri in una notte imprevista.
C'è dignità nel restare, nell'ascoltare, nel portare il tè o le parole giuste al momento giusto.
A volte la mia presenza è sola compagnia; altre, è la differenza tra arrendersi e resistere. In quel tenue aiuto trovo il mio dovere e la mia pace”.
Ma non mancano i problemi e le delusioni. Il troppo dare può incidere sulla nostra salute o sulle nostre relazioni familiari. La gratitudine del prossimo si può trasformare in pretesa, la richiesta in diritto, il legame in consuetudine che pretende senza restituire.
Il lavoro e il suo contributo
La seconda fonte di senso è quella che ricaviamo dal nostro impegno lavorativo.
Il lavoro è fonte di gratificazione quando si sa che questo è utile agli altri come può essere quello del fornaio. “Ogni mattina, prima dell’alba, accendeva il forno. Il paese dormiva ancora, ma lui sapeva che da quel calore sarebbe nata la giornata di tutti. Non pensava a ‘dare senso’ alla vita: il profumo del pane era, per lui, era una risposta”. Un lavoro così non è solo produzione, ma appartenenza; è lo spazio in cui la persona scopre di poter lasciare un segno, offrire un contributo tangibile agli altri.
Ma il lavoro è anche frutto di alienazione come per chi fa un lavoro ripetitivo in cui non può mettere nulla di proprio. “Montava le stesse tre viti per otto ore al giorno. Da anni. A volte si chiedeva se il suo lavoro avesse ancora valore”. Oppure per chi fa un lavoro talmente inutile, o addirittura dannoso, consapevole che quel lavoro non dovrebbe neanche esistere.
Molti lavoratori, pur ben pagati, si sentono vuoti perché il loro lavoro non produce nulla di significativo.
Non è la fatica fisica a stancarli, ma l’assenza di scopo.
O, ancora, c’è chi ha lavorato tutta la vita inseguendo l’illusione del successo, e alla fine scopre “che la sua vita è stata una ridicola menzogna”.
Quando il lavoro diventa fine e non mezzo, strumento di riconoscimento più che di servizio, allora il suo potere di dare significato si spegne.
Il dovere e la responsabilità
Anche coltivare il dovere e la responsabilità verso gli altri è una possibile fonte di senso.
“Quando la madre si ammalò, lei aveva vent’anni. Rinunciò all’università e tornò a casa. ‘Solo per un anno,’ pensava. Passarono dieci anni. A volte la rabbia la mordeva, ma bastava uno sguardo della madre, una frase semplice - ‘sei la mia forza’ - perché la stanchezza si trasformasse in pace. Il dovere, capì, non è catena se si sceglie di restare”. Tuttavia, il dovere può anche pesare come una catena, quando non è scelto ma imposto, o quando non è più riconosciuto dagli altri.
È allora che la responsabilità diventa solitudine.
Molti sperimentano questa ambivalenza nella vita quotidiana: il genitore che si sente schiacciato dal dovere di sostenere la famiglia, l’insegnante o il medico che, pur animati da ideali, finiscono logorati dall’eccesso di responsabilità e dalla mancanza di riconoscimento. Ciò che doveva dare senso diventa un pesante fardello.
Infine, il dovere può anche smarrirsi e da bene diventare male. Hannah Arendt, nel suo saggio “La banalità del male”, osserva che l’obbedienza cieca, quando non è accompagnata dal pensiero, può trasformarsi in irresponsabilità. Si può “fare il proprio dovere” e al tempo stesso tradire l’umanità.
La realizzazione personale e la libertà
Ognuno cerca di “diventare sé stesso”, di vivere in modo coerente con ciò che sente e crede.
La libertà è la possibilità di scegliere il proprio cammino, ma anche la fatica di non avere certezze.
Se vissuta con coraggio, diventa crescita; se vissuta senza orientamento, può trasformarsi in smarrimento o angoscia.
È la scelta fatta da una sarta: “Aveva cucito per tutti: spose, clienti esigenti, signore che non salutavano. Poi, un giorno, chiuse la bottega per due settimane e cominciò a cucire solo abiti che le piacevano. Ne vendette pochi, ma per la prima volta ogni punto dell’ago le sembrava un gesto libero”.
A causa della fatica di non avere certezze “molti preferiscono rinunciare alla libertà pur di non affrontare la solitudine che essa comporta” scrive Erich Fromm, in “Fuga dalla libertà”, “Il rischio è vivere esistenze conformiste, prive di autenticità: si obbedisce, si lavora, si ama, ma senza scelta. In questo senso, la libertà non garantisce il senso: lo richiede”. Perché la libertà può anche diventare un fardello.
Jean-Paul Sartre in “L’essere e il nulla” la definisce “una condanna”: l’uomo è libero, e dunque radicalmente responsabile delle proprie scelte. Questa scoperta, invece di rassicurare, può generare angoscia. Quando non esistono valori dati, la libertà diventa vertigine.
La trascendenza e la speranza
C’è un momento in cui il senso della vita non si riesce più a trovare “dentro” le cose: lavoro, affetti, doveri, libertà.
Quando si sperimenta la perdita, l’ingiustizia o la morte, l’uomo si trova davanti a una domanda radicale: “che cosa resta, se tutto ciò che amo può finire?”.
È qui che nasce la dimensione della trascendenza - non necessariamente religiosa, ma come apertura a qualcosa che supera il proprio io.
“Aveva diciassette anni e una malattia che non perdonava. Le infermiere lo trovavano spesso sorridente. ‘Ho capito che la vita è un prestito’, disse un giorno, ‘e che ogni ora va restituita con gratitudine’. Non parlava di fede, ma di fiducia. Il suo sguardo, quando salutava, lasciava negli altri la sensazione che il mondo fosse ancora affidabile”.
La trascendenza e la speranza, dunque, non sono evasione, ma capacità di dare significato al limite.
In positivo, aprono alla fiducia, alla gratitudine, alla solidarietà. In negativo, quando sembrano svanire, generano vuoto, cinismo, disperazione.
Per il credente valgono alcune parole di Gesù tratte dal vangelo di Luca: “In quel tempo, gli apostoli dissero al Signore: ‘Accresci in noi la fede!’. Il Signore rispose: ‘Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: ‘Sradicati e vai a piantarti nel mare’, ed esso vi obbedirebbe’”.
Quando, nella prova, la fede non basta a colmare lo smarrimento e senso di vuoto, dovremmo chiederci se la fede che professiamo non sia altro che “un’illusione”, un’ombra, rispetto alla fede che sradica i gelsi.
Il testo è frutto di una sessione di lavoro realizzata con ChatGTP.
ChatGTP è un assistente editoriale virtuale.
Per il lavoro di coppia e di gruppo
• In quali situazioni gli affetti mi hanno deluso? Come ho reagito?
• Mi piace il lavoro che faccio? Mi gratifica abbastanza?
• Sono ligio al dovere? Ci sono doveri che mi pesano?
• La famiglia e i figli mi realizzano o a volte rimpiango la libertà perduta? Mi sento realizzato?
• Dio mi ha mai deluso? Come ho recuperato la fede dopo la delusione?
5-ChatGTP:
CHE COS’È?
Chat-GPT, l’intelligenza artificiale di OpenAI, è stata lanciata nel novembre 2022.
Di cosa stiamo parlando?
Chat-GPT è un tipo di programma informatico che utilizza l'intelligenza artificiale per comprendere e generare testi simili a quelli umani. È progettato per elaborare e comprendere il linguaggio in modo simile a come fanno gli esseri umani.
Uno dei principali vantaggi di Chat-GPT è la sua versatilità e la vasta gamma di applicazioni. Può assistere gli utenti in vari compiti, come trovare informazioni, generare idee, fornire raccomandazioni e offrire orientamenti su una vasta gamma di argomenti. Che si abbia bisogno di aiuto con i compiti, si desideri esplorare nuove idee o si cerchi compagnia in una conversazione, Chat-GPT è sempre pronto a fornire assistenza. Un altro aspetto positivo di Chat-GPT è la sua capacità di imparare e adattarsi.
Tuttavia, ci sono alcune considerazioni da tenere a mente nel suo utilizzo.
Una di queste è che le risposte del modello vengono generate sulla base dei modelli appresi dai dati di addestramento. Sebbene si sforzi di fornire informazioni accurate e utili, c'è comunque la possibilità cha generi risposte errate o fuorvianti.
Fonte: www.moebiuslugano.ch
6-HA ANCORA SENSO ESSERE MADRI?
I figli possono essere una ragione per cui vale la pena vivere?
Oggi le donne possono definirsi tali senza doversi definire per forza anche madri e senza dover fornire motivazioni della loro scelta.
Viola Ardone
Quando i figli erano più piccoli, ho invidiato le amiche single, senza un partner, senza obblighi, così libere, sfavillanti, indipendenti. Mai ho invidiato amiche senza figli, perché i figli rendono la vita più bella.
Caterina Soffici
È necessario ridurre gli ostacoli di ordine pratico e organizzativo che i giovani affrontano. Ma ancor più serve un impegno comunitario per dare ragione delle esperienze fondamentali della speranza, della reciprocità, del dono e della cura. Il racconto della bellezza della genitorialità merita di essere espresso in modo migliore rispetto a quanto abbiamo fatto fino ad oggi.
Adriano Bordignon
Una società senza madri sarebbe una società disumana, perché le madri sanno testimoniare sempre, anche nei momenti peggiori, la tenerezza, la dedizione, la forza morale.
Papa Francesco
a cura della Redazione
A partire dalle parole di Dio a Noè e ai suoi figli: “Crescete, moltiplicatevi e riempite la terra” (Gen 9,1) è sempre prevalsa l’idea che “l’essere umano per essere completo doveva essere generativo, cioè, occuparsi della generazione successiva; quindi, sostanzialmente riprodursi e crescere la prole.
Ma ormai diversi decenni”, scrive Marco Scarmagnani (1), “le coppie, in particolare quelle italiane, di figli ne fanno davvero pochi. L'Istat, nel report 2024 ‘Famiglie, soggetti sociali e ciclo di vita’, indica che il 45,4% delle donne tra 18 e 49 anni sceglie di non diventare madre e il 22,2% non vuole figli nei 3 anni successivi, né in futuro. Per il 17,4% la maternità semplicemente non rientra nei propri progetti di vita”.
Sembra che essere genitore, in particolare essere madre, non sia più un valore che dia senso alla vita, una ragione per cui valga la pena vivere.
Da dove trae origine la crisi della maternità?
Ultimamente se ne discute molto e ciò ha dato origine a due scuole di pensiero.
Alcuni sostengono che questo sia segno di un cambiamento culturale, altri che sia in prevalenza frutto di un problema economico.
UNA QUESTIONE CULTURALE…
“Le ragazze che incontro non sono esseri umani piegati dalle difficoltà del vivere, costrette a sacrificare la natura materna alla legge di un mondo crudele”, scrive Ritanna Armeni (2); “rifiutano ogni ipocrisia affermando che un figlio le metterebbe in una sorta di custodia cautelare e loro non hanno nessuna voglia di rinunciare ai loro progetti, alla loro libertà”, la libertà che ogni maschio ha senza fatica fin dalla nascita.
Un problema per tutto l’Occidente
“Sono egoiste?”, si chiede Eugenia Roccella (3). “No, finché il mondo intorno a loro è interamente plasmato su un modello individualista di felicità e realizzazione personale, sull’inseguimento infinito del desiderio. No, finché il sacrificio e la capacità oblativa si chiede solo alle madri, senza nessun compenso, nessuna gratificazione sociale, nessun riconoscimento o aiuto.
Dopo tanti anni in cui si affermava che il problema era solo economico, solo di case, lavoro, sussidi, la Armeni ci dice che il problema invece è culturale, e non è delle donne, ma di tutto il nostro mondo occidentale. Se non lo capiamo in fretta, il declino demografico e di civiltà sarà inevitabile”.
Maternità come obbligo
“Una vita senza figli non è una vita e basta: la battezziamo con una negazione che indica una mancanza”, osserva Ilaria Dondi (4). “In questo modo, diciamo non solo che la maternità è centrale ma pure che è il modello unico, lo stampo: tutto ciò che devia, è sottrazione o assenza, ed è, pertanto, monco, una parte che si distacca e si differenzia, e non una cosa a sé.
Se il punto diventa ‘perché non fai un figlio?’, allora dobbiamo anche ribaltare la questione e chiedere ‘perché fai un figlio?’. In poche e pochi sanno rispondere senza ricorrere a cliché; a volte, non sapendo cosa dire, mi rispondono ‘perché è naturale così’”.
Meglio senza figli
“Ci troviamo di fronte a un profondo cambiamento culturale: la genitorialità non è più vista dai giovani come condizione fondamentale per la realizzazione di sé e della coppia”, scrive Maurizio Ferrera (5). “Una quota significativa di giovani dice esplicitamente che i figli non valgono la pena, impongono troppi sacrifici su altre dimensioni importanti della vita.
Le ricerche indicano che, anche con l'avanzare dell'età, le persone senza figli hanno livelli di soddisfazione e ‘felicità’ non inferiori a chi è genitore. Queste persone sono più contente del proprio stato di benessere psico-fisico, delle loro realizzazioni sul lavoro, dei vari interessi che hanno potuto coltivare”.
Anzi, molto meglio
“Nessun racconto è cambiato nelle ultime due generazioni quanto quello della maternità”, annota Flavia Perina (6). “Oggi è handicap, ostacolo, limite assoluto alla libertà e alla realizzazione di sé. È l’odissea per l’asilo nido. È la promozione inafferrabile perché sei quella che alle cinque scappa. È tua madre che dice: senza te e i tuoi fratelli girerei in Porsche”.
“Anche mia zia la pensa così”, commenta Simonetta Sciandivasci (7). “Quando mi ha vista in un programma tv a parlare di maternità lei, madre di due ventenni che ama, mi ha detto: ‘La prossima volta, rispondi che i figli sono una gran rottura di scatole’. Mia zia è meridionale: lo dico a scanso di appropriazioni culturali”.
Nelle considerazioni che abbiamo appena letto emergono non solo la dimensione culturale del fenomeno ma anche il “peso” della maternità sulla vita delle donne. Ma c’è anche chi la pensa diversamente.
Un bastone per la vecchiaia
Per esempio, Assia Neumann Dayan (8) in un suo articolo riporta questa testimonianza: “Fare figli non dovrebbe servire solo alla società ma anche a sé stessi... è un atto egoistico volerli avere, non volerli avere... ci serve per avere una buona vecchiaia. Forse in questo delirio di eterna giovinezza non ci si rende più conto che a un certo punto il nostro corpo cede e avere delle persone che cercano di aiutarti in questo periodo della vita è fondamentale, specialmente se con un legame forte genitoriale. Per quanto mi riguarda non volere figli non è un atto egoistico, ma solo una esigenza per credere di non invecchiare: perciò è una fuga dalla realtà”.
Come accaparrarsi un marito…
“Fino alla seconda metà del Novecento la trasmissione femminile dei saperi, la voce delle nonne e delle madri, insegnava a desiderare e praticare la maternità fin dall’età delle bambole, e non solo per appagamento personale o adempimento di una vocazione biologica”, scrive Flavia Perina (9). “C’era scaltrezza e calcolo, come sempre avviene quando si parla di potere, soprattutto nelle classi più povere. L’arte di restare incinta era la via maestra per procurarsi un marito in mancanza di dote, per annettersi un buon partito recalcitrante, per superare il possibile veto di una famiglia ostile”.
…o restare a metà del guado
“Ma all’improvviso”, continua Perina, “questo potere ha cominciato a diventare meno interessante per le ragazze. Il suo utilizzo è stato respinto e rinnegato. Si era partite all’assalto della fortezza maschile delle professioni e delle carriere, degli alti studi e dei salari, e l’antico ermellino risultava oggettivamente inutile, anzi una zavorra.
Ovvio che il racconto sia cambiato, anche se i suoi esiti spesso mettono tristezza perché le donne hanno rinunciato al loro vecchio potere senza riuscire ad arrogarsi fino in fondo quello che desideravano, e si trovano così a metà del guado, mentre il loro scettro primigenio è impugnato dalla tecnologia – figli in provetta, Gpa, ovuli e gameti in libero mercato – e il nuovo sfugge anche ai più ostinati tentativi di conquista”.
Fonte di gioia
“Essere madri certe volte ti complica la vita, ma nella maggior parte dei casi te la riempie di gioia e divertimento”, afferma Caterina Soffici (10). “Le madri perfette non esistono, come non esistono figli perfetti. Chi ha famiglia vive in un grande e perpetuo caos, ma noi madri imperfette e snaturate non ci facciamo più caso. Qualche volta, soprattutto quando i figli erano più piccoli, ho invidiato le amiche single, senza un partner, senza obblighi, così libere, sfavillanti, indipendenti. Mai ho invidiato amiche senza figli, perché a me i figli divertono. Anche con tutte le arrabbiature che ti fanno prendere e le ansie e le paure. Alla fine, portano amore e rendono la vita più bella. Insomma, parlo da madre fortunata di figli sani e senza grossi problemi, nonostante abbiano avuto una genitrice come me, così poco mamma italica”.
Ripensamenti
“Sembra che ci sia un ritorno di desiderio per la maternità”, annota Carlo Bellieni (11). “Infatti; sta rinascendo la nostalgia per qualcosa che si è perso. Quante donne si stanno rendendo conto che non possono passare metà della vita cercando di non aver figli e l’altra metà disperandosi perché i figli non arrivano!
Le donne si stanno rimpossessando del termine mamma.
Ci sono tanti modi di essere mamma. C’è chi lo è senza aver figli biologici: quante donne sono grandi mamme avendo adottato un bambino o perché hanno una filiazione spirituale di tanti figli! Quante mamme biologiche non riescono, di contro, a volere, capire, amare la fortuna che è toccata loro?
Essere mamma oggi può sembrare qualcosa controcorrente: ma è un atto di intelligenza, perché rispetta la profonda struttura biologica di una donna, ed è un atto di libertà perché rispetta il desiderio di comunicare la felicità che è impresso al fondo di tutti noi”.
...O UNA QUESTIONE ECONOMICA?
“Immaginiamo, per assurdo, che la denatalità nel nostro Paese sia dovuta esclusivamente a una questione culturale”, scrive Gigi De Palo (12). “Davvero pensiamo che sia possibile invertire la rotta in tempo utile attraverso il solo cambiamento dei valori e dei desideri individuali?
Se davvero la natalità fosse solo una questione culturale, e se non si volesse – o non si riuscisse – a intervenire con misure concrete di politica familiare e fiscale, l’unica via rapida sarebbe l’aumento consistente dell’immigrazione.
Ma chi insiste sull’aspetto culturale della denatalità, è pronto ad accettare un cambiamento ancora più profondo e repentino della cultura italiana e del nostro immaginario collettivo? O forse, in fondo, la teoria culturale diventa un alibi per non agire davvero? Perché cambiare una cultura è impresa ardua, lunga e lenta. È molto più difficile che varare una riforma fiscale o un piano di sostegno alla genitorialità.
E allora viene da chiedersi: quali strumenti concreti hanno in mente coloro che invocano il famigerato cambiamento culturale?”.
Statistiche alla mano
“l’Italia è uno dei primi Paesi al mondo ad aver raggiunto livelli bassissimi di fecondità negli anni ’90”, sottolinea Agnese Vitali (13). “Inoltre, oggi è il Paese con la più alta età media al primo figlio in Europa e con la più alta quota di nati da madri ultra-quarantenni. Da un punto di vista di ranking, quindi, l’Italia è interessante perché estrema, eccezionale. Poi è interessante perché negli ultimi anni il Governo si è espresso in modo esplicitamente pro-natalista e che il Governo ha fatto della natalità e della famiglia una priorità assoluta.
Per quanto riguarda l’Italia le principali barriere alla realizzazione delle proprie aspirazioni riproduttive sono di tipo economico, lavorativo e abitativo; quanto è minoritaria la quota di intervistati che non vede la genitorialità come parte del progetto di vita e quanto è invece alta la quota di coloro che vorrebbero idealmente due o addirittura più figli.
È così se guardiamo alla percentuale di rispondenti che indica disoccupazione e instabilità lavorativa come responsabili del mancato raggiungimento del numero di figli desiderato: 30% in Italia e 33% in Thailandia e Sud Africa contro solo 5% in Svezia e 10% in Germania.
Il rapporto dimostra che le ragioni economiche sono percepite dalle persone, in Italia come nel resto del mondo, come la principale barriera al raggiungimento della genitorialità e del numero di figli desiderato”.
Serve una politica adeguata
“Non è vero noi madri possiamo fare tutto: possiamo volere tutto, ed è diverso”, osserva Simonetta Sciandivasci (14). E continua: “qualche tempo fa, Alice Boselli, una donna di 42 anni, ha discusso la tesi con suo figlio di cinque anni tra le braccia e ha detto: ‘Voglio dimostrare che si può fare tutto. Le donne devono sentirsi libere di lavorare, studiare, crescere i figli, senza colpe o limiti imposti’.
Sbaglia. In buona fede, anzi in ottima fede, ma sbaglia.
Dovremmo dire che una madre non può fare tutto perché la maternità è uno statuto speciale e merita (pretende) tempi, spazi, leggi, tutele, pause e diritti altrettanto speciali, su misura, unici, non rimandabili, non alienabili, e continuamente trattabili. Se le madri potessero fare tutto, non ci sarebbe bisogno di congedi, asili, padri, nonni, amici, baby-sitter, scuola pubblica, welfare.
Essere donne, essere madri, essere figli: sono tre specificità distinte e vulnerabili. Ed è quella vulnerabilità che trovo drammaticamente assente in tutti i nostri più che legittimi, doverosi, a volte paranoici discorsi su genitorialità, demografia, famiglie.
Quindi, lo Stato deve fare di tutto affinché le madri possano fare tanto, o anche poco”.
Qualcosa di importante
“Non basta mettere al mondo un figlio per dire di esserne anche padri o madri”, ci ricordava anni fa papa Francesco (15).
“L’altro giorno, parlavo sull’inverno demografico che c’è oggi: tante coppie non hanno figli perché non vogliono o ne hanno soltanto uno perché non ne vogliono altri, ma hanno due cani, due gatti … Eh sì, cani e gatti occupano il posto dei figli. Sì, fa ridere, capisco, ma è la realtà. E questo rinnegare la paternità e la maternità ci sminuisce, ci toglie umanità. Avere un figlio sempre è un rischio, sia naturale sia d’adozione. Ma più rischioso è non averne. Più rischioso è negare la paternità, negare la maternità, sia la reale sia la spirituale. Un uomo e una donna che, volontariamente, non sviluppano il senso della paternità e della maternità mancano qualcosa di principale, di importante”.
1 Fonte: www.semprenews.it
2 Fonte: www.ilfoglio.it
3 Fonte: www.ilcentuplo.it
4 Fonte: La Stampa 20 gennaio 2024
5 Fonte: Corsera 21 giugno 2025
6 Fonte: La Stampa 17 gennaio 2022
7 Fonte: Specchio de La Stampa.it 16 gennaio 2022
8 Fonte: La Stampa 17 gennaio 2022
9 Fonte: La Stampa 17 gennaio 2022
10 Fonte: La Stampa 19 gennaio ‘22
11 Fonte: UCIPEM newsletter n.13
12 Fonte: post su Facebook
13 Fonte: www.secondowelfare.it
14 Fonte: La Stampa 24 luglio 2025
15 Fonte: Udienza generale del 7 gennaio 2015
Sintesi della Redazione
Per il lavoro di coppia e di gruppo
• Crisi della maternità: questione economica o culturale?
• Se fosse possibile ritornare indietro nel tempo, fareste le stesse scelte genitoriali?
• Se qualcuno sostenesse con voi che i figli sono una gran rottura di scatole, cosa rispondereste?
• Come considerereste una donna che non ha figli, anche se ha la possibilità e i mezzi per farlo?
Opinioni a confronto
7-MA I FIGLI INQUINANO?
Pare brutto doverlo ribadire, perché sembra non si voglia far posto agli altri, ma il mondo è strapieno. Siamo così tanti che per mangiare dobbiamo compiere abomini sulle bestie, per curarci sgomitare, prevaricare, fagocitare interi continenti.
Mettere al mondo un figlio non è affatto un regalo alla Terra, è piuttosto un dispetto.
Perché i bambini ci sono, ce ne sono moltissimi e molti di loro non hanno niente da mangiare o una di quelle culle in cui riposare.
Figuriamoci se voglio mettermi a contendere col Santo Padre su questioni morali, ma non si può dire contemporaneamente che siamo pieni di plastica che non riusciamo a smaltire, che il mondo sia uno schifo e poi sostenere la natalità.
Elena Stancanelli, La Stampa 1° febbraio 2022
Negli ultimi tempi, nel racconto di alcuni media torna ad intervalli regolari una filastrocca che non ha nulla a che fare con la realtà: è quella concezione falsa secondo cui i figli inquinano.
Non è così.
I figli migliorano il clima sociale, lo arricchiscono, lo curano perché sono loro oggi a volere un mondo diverso, migliore di quello che è stato finora costruito.
Sono loro a renderci maggiormente responsabili verso il pianeta: se faccio la differenziata non è perché me lo dice il sindaco della mia città, ma perché è un atto d’amore nei confronti dei miei figli, del futuro…
Sono i nostri figli a renderci parsimoniosi perché ci “costringono” a spendere per la loro formazione e non per il consumo tout court. Sono loro l’antidoto al consumismo, all’individualismo e all’egoismo che davvero inquinano.
Gigi De Palo, www.statigeneralidellanatalita.it
Una nuova tendenza
8-IL FENOMENO DEI CHILDFREE
C’è una parola composta: childfree, che sta diventando in tutto il mondo la bandiera di chi non vuole avere un figlio (child).
L’orientamento childfree è soprattutto di donne, perché per motivi naturali e per motivi culturali e sociali i condizionamenti derivanti dall’avere figli ricadono soprattutto su di loro. In inglese la parola free usata come desinenza indica che il termine che la precede ha un significato negativo come nel caso di gluten free, privo di glutine.
Se free è libertà da qualcosa di pericoloso, o limitante per la propria “autorealizzazione”, dichiarare qualcosa o qualcuno free da una di quelle cose è motivo di orgoglio e pubblica soddisfazione.
Ed è proprio questo l’atteggiamento di chi si proclama childfree. Ciò vuol dire che il figlio appartiene alla categoria delle negatività.
Giorgio Agagliati, La Voce e il Tempo, 1° ottobre 2023
Il fenomeno dei childfree non è nuovo, ma il fenomeno si fa sempre più significativo connotandosi come un appassimento di umanità. È evidente che le condizioni di vita per le famiglie si fanno sempre più complesse ma che al contempo la struttura della persona sta cambiando. E in questo senso in modo irrimediabilmente negativo.
Dagli studi sappiamo infatti che sono diverse le motivazioni concorrenti percepite dalle coppie.
La motivazione che, tuttavia, mi preoccupa di più riguarda il modo in cui molti dei “senza figli per scelta” denominano sé stessi: vale a dire persone “egocentrate”. L’assenza di un figlio, vissuta dalle passate generazioni come un vuoto è, dai childfree, percepita come uno spazio da vivere per una maggiore realizzazione individuale e in favore della propria vita.
Che fare allora? È anzitutto necessario ridurre gli ostacoli di ordine pratico e organizzativo che i giovani affrontano. Forse ancor più serve un impegno comunitario per dare ragione delle esperienze fondamentali della speranza, della reciprocità, del dono e della cura. Il racconto della bellezza della genitorialità merita di essere espresso in modo migliore rispetto a quanto abbiamo fatto fino ad oggi.
Adriano Bordignon, www.semprenews.it
9-HA ANCORA SENSO ESSERE PADRI?
I maschi sanno solo più generare o sono ancora capaci di essere padri?
I figli hanno bisogno di trovare un padre che li aspetta quando ritornano dai loro fallimenti. Faranno di tutto per non ammetterlo, per non darlo a vedere, ma ne hanno bisogno; e il non trovarlo apre in loro ferite difficili da rimarginare.
Papa Francesco
I figli hanno bisogno di testimoni che dicano loro non qual è il senso dell’esistenza, bensì che mostrino attraverso la loro vita che l’esistenza può avere un senso.
Massimo Recalcati
Il divorzio dei genitori, col relativo allontanamento del padre, determinerà – come accade- il divorzio dei figli.
Claudio Risè
La parola "mammo" è figlia dei tempi e parla di un cambiamento della società che non è compiuto, ma ancora in atto.
Laura Mazzarelli
Se tu ti comporti soltanto come un compagno alla pari del figlio, questo non farà bene al ragazzo.
Papa Francesco
a cura della Redazione
Mentre per la femmina la maternità è una caratteristica naturale, per il maschio non è così. Il maschio è per natura generativo ma non paterno.
La paternità è una conquista culturale ed è all’origine della civiltà.
Nel mondo dei primati la famiglia è costituita da un maschio dominante e da un gruppo di femmine con i loro piccoli. Questa struttura è frutto di furiose lotte tra i maschi e il soggetto dominante resta sempre a rischio di sconfitta.
Il salto di qualità tra gli ominidi avvenne quando i maschi decisero di accordarsi per spartirsi le femmine e a farsi carico dei figli. Chi adottò questo criterio fu avvantaggiato perché crebbe la possibilità per i figli di diventare adulti. Nasceva così il primo abbozzo di famiglia.
La nascita del padre
Questa scelta comportò, da parte dei padri, l’impegno di contenere la forza e la violenza che caratterizza l’istinto maschile.
Questo impegno è ancor oggi percepibile nei “gesti goffi che compiono verso i neonati, gesti che possono irritare o far sorridere le madri” scrive Luigi Zoja (1). L’aspetto interessante è questo “impalpabile imbarazzo non ha un corrispondente nel mondo femminile.
I maschi hanno dovuto imparare a diventare padri, ad assumere questa identità, esibita poi con una certa dose di sussiego e una scarsa dose di ironia”.
Diventare padri ha voluto dire darsi una disciplina, imponendo allo stesso tempo questa disciplina alla comunità. In questo modo nasceva la società patriarcale.
La “ferita” del padre
Il figlio, quando nasce e per alcuni anni dopo la nascita, vive in simbiosi con la madre ma, per diventare adulto, deve rompere questa simbiosi.
Per le femmine è più facile: hanno come modello la madre e, seppure in modo conflittuale, è da lei che prendono spunto per diventare adulte.
Per i maschi il processo è più complicato. È necessario l’intervento del padre per rompere la simbiosi, tagliare, “ferire” questo legame, e far diventare il ragazzo un maschio adulto.
“È il padre che ti fa morire perché tu possa risorgere, trasformarti”, scrive Claudio Risè (2). “Il padre è colui che passa al figlio il saper trasformare la ferita e la perdita da esperienza distruttiva in un passaggio indispensabile alla costruzione della personalità.
Se ciò non accade il soggetto resta incapace di vivere bene l’esperienza della perdita; per lui ogni perdita sarà un’insopportabile e ingiusta violenza e non un’esperienza che lo mette in grado di interloquire con il mondo e con Dio”.
I riti d’iniziazione
Nelle società primitive quella che abbiamo chiamato la “ferita” del padre si esprime attraverso i riti di iniziazione.
“Nel corso di essi il ragazzo muore simbolicamente per rinascere come uomo”, scrive Fernando Romito (3). “I ragazzi vengono isolati nella foresta e, dopo essere circoncisi devono trascorrere un periodo di reclusione, nel corso del quale vengono sottoposti a dure prove accompagnate da fondamentali insegnamenti.
Questi hanno lo scopo di modellare la personalità dell’iniziato, trasmettere l’eredità ancestrale e l’ideologia della comunità”.
Fino a qualche decennio fa un esempio di iniziazione dei maschi era costituito dal servizio militare: si veniva allontanati dalla famiglia, si viveva in comunità sotto il comando di adulti severi, si affrontavano prove.
“Nell’iniziazione si soffriva”, scrive Zoja (4), “ma si acquistava identità. Oggi, nessuna identità è più certa, mentre è certo che ci siamo abituati a evitare la sofferenza: per ideologia, prima ancora che per convenienza”.
Il declino del padre
Abbiamo prima visto come la nascita della figura paterna abbia a sua volta generato una società patriarcale.
“Intorno a questo nocciolo si è sviluppata la società umana sotto ogni aspetto più ricca e complessa, quella dell’Occidente patriarcale”, scrive Zoja (5).
Questa società – attraverso la cosiddetta globalizzazione – è diventata un modello universale. “Ma, mentre le sue forme culturali (l’economia di mercato, i mezzi di comunicazione) nel XX e XXI secolo hanno continuato a espandersi agli altri paesi, nello stesso periodo la sua forma privata (la famiglia patriarcale) ha invece incontrato un grave declino”.
“Il graduale disfacimento paterno ha due facce”, continua Zoja. “Una è simbolica, culturale, riguarda i valori e le immagini-guida. La società si laicizza. Nessun Padre assoluto abita più nei cieli. È scomparso il riferimento universale, il simbolo dei simboli. Anche i ‘Padri della patria’ sono dimenticati o letti come esempi negativi.
La seconda faccia è statistica. I padri scompaiono dalla famiglia. Il XX secolo è quello dei divorzi. Oggi, nei gruppi sociali e città che fanno tendenza, una metà dei bambini cresce senza padre.
È più facile per la madre assumere la psicologia del padre che non viceversa. Il padre, infatti, è tutto culturalmente costruito: un prodotto della società che può, seppure in tempi lenti, riprodurlo, modificarlo.
Se davvero la psicologia tornerà a parlare del padre, vedrà la sua strisciante regressione verso il maschio pre-paterno come una gigantesca psicopatia collettiva. Essa è un epocale ritiro di civiltà”.
Una società senza padri
A questo punto possiamo dire che “la nostra società occidentale è ormai una ‘società senza padri’ “, come scrive Claudio Risè (6).
“La prima tappa di questo processo è costituita dalla ‘secolarizzazione’; a partire dall’Illuminismo, dalla vita dell’uomo viene rimossa l’esperienza del sacro. Questa esperienza diventa un optional, che non deve comunque travalicare lo spazio strettamente privato.
La perdita di significato del padre continua con la rivoluzione industriale, in cui il padre, all’interno della famiglia, diventa un rifornitore di alimenti, e sempre di più rinuncia alla sua caratteristica di iniziatore ed educatore.
Il padre diventa il rappresentante del lavoro manuale, del lavoro fisico, maschile, diventa una figura forte solo fisicamente, ma debole dal punto di vista culturale, valoriale, delle ‘buone maniere’.
Dopo la Seconda guerra mondiale vi è un nuovo cambiamento: ai vecchi modelli produttivi, modellati sull’unità produttiva familiare, strutturata su una trasmissione di sapere da padre a figlio, si è completamente sostituita la grande corporation, un’unità produttiva impersonale in cui non c’è nessuna trasmissione di sapere, anzi i saperi vengono continuamente modificati”.
“La nascita di una ‘società senza padri’”, scrive papa Francesco (7), “in un primo momento è stata percepita come una liberazione: liberazione dal padre-padrone, dal padre come rappresentante della legge che si impone dall’esterno, dal padre come censore della felicità dei figli e ostacolo all’emancipazione e all’autonomia dei giovani.
Purtroppo, si è passati da un estremo all’altro. Il problema dei nostri giorni non sembra essere più tanto la presenza invadente dei padri, quanto piuttosto la loro assenza, la loro latitanza”.
Proviamo allora a vedere alcune forme di padre nella nostra società.
Il padre “usa e getta”
“Un grande produttore dell’assenza del padre oggi è l’istituto, e la cultura, del divorzio”, annota Claudio Risè (8). “Negli Usa il 75% dei divorzi è chiesto dalle mogli, le quali si vedono affidare in oltre il 90% dei casi i figli e la casa. Questo padre, di cui viene chiesta l’espulsione, viene chiamato in America, ‘padre disposable’ (in inglese disposable sono tutti gli oggetti ‘usa e getta’, come le siringhe).
I padri che perdono la casa hanno dei forti disorientamenti sia fisici, che logistici, che finanziari: perdono molto spesso il lavoro e sono loro stessi tra i principali partecipanti alla crescita degli homeless.
La cacciata del padre dalla famiglia, attraverso il divorzio, è l’elemento principale oggi in Occidente, insieme al rapimento dei padri da parte delle grandi corporations, che determina l’assenza del padre”.
Il padre cacciatore di reddito
“Con il XX secolo il compito principale del padre non è più quello di maestro di vita ma di cacciatore di reddito (breadwinner)”, scrive Luigi Zoja (9).
Nelle società primitive dedite alla caccia il compito del padre era quello di procurare alla famiglia la maggior quantità di cibo possibile. Se questo fosse avvenuto, avrebbe compiuto il proprio dovere.
Oggi tutto questo non c’è più e il bambino acquista una fredda razionalità per valutare il genitore: la misura del reddito familiare. Il figlio vuole un padre vincente e il padre vuole vincere la competizione universale, quella economica.
Il padre maestro di valori non perdeva quasi mai il rispetto dei figli: rispondeva solo a Dio, e solo Dio poteva ritirarglielo. Quello attuale risponde alla società e ai suoi criteri di misura, che anche gli adolescenti sanno applicare. Il padre di oggi può essere in ogni momento giudicato dai figli”.
Zoja, su questo tema, fa anche un’altra considerazione. “Il padre non è padre solo per quello che fa con il figlio, ma anche per quello che fa con la società: e le leggi che regolano questi due spazi di azione non sono le stesse.
In famiglia il padre deve osservare una legge morale; nella società, invece, deve rispettare per prima cosa la legge della forza, dove il ‘bene’ coincide con la maggior capacità di assicurare la sopravvivenza a sé e ai discendenti.
Nella civiltà patriarcale europea, penetrata dappertutto prima con la colonizzazione e poi con la globalizzazione, sta infatti anche un secondo paradosso, che altro non è se non la faccia collettiva del primo. Questa civiltà ha adottato come credo il cristianesimo e, contemporaneamente, si è diffusa ‘darwinianamente’, con la forza. Cioè, con la guerra, la rapina e la desertificazione della natura, lo sfruttamento e la sottomissione dei popoli più deboli o semplicemente più pacifici: con la trasgressione planetaria dei comandamenti ‘non uccidere’, ‘non rubare’, ‘non desiderare la roba d’altri’. Allo stesso modo ogni padre oscilla tra legge dell’amore e legge della forza, ed è ben lontano dal trovare una sintesi”.
Il vice-madre
Sul fronte dell’amore ben venga la figura del maschio come vice-madre.
“Nelle coppie attuali in cui entrambi i genitori lavorano questo ruolo è spesso indispensabile per i figli piccoli” scrive Zoja (10), “ma lascia scoperti la maggior parte dei compiti psicologici riferiti al padre dalla notte dei tempi.
Certo, sa finalmente aiutare la sua compagna. Ma, appunto, egli si presenta come nuovo compagno, non come nuovo padre”.
Secondo Maurizio Quilici (11), “L’uomo sta cercando di disegnare una nuova figura di padre, lontano dal padre autoritario di una volta. Lo fa con incertezze ed errori, a volte perdendo di vista certe funzioni di guida e controllo e ‘maternizzandosi’ eccessivamente, ma in compenso scoprendo una dimensione nuova ed affascinante nel rapporto con i figli. Quanto al futuro, difficile dirlo. Credo però che i padri non torneranno indietro e un giorno troveranno il loro equilibrio. E saranno padri migliori: teneri ma non sdolcinati, comprensivi ma non permissivi, autorevoli ma non autoritari”.
Il padre amico
“Oggi siamo troppo inconsapevoli di quale sia la funzione maschile” scrive Zoja (12).
“Infatti, in molte lingue, sia comparso negli ultimi decenni un fenomeno nuovo: il figlio che chiama il padre col nome proprio. Se non chiedo più a mio figlio di chiamarmi padre, il rapporto forse perde qualcosa di quell’unicità che lo rendeva sacro. Al padre sembra che ci sia più dialogo quando il figlio lo chiama come un compagno, perché la rete di rapporti tra compagni gli pare l’unica rimasta”. Ma non è così.
Lo spiega bene Paola Cosolo Marangon (13): “Nell’equilibrio genitoriale non è contemplata l’essere amici con i figli. C’è bisogno di distanziamento, di distacco psicologico e educativo altrimenti si rischia di mettere in seria difficoltà chi deve crescere. Questo appiattimento delle distanze è anche legato al Il mito dell’eternamente giovane. Il nuovo adulto non accetta il tempo che passa ed essere un genitore amico del figlio significa prolungare il più possibile la giovinezza”.
Non perdere la speranza
“I figli sono le uniche persone che amiamo più di noi stessi; non a caso, i figli non possono capire l’amore dei genitori, fino a quando non lo diventano a loro volta”, scrive Aldo Cazzullo (14). “Se penso alle volte in cui sono stato più felice nella mia vita, penso a quando ho visto i miei figli fare cose che io non so e non saprò mai fare. Conosco l’obiezione: questo è egoismo. L’egoismo non è il più nobile tra i sentimenti umani. Ma è il motore della vita e della storia. L’egoismo è riprovevole, ma è fecondo.
Se l’egoismo è fecondo, il narcisismo è sterile per definizione. I grandi narcisi che ho conosciuto erano persone - spesso affascinanti - che non volevano figli. Questo non significa ovviamente che chi non desidera figli sia narciso. E neppure che chi desidera figli sia migliore di chi non li vuole.
Fare figli può anche essere considerata una forma di egoismo. Ma chi ha la fortuna di diventare genitore, e comunica agli altri la propria gioia, la propria felicità, il proprio entusiasmo, non è un egoista; compie il più grande gesto di altruismo possibile”.
Anche Massimo Calvi (15) è sulla stessa linea: “Charles Péguy affermava che ‘il solo avventuriero del mondo moderno è il padre di famiglia’. Senza arrivare alle altezze del poeta, sarebbe sufficiente dire che è anche una strada molto bella, antica, poco pubblicizzata, ma che vale ancora la pena di essere affrontata. Non ci sono guide, e questo la rende molto poco cool, ma proprio per questo ancora più affascinante. Poi il resto, in genere, viene da sé”.
1 Fonte: Il gesto di Ettore. Preistoria, storia, attualità e scomparsa del padre, Bollati Boringhieri Editore, Torino 2016
2 Il Padre, l’assente inaccettabile
Fonte: federvitapiemonte.it
3 L’identità maschile e la metamorfosi della paternità. Fonte: www.prepos.it
4 Fonte: Il gesto di Ettore
5 Ibidem
6 Fonte: Il Padre, l’assente inaccettabile
7 Fonte: Udienza generale del 28 gennaio 2015
8 Fonte: Il Padre, l’assente inaccettabile
9 Fonte: Il gesto di Ettore
10 Ibidem
11 Fonte: pintacuda.it
12 Fonte: Il gesto di Ettore
13 Fonte: www.metododanielenovara.it
14 Fonte: Corsera, 21 giugno 2025
15 Fonte: Avvenire, 17 gennaio 2024
Nota della redazione: per rendere il discorso scorrevole, le citazioni sono state in parte modificate, cercando di non alterare il pensiero dell’autore.
Per il lavoro di coppia e di gruppo
• Che tipo di padre siete? Usa e getta? Cacciatore di reddito? Vice madre? Amicone?
• Come conciliate la legge morale (in famiglia) con la legge della forza (in società)?
• In pubblico parlate bene dei vostri figli, incoraggiate i più giovani a diventare padri?
• Vi sentite più attenti ai piccoli ora che siete nonni o quando eravate genitori? Perché?
10-PADRI
E FIGLI
Chiedete a Rafael Nadal di scegliere tra le sue 14 vittorie su 14 finali al Roland Garros, e il primogenito che si chiama come lui (il secondo è in arrivo); non avrà esitazioni. Gustavo Thoeni non mi parlava dell’oro olimpico o della leggendaria rimonta ai Mondiali di Sankt-Moritz; mi parlava della sua massima felicità, fare sci alpinismo con le sue tre figlie. Sandro Mazzola considera la sua più grande soddisfazione professionale non la Coppa dei Campioni vinta nel 1964 con l’Inter contro il Real Madrid, ma il fatto che Ferenc Puskás alla fine della partita gli abbia detto: «Ragazzo, io ho giocato contro tuo padre Valentino. Sei davvero degno di lui».
Aldo Cazzullo, Corsera, 21 giugno 2025
11-DIVENTARE
PAPÀ
Non avrei mai pensato un giorno di diventare papà; eppure, un giorno accade che me ne stavo lì, incredulo, con la giacca e perfino la cravatta, del resto era un giorno speciale, avevo un mazzo di fiori per lei, mia moglie, perché era diventata mamma, e un pallone per lui, il figlio appena nato, mio figlio, nostro figlio.
Dopo qualche ora, entrò nella stanza Padre Bruno, un anziano sacerdote che ci aveva sposati; come tutti gli anziani davanti a un neonato, quando ha visto il nostro bambino non ha saputo resistere alla tentazione: ha cominciato a sorridergli e a fargli dei versetti, poi ha guardato me e mia moglie, ha guardato nostro figlio, poi ha detto: “Bene, avete fatto un corpo, ora dovrete fare un’anima!”.
Giacomo Poretti, La Stampa, 16 settembre 2025
12-AUTORITÀ
E AUTOREVOLEZZA
La figura paterna aiuta a percepire i limiti della realtà e si caratterizza maggiormente per l’orientamento, per l’uscita verso il mondo più ampio e ricco di sfide, per l’invito allo sforzo e alla lotta.
Ma i padri sono talora così concentrati su sé stessi e sul proprio lavoro e alle volte sulle proprie realizzazioni individuali, da dimenticare anche la famiglia. E lasciano soli i piccoli e i giovani.
Inoltre, oggi l’autorità è vista con sospetto e gli adulti sono duramente messi in discussione. Loro stessi abbandonano le certezze e perciò non offrono ai figli orientamenti sicuri e ben fondati. Non è sano che si scambino i ruoli tra genitori e figli.
Dire presente non è lo stesso che dire controllore. Perché i padri troppo controllori annullano i figli. Alcuni padri si sentono inutili o non necessari, ma la verità è che i figli hanno bisogno di trovare un padre che li aspetta quando ritornano dai loro fallimenti. Faranno di tutto per non ammetterlo, per non darlo a vedere, ma ne hanno bisogno.
Papa Francesco, Amoris laetitia 175-177
13-HA ANCORA SENSO ESSERE FAMIGLIA?
Come famiglie corriamo il rischio di essere abbacinati da “troppe luci inutili” che non ci aiutano a “uscir a riveder le stelle”, a desiderare e poi a sperare
a cura della Redazione
Come dare senso alla realtà della famiglia in un contesto in cui, come coppia, si preferisce convivere o addirittura abitare in due case diverse, evitando accuratamente di avere figli?
Abbiamo trovato una risposta nel libro di Adriano Bordignon, presidente nazionale del Forum delle associazioni familiari, da cui abbiamo attinto i testi che seguono.
LA FAMIGLIA SOGGETTO SOCIALE
La famiglia ha vissuto una parabola significativa nel secolo scorso, qui da noi in Europa, ma in modo specifico nella nostra amata Italia: da "nucleo fondamentale della società”, da indispensabile sostegno alla politica e alla Chiesa, a sfilacciato esempio di liquidità sociale, mutabile e mutante, ad albergo solo temporaneo di sentimenti e doveri sociali.
La famiglia, innanzitutto, non può e non deve perdere il suo ruolo di soggetto sociale. Guai a rigettarla nel dimenticatoio del privato, senza implicazioni nella società, perché la società si sfilaccerebbe ancor più di quanto non accada ora: essa rinuncerebbe al ruolo di sussidiarietà e coesione svolto dai milioni di famiglie, non sarebbe più il cemento che tiene assieme i diversi mattoni che compongono l'edificio sociale. Basti pensare all'enorme peso sociale che grava sulle famiglie che assorbono i malesseri attuali, alla cura che viene elargita da milioni di uomini e donne per assistere malati, disabili, emarginati dalla vita.
La famiglia è ancorata al suolo: per questo risulta solida, radicata, capace, come la casa sulla roccia di evangelica memoria, di resistere al vento e alle tempeste dell'attualità.
Per questo contribuisce come nessun altro soggetto sociale alla trasmissione dell'unità del popolo, della cultura, delle tradizioni ancestrali che rischiano di scomparire spazzate via dalla novità a tutti i costi, dal kitsch della cultura digitale che rischia di fare a meno dell'arte del passato e della bellezza di una vita vivificata dal Vangelo.
Ma la famiglia ha bisogno pure di essere nutrita, di avere scuole adeguate, trasporti efficienti, asili a buon mercato e con personale amorevole, di avere un sistema sanitario che curi sul serio, di sicurezza nelle strade che frequenta, di non dover aspettare le calende greche per sostenere un concorso o di avere un esame specialistico, di non dover fare ore di code alla posta... La famiglia ha bisogno della politica: nutre la società, ma ha bisogno di essere nutrita da una politica al servizio della famiglia.
La famiglia, ancora, ha bisogno di essere aiutata ad alzare lo sguardo sulla società, a non rinchiudersi nel recinto del proprio giardino, o dietro la porta del proprio angusto appartamentino in un caseggiato popolare spesso fatiscente, di superare i limiti che tendono a proteggere legittimamente la propria intimità, ma sapendo che il miglior modo per custodirla è aprirla alle altre famiglie.
Si, la famiglia ha bisogno anche di essere aiutata, dalla Chiesa e dai suoi ministri, in primo luogo, per continuare a essere dispensatrice di dialogo, di amore, di cura.
La famiglia ha bisogno di speranza per diventare essa stessa una continua fabbrica di speranza.
La famiglia in un mondo di isole – per l'ISTAT il 36 per cento degli italiani vive da solo – può rappresentare per la Chiesa la riserva di affetto e del pensarsi insieme, ma la Chiesa deve essere quella che Gesù ha voluto: la familia Dei, dove le persone imparano ad amare e ad amarsi, tra loro e con sé stessi. Se la famiglia è aiutata, certamente la famiglia deve aiutare la Chiesa a vivere le relazioni di amore che Gesù le ha affidato e dalle quali sarà riconosciuta come discepola del Dio che "mette su famiglia" come gli uomini.
Card. Matteo Zuppi
Arcivescovo Metropolita di Bologna (1)
LA FORZA DELLE RELAZIONI
È diffusa l’idea che la famiglia sia in crisi, ma chi osserva i fenomeni sociali sa che questo allarme “lampeggia” da diversi decenni e anche che la famiglia, vivendo nel contesto storico, non può astrarsi dalle contraddizioni che coinvolgono questa nostra epoca.
Troppi alzano bandiera bianca di fronte alle enormi sfide dell’oggi e la famiglia è vittima di due grandi errori di valutazione, sia politicamente che pastoralmente.
Da un lato, non le si riconosce una “soggettività” sui generis, cioè l’essere qualcosa di diverso dal mero aggregato dei componenti che la costituiscono.
Dall’altro, il focus sulla famiglia è sempre in chiave problematica: rileva solo quando è il luogo delle povertà economiche, educative sociali, ma anche pastorali.
Le famiglie stanno perdendo soprattutto la capacità di resistere alle complessità della vita, perché rischiano di accettare la cultura del provvisorio e la capacità di essere “antifragili”, cioè non solo di resistere alle contrarietà, ma di impegnarsi, a fondo e in modo creativo, per rilanciare la loro storia nelle difficoltà. Inoltre, emerge una tendenza a perdere fiducia nello spazio pubblico e nella partecipazione alle reti relazionali, associative e politiche. Quasi una nostalgia che non spinge a mettersi in moto ma a rimpiangere un passato.
Ci siamo dimenticati così tanto della famiglia che la famiglia rischia di dimenticare sé stessa.
La famiglia, invece, è il perno strategico dell’educazione, della solidarietà e anche del civismo e dello sviluppo economico. Se indossiamo gli occhiali giusti, sappiamo avvicinare questa potenziale fonte di bene affinché non si insterilisca o ripieghi su sé stessa.
I punti di forza delle famiglie sono innumerevoli. Anzitutto il loro “sguardo lungo”. Oggi, in un’epoca in cui spesso si guarda solo all’immediato, il grande limite della politica e anche dell’amministrazione delle grandi industrie, le famiglie vivono naturalmente dentro un dinamismo che tiene insieme passato, presente e futuro.
Lasciare che le famiglie perdano questa caratteristica sarebbe drammatico.
Un secondo punto di forza delle famiglie è quello di credere fermamente nella potenza delle relazioni fatte di dono e reciprocità.
È proprio in famiglia che si impara il valore della persona, il rispetto della diversità, il significato profondo del vivere insieme. Papa Francesco diceva che le famiglie possono essere “laboratori di umanizzazione”, veri e propri “spazi di libertà, centri di umanità” e “scuole del domani”.
Adriano Bordignon (2)
1 Dalla prefazione al libro di Adriano Bordignon: Rivoluzione famiglia. Un ecosistema per il futuro, Edizioni Francescane Italiane, Perugia 2025.
2 Intervista pubblicata su La vita del popolo, Treviso, in occasione dell’uscita del libro dell’autore.
Sintesi della redazione.
Per il lavoro di coppia e di gruppo
• Dal vostro punto di osservazione quanto la politica e l’industria sono attente alla famiglia?
• L’associazionismo familiare, il sindacato possono servire a migliorare le cose?
• Che spazio ha la famiglia nella realtà parrocchiale?
14-RIVOLUZIONE
FAMIGLIA. UN ECOSISTEMA PER IL FUTURO
La famiglia è organismo vivo interconnesso ed essenziale alla vita del Paese. Allora dobbiamo porre grande attenzione all’ecosistema in cui vive. Ecco allora la metafora.
Il suolo rappresenta le radici: fiducia, reciprocità, dono, protezione. Senza un terreno fertile, nessuna pianta può crescere. Così, senza relazioni basate sulla cura, nessuna famiglia può durare nel tempo.
L’acqua simboleggia la vita quotidiana delle relazioni familiari: un elemento essenziale che disseta, che rinnova e unisce. Il clima indica il contesto più ampio – sociale, culturale, economico, spirituale – in cui la famiglia è immersa. Se questo clima e ostile o instabile, anche le famiglie più forti fanno fatica.
I nutrienti sono le politiche pubbliche, i servizi, l’istruzione, la riforma fiscale, gli strumenti concreti per sostenere le famiglie. L’aria è la speranza, materia invisibile, ma vitale: senza l’aria-speranza le famiglie si chiudono, si spengono. Infine, la luce è la dimensione spirituale, la ricerca di senso, la capacità di guardarsi negli occhi e di riconoscere nell’altro un dono, anche quando le situazioni sono complicate.
Una famiglia è generativa quando questi elementi sono in equilibrio tra loro, e quando trova nel territorio circostante un ecosistema che ne rispetta i ritmi e ne sostiene la crescita.
Adriano Bordignon
15-HA ANCORA SENSO L’AMORE DI COPPIA?
La vita di coppia e la vita in famiglia sono buone solo se mi fanno star bene emotivamente?
Di Paolo Benanti*
La società post-moderna esalta in maniera ossessiva il vivere il presente proponendo stili di vita individuali che ignorano tanto i predecessori quanto i posteri.
Si assiste alla delegittimazione delle istituzioni tradizionali quali il matrimonio e la famiglia e l’affermarsi di nuovi modi di vita frutto dell’estrema diffusione dell’individualismo, in cui l’individuo si dissolve nelle reti del villaggio globale, ma soprattutto si trasforma in un essere costantemente plasmato e riplasmato in un tempo neutro, in un eterno presente.
Nell’individualismo contemporaneo si congiungono il senso di possibilità senza limiti e lo svilimento dell’ordine sociale, che è sempre più svincolato da un adeguato codice di condotta morale. Tutto ciò spinge l'uomo verso una deriva minimalista.
Il sistema culturale ed economico contemporaneo si presenta come un supermarket, in cui il piacere, inteso come soddisfazione di un desiderio, non include particolare impegno o attività; spinti dalla cupidigia coltiviamo il soddisfacimento indiscriminato di bisogni non essenziali, consumistici.
Il passaggio da una cultura che esaltava l'operosità e l'autodisciplina all’attuale cultura segna una nuova comprensione del corpo: non più macchina da lavoro segnata da fatica e sacrificio ma sex-machine da ascoltare e sedurre. La televisione, insieme agli altri mezzi di comunicazione di massa, è il mezzo attraverso il quale si determinano maggiormente l'esaltazione della corporeità e la spinta verso il sesso e la spoliazione del sentimento del pudore.
Ogni periodo storico ha elaborato il suo tipo d'uomo ideale; nella nostra epoca di estremo individualismo, l’emozione si presenta come l'oggetto di un vero e proprio culto, e caratterizza anche il posto dato al corpo: il culto dell'emozione e il culto del corpo sono i due volti di una stessa rivoluzione della mentalità.
La famiglia in discussione
In questo processo cosa accade alla famiglia? Non possiamo qui addentrarci in complesse analisi sociologiche, però ci interessa far vedere come la struttura sociale della famiglia a seguito della rivoluzione industriale sia diventata meno "necessaria" per la sopravvivenza fisica delle persone e abbia visto quindi la necessità di ridefinire il suo contenuto nell'immaginario collettivo.
Grazie ai cambi introdotti dall'industrializzazione della società, dall'urbanizzazione della vita e dalla ricostruzione post-bellica, è stato possibile realizzare traiettorie esistenziali impensabili nei secoli passati.
Prima dei grandi cambiamenti contemporanei, le persone vivevano esistenze che gravitavano attorno a tre grandi centri: la famiglia nucleare, la famiglia ristretta, la comunità locale ristretta, cioè un gruppo ristretto di persone - il villaggio o il borgo - in cui ci si conosce bene reciprocamente e in cui la sopravvivenza del gruppo dipende dalla collaborazione reciproca dei suoi membri.
Questi tre ambiti, specialmente quelli familiari, riassumevano una serie di funzioni che oggi vengono assolte da altre strutture. La famiglia costituiva al contempo: lo stato assistenziale, il sistema sanitario, il sistema scolastico, l'industria edilizia, il sindacato, il fondo pensioni, la società di assicurazioni, la radio, la televisione, i giornali, la banca e anche la polizia.
La vita era vita familiare, si aveva l'immediata consapevolezza che non vi era modo di sopravvivere se non supportati dal gruppo familiare: la vita da single non era né immaginabile né praticabile.
Tutto questo è cambiato radicalmente: la rivoluzione tecnologica ha trasformato il modo con cui oggi soddisfacciamo i bisogni della persona-individuo.
Lo Stato contemporaneo e il mercato sono i principali attori di fornire “servizi” alla persona e la persona si scopre individuo. Aver introdotto la possibilità di esistenze individuali ha di fatto indebolito nella percezione dei nostri contemporanei la necessità che tradizionalmente si attribuiva ai legami della famiglia e della comunità.
Lo Stato e il mercato oggi si caratterizzano nella percezione inconscia di molti dei nostri contemporanei come figure parentali: sono una sorta di "mamma" e di "papa" dell'uomo individuo che sopravvive e decide del suo futuro grazie a loro.
La generazione del modello sociale dell'individuo - e conseguentemente del single - ha comportato la perdita di necessità e, quindi, di centralità di quel modello sociale cui eravamo culturalmente assuefatti prima del cambio d'epoca, la famiglia.
Parlare di perdita di necessità e di centralità culturale non significa né inutilità né estinzione.
La famiglia nucleare non scompare, cambia solo funzione ed è rivestita di diverse aspettative da parte degli attori di questa nuova epoca.
La famiglia oggi è, più o meno consapevolmente caricata dai nostri contemporanei di aspettative di soddisfacimento di bisogni intimi cui lo Stato e il mercato non sono in grado di provvedere.
Famiglia e aspettative dell'individuo
Queste nuove aspettative di cui si fa carico la struttura famiglia però non sono immuni da altre influenze sociali. La famiglia è sottoposta a condizionamenti crescenti: il mercato sociale, con le sue pubblicità e altri strumenti di advertising, modella in misura sempre maggiore il modo in cui le persone conducono la propria vita sentimentale e sessuale. È il mercato che propone modelli bellezza e soddisfazione emotiva o realizzazione di felicità che la famiglia deve rispecchiare. Si pensi ai modelli estetici o di famiglia felice che le pubblicità propongono per la vendita dei loro prodotti.
Di conseguenza, la vita di coppia e la vita in famiglia sono buone se mi fanno star bene emotivamente. Il partner ideale è quello che soddisfa i miei bisogni emotivi.
Ma il mercato e lo Stato non riescono a surrogare il modo con cui le persone si sentono parte di un gruppo, il modo con cui si identificano in una cultura mediante dei legami affettivi e simbolici. Là dove non è più la famiglia a svolgere questo compito devono nascere altre forme di relazione sociale in grado di fornire legami tribali; un esempio sono le comunità simboliche virtuali.
La nostra epoca ha cambiato la caratteristica più fondamentale dell'ordine sociale: il suo essere "ordine", cioè un qualcosa di tendenzialmente rigido e gerarchico. La caratteristica chiave della nostra contemporaneità è l'incessante cambiamento, il luogo sociale di questa continua identificazione e definizione della propria individualità sociale è l'universo digitale.
Nel digitale la persona/individuo trova e produce la sua identità e i simboli che lo muovono. I simboli digitali della nostra identità, gli artefatti digitali, sono l'equivalente dei tatuaggi tribali del passato.
Il digitale si rivela forse come l'ultimo luogo del “per sempre”, luogo dove salviamo quello che resta delle nostre identità sempre più mutevoli e plurali.
Anche gli affetti subiscono lo stesso destino. È possibile riconoscere un nuovo e inedito ordine affettivo che guida la composizione dei nuovi nuclei familiari.
Internet ha trasformato il modo in cui le persone lavorano e comunicano, ma il suo effetto più profondo potrebbe essere la decisione più importante presa dalla maggior parte della gente: scegliere un compagno di vita.
Internet, infatti, ha trasformato la ricerca del partner e il modo in cui si trova l'amore.
Il mercato dei sentimenti
All'inizio degli anni Novanta l'idea di incontrare un partner online sembrava strana e un po' patetica. Oggi, per molti, è normale.
Una persona su dieci in USA ha utilizzato un'app mobile o un sito di incontri e il 23% ha incontrato qui un partner a lungo termine o un coniuge.
Nel 2009 il 47% delle persone era convinta del fatto che gli appuntamenti online permettessero di trovare una corrispondenza affettiva migliore; nel 2013 quel numero era salito al 53%.
Internet è il secondo modo più diffuso per gli americani di incontrare persone del sesso opposto e si sta rapidamente avvicinando, come numeri, al tradizionale "ti presento un amico di un amico" cui eravamo abituati nel mondo analogico.
Sembra evidente, allora, che quello che hanno già fatto i servizi di incontro tra sconosciuti per via telematica (dating) è stato cambiare la grammatica dell'amore e dare spazio a una sessualità virtuale e sempre più smaterializzata.
Incontrare un compagno su Internet è fondamentalmente diverso dall'incontrarne uno offline.
Nel mondo fisico, i partner si trovano nelle reti familiari o tra circoli di amici e colleghi. Le persone che si incontrano online molto probabilmente sono degli estranei. Di conseguenza, il dating digitale offre una scelta molto più ampia. Un bar, un coro o un ufficio potrebbero avere alcune decine di potenziali partner per una persona. Online ci sono decine di migliaia di candidati.
Questa scelta più ampia, oltre al fatto che le connessioni digitali sono fatte solo con il consenso reciproco, rende il mercato del dating digitale online molto più efficiente di quello offline.
Grazie al dating la ricerca del partner può mirare a identificare l'anima gemella, cioè quella figura idealizzata dall'amore romantico, che vuole intendere due persone fra cui esiste una affinità spirituale e sentimentale talmente profonda da poter essere interpretata come segno che tali persone sono predestinate ad amarsi.
Questa infinita pluralità di scelta non semplifica il nostro scegliere, perché l'idea di poter trovare una perfezione, ritenuta esistente e possibile, ci può rallentare nello scegliere e poi ci può far sentire molto più scontenti di fronte all'inevitabile delusione che l'altro significa nel momento in cui lo scopriamo come limitato e imperfetto come ogni persona umana.
Tanto sono grandi l'attesa e l'idealizzazione del partner tanto più si mostra una fragilità nel legame connessa alla gestione della disillusione che la realtà presenta alla nostra immaginazione.
La ricerca dell'amore si sposta quindi da un modo con cui si trovava una persona adatta a costruire un progetto di vita a una sorta di ricerca per "l'acquisto" del miglior partner disponibile.
Gli affetti, la comprensione della sessualità e della famiglia introdotti da questo cambio d'epoca lanciano alcune sfide particolarmente urgenti. In primo luogo, siamo chiamati a rendere ragione del fatto che la sessualità, luogo dove si vivono forti e intense esperienze, non è un mero accidens nella vita delle persone, ma un linguaggio per dire l'amore. In secondo luogo, sembra che la tecnologia divenga un modo per gestire gli affetti e la paura di soffrire.
L'esperienza cristiana dell'amore, l'Amore che si dona, ci mostra proprio il contrario: la tomba vuota del mattino di Pasqua ci dice che possiamo amare senza paura di perdere.
La sfida è poter testimoniare l’esperienza cristiana dell’amore ai nostri contemporanei.
Infine, la famiglia non è meramente una struttura necessaria e necessitata da dei bisogni da soddisfare. La famiglia è vocazione e fecondità dell'amore di coppia che si fa storia nella vita delle persone. La sfida che ci attende è rendere testimonianza credibile di tutto questo.
* francescano del Terzo Ordine Regolare. Membro del Comitato sull'intelligenza artificiale delle Nazioni Unite.
Fonte: Digital age. Teoria del cambio d’epoca. Persona, famiglia e società, San Paolo, Milano 2020.
Sintesi della Redazione.
Per il lavoro di coppia e di gruppo
• Tra la famiglia patriarcale e la famiglia “digitale” quale preferite?
• L’emotività, il “sentimento”, quanto conta nella vita di coppia?
• Esiste, secondo voi, l’anima “gemella”? È possibile trovarla?
• Trovare l’amore su Internet. Cosa ne pensate?
• Dove e come avete incontrato il vostro compagno di vita?
16-HA ANCORA SENSO ESSERE BAMBINI?
Guardatevi dal disprezzare uno solo di questi piccoli, perché vi dico che i loro angeli nel cielo vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli (Mt 18,10)
a cura della Redazione
La domanda del titolo è ovviamente rivolta agli adulti. Anche se viviamo in una società che ha messo i figli al primo posto, non è vero che tutti i bambini sono uguali perché possono essere considerati in tanti modi: cocco di mamma, ometto, genio, ma anche rompiscatole, scemo, scimmia, ladro, arrivando fino a terrorista!
Un po’ di storia
“Per migliaia di anni i bambini sono stati tra gli strati più oppressi della società umana; il periodo dell’infanzia è stato considerato poco importante e il passaggio alla realtà adulta doveva avvenire il più rapidamente possibile”, scrive Milka Terziyska (1).
E continua: “Nella scienza è ben noto che la lunghezza dell’infanzia nella società primitiva non è uguale alla lunghezza dell’infanzia nell’era medioevale oppure nei nostri giorni. Infatti, Le fasi dell’infanzia sono un prodotto dello sviluppo storico e, come migliaia di anni fa, anche oggi subiscono variazioni. La lunghezza dell’infanzia dipende direttamente dal livello di cultura materiale e spirituale della società.
Nelle antiche società la lunghezza dell’infanzia era limitata al periodo in cui il piccolo bambino non poteva ancora camminare senza assistenza. Molto presto, appena rafforzato fisicamente, il bambino era mescolato con gli adulti, condividendo con loro il lavoro ed i giochi.
Il cambiamento negli atteggiamenti degli adulti verso l’infanzia ed il bambino cominciano alla fine del XVII secolo e sono associati con lo sviluppo della scuola che ha sostituito l’apprendimento dall’esperienza nella vita.
Ciò significa che il bambino non viene più mescolato con gli adulti e non vive in stretto contatto con loro. Lo sviluppo dell’istruzione scolastica e l’emergere dell’amore dei genitori verso i figli sono le due facce dello stesso processo a seguito del quale il bambino diviene figura centrale nella famiglia.
Oggi non c’è nessun dubbio che il periodo dell’infanzia ha un’importanza eccezionale nella vita umana poiché durante questo periodo si costituisce il fondamento della personalità e la persona assimila le conoscenze e le competenze necessarie per diventare un membro a pieno titolo della società”.
I nostri bambini
Oggi, l’attenzione nei confronti dei propri (pochi) figli è così grande che “i genitori sono ansiosi di fornire ai figli le migliori opportunità ma così facendo risparmiano ai figli i tipici errori che li aiuterebbero a formarsi come persone” scrivono gli psicologi Darlene Sweetland e Ron Stolberg (2).
Agendo così, i bambini di oggi non imparano dai propri errori. Per questo i due autori ci propongano un elenco di trappole in cui come genitori corriamo il rischio di cadere.
La trappola del soccorso
“I genitori detestano vedere i figli di soffrire. Quindi spesso si sentono obbligati a ‘metterli in salvo’ proteggendoli dalle esperienze negative e risolvendo i problemi al loro posto. La conseguenza di questo comportamento e che i figli imparano che ci sarà sempre qualcuno che farà le cose per loro. Ciò preclude ai figli l'opportunità di risolvere i problemi da soli”.
Se tuo figlio a scuola fa una pessima verifica è inutile telefonare all’insegnante per chiedere come il ragazzo può rimediare; la risposta è chiara: studiare di più la prossima volta.
Così stai considerando il voto più importante delle conoscenze che servono per meritarsi quel voto mentre dovresti insegnare a tuo figlio l’importanza dello studio.
Se tuo figlio ha litigato con un amico non è il caso di chiamare i genitori dell’altro bambino per scusarsi e costringere i figli a tornare in buoni rapporti. Tuo figlio deve imparare a gestire le sfide della socialità per conto proprio.
La trappola della fretta
“I genitori vogliono fare tutto ciò che è in loro potere per i figli e questo significa sentirsi obbligati a rispondere subito ad ogni loro esigenza. Nel farlo attivano proprio lo schema della gratificazione istantanea”.
Se tuo figlio ti chiede qualcosa non puoi concedergliela all’instante per renderlo “felice”. Altrimenti tuo figlio si aspetterà che le cose vadano sempre così. E quando ciò non sarà possibile si arrabbierà e ti accuserà.
Bisogna insegnare ai figli ad avere pazienza, ad aspettare, a rispettare le esigenze dei genitori.
“Per complicare ulteriormente le cose, a causa delle nuove tecnologie i ragazzi hanno sviluppato una scarsissima tolleranza alle frustrazioni. La comodità degli smartphone ha rafforzato ancora di più la gratificazione istantanea dei ragazzi”.
Così, se c'è un problema a scuola tuo figlio ti chiamerà all'istante per chiederti una comunicazione o assistenza.
La trappola della pressione
“I genitori sono orgogliosi di raccontare i grandi risultati dei figli. Sono anche preoccupati per il loro futuro e si sentono più tranquilli se riescono a piazzarli per primi nella competizione. Questo fa sì che i genitori ripongano in loro aspettative troppo elevate.
Per esempio, se i figli non eccellono a scuola, partono con le ripetizioni per farli migliorare; se giovani atleti ricevono lezioni individuali per diventare i migliori del gruppo.
L’intenzione dei genitori è solo quello di aiutare i figli a essere migliori. Ma mentre loro intendono offrire il meglio ai figli, il messaggio viene interpretato come: ‘non sei abbastanza bravo e devi fare di più’.
I genitori spesso si comportano in base alla loro percezione di che cos'è ‘l'ideale’ senza considerare la relazione di esistente tra questo e il figlio che hanno”. La perfezione non esiste.
La trappola del dare
“I genitori non vogliono che i figli si sentano esclusi: il risultato è che cadono nella trappola del dare loro oggetti che non si sono guadagnati.
I bambini dicono sempre più spesso ai genitori che devono avere determinati oggetti alla moda, altrimenti verrebbero presi in giro e si sentirebbero esclusi. I genitori pensano che, acquistando quegli oggetti, i figli verranno accettati.
Invece, è necessario insegnare ai figli a guadagnarsi le cose. Per esempio, la paghetta non dovrebbe essere data in modo automatico. I ragazzi devono guadagnarsela e le famiglie dovrebbero prevedere dei criteri precisi per erogarla”.
La trappola della colpa
“I genitori non vogliono essere causa dell'infelicità dei figli. Quando i genitori pensano di essere il motivo per cui il figlio è alterato, cominciano a sentirsi in colpa e cadono nella trappola del dare, senza che il figlio faccia la sua parte.
Spesso i figli tentano di convincere i genitori a fare le cose al posto loro. Sono molto bravi a girare le carte in tavola facendo sì che il genitore divenga responsabile di fornire la soluzione”.
Se hai abituato tuo figlio a fornirgli delle soluzioni, quando gli imporrai i limiti ti potrai trovare davanti reazioni molto forti tipo ‘Ti odio’, ‘Tu non capisci’ o ‘Mi hai rovinato la vita’. Di fronte a questa negatività sarà facile provare sensi di colpa.
“Nelle famiglie in cui entrambi i genitori lavorano è più probabile che si forniscano ai figli le risposte e ai loro problemi invece di aiutarli a imparare a risolvere i problemi per conto loro”.
Gli “altri” bambini
“Lo status particolare di bambini e adolescenti, sancito dalla Convenzione Onu, dice sostanzialmente che nel mondo ci sono persone in una fase specifica della loro vita, che stanno formandosi nel loro corpo, vivono fasi cruciali del neurosviluppo, stanno costruendo tutte le loro capacità, e per sostenere questa evoluzione hanno bisogni specifici, diversi da quelli degli adulti”, scrive Chiara Sità (3). “Bambine, bambini e adolescenti sono persone verso cui noi adulti abbiamo delle responsabilità (di cura, mantenimento, educazione). È grazie a questo status particolare che abbiamo dei sistemi di tutela dell’infanzia e il diritto/dovere di andare a scuola. È anche grazie a questo che abbiamo potuto lottare contro lo sfruttamento e il lavoro minorile, e avere un sistema penale adeguato all’età e ai bisogni della popolazione minorenne.
Mentre i ‘nostri’ sono sempre bambini, e infatti slogan come ‘giù le mani dai bambini’ e ‘mio figlio no’” sono ricorrenti, ciò non vale sempre per tutti gli altri.
Essere di colore, di etnia Rom, non parlare bene l’italiano, essere handicappato fisico o mentale o essere semplicemente iperattivo comporta discriminazione, e allora, prima di essere bambino, si può essere rompiscatole, scemo, scimmia, ladro, o addirittura terrorista! (vedi riquadro a lato).
Invece, “i diritti dei bambini sono inviolabili e inalienabili: non si tratta soltanto di non attentare alla vita dei bambini, ma di impegnarsi a portare il proprio contributo perché i loro diritti abbiano una concreta attuazione” troviamo scritto sul Catechismo dei bambini (4). “Si tratta di diritti universali: vanno riconosciuti a tutti i bambini, senza eccezione alcuna, e senza distinzione o discriminazione fondata sulla razza, il colore, il sesso, la lingua, la religione, le opinioni politiche e di altro genere, l’origine nazionale o sociale, le condizioni economiche, la nascita, l’integrità fisica e ogni altra situazione che si riferisca al bambino o alla sua famiglia.
La Chiesa, in nome di Dio, con autorevolezza si fa voce dei diritti dei non garantiti, quali sono ancor oggi molti bambini.
Davanti al dilagare della violenza e dei pericoli che calpestano la vita e la dignità dell’infanzia, con ancor più forza essa si fa interprete delle loro esigenze di fronte a tutte le nazioni”.
Questo è un impegno che spetta a tutti i credenti.
1 Fonte: Quaderni di Intercultura Anno IX/2017
2 Fonte: Insegnare a pensare, Feltrinelli Editore, Milano 2016.
3 professore di pedagogia, Università di Verona. Fonte: www.vita.it
4 Fonte: CEI, Catechismo dei bambini, n.37-39
Sintesi della Redazione
Per il lavoro di coppia e di gruppo
• Da pochi decenni i bambini sono passati dallo stato di “non considerati” a quello di “idoleggiati”. Come adulti, cadiamo anche noi in una delle trappole ben descritte nell’articolo?
• Che differenza c’è tra i nostri bambini e i bambini “altri”? Cosa possiamo fare per aiutarli?
• La nostra comunità è una comunità accogliente o escludente?
17-DEFINISCI
BAMBINO
Nel corso di una recente trasmissione televisiva (È sempre Cartabianca, Rete 4, 16 settembre 2025) alla domanda se anche le decine di migliaia di bambini e le bambine uccisi a Gaza fossero da considerarsi terroristi la risposta del rappresentante israeliano è stata “definisci bambino”.
“Questa frase”, scrive Chiara Sità, “ci dice che ad alcuni lo status di bambini non è riconosciuto. Non sono proprio bambini. Oppure lo sono, ma magari fino a una certa età (quale? 12? 15? Non sappiamo). Alcuni bambini e adolescenti, quindi, possono essere visti e trattati alla stregua di adulti, di terroristi, di complici di Hamas.
Questa operazione non viene fatta solo con i palestinesi; succede anche con i minori stranieri non accompagnati, che hanno affrontato il viaggio della migrazione da soli; succede con le ragazzine vittime di violenza sessuale da parte di uomini adulti ma che poi sui giornali non sono più vittime e vengono chiamate “baby squillo”; succede con i minorenni che commettono reati, verso i quali si invoca una giustizia vendicativa più che formativa.
Come diventeranno questi bambini se li consideriamo in questo modo?
Che cosa diventano le bambine e i bambini se togliamo loro i diritti, la speranza, il futuro? Questa è la domanda da fare, non ‘definisci bambino’”.
Fonte: www.vita.it
18-HA ANCORA SENSO IL CATECHISMO?
Puntando molto sui bambini e i ragazzi non stiamo forse producendo un’infantilizzazione della vita cristiana?
Di Giuliano Zanchi
La cultura cristiana nel suo insieme deve continuamente tornare a lasciarsi evangelizzare dalla rivelazione che custodisce.
Cattolicesimo dell'infanzia
Provo a esemplificare. La maggior parte delle energie profuse, delle parole spese, degli appuntamenti previsti, delle iniziative programmate, delle risorse umane coinvolte (quindi anche delle aspettative messe sul campo) vengono attivate come costoso carburante che fa viaggiare la grande macchina della iniziazione cristiana dei più piccoli. Andando a occhio, una buona metà di tutto il lavoro pastorale viene speso nella formazione dei ragazzi.
Si tratta di una eredità importante, che ci consegna quasi intatta la scommessa del modello pastorale tridentino, perfettamente funzionale a una società di quel tempo, profondamente cattolica nella cultura.
Si poteva quindi concentrare negli anni dell'infanzia la concessione dei sacramenti e l'introduzione alla dottrina, cioè il tutto e subito della vita cristiana, contando sul fatto che il resto della vita sarebbe servito ad acquisire la matura coscienza dei doni ricevuti, ma anche che, pure nell'eventuale assenza di quella, la pratica cristiana obbligata dai costumi sociali avrebbe conservato chiunque nel perimetro della grazia.
Quel modello, nelle sue strutture di base, è arrivato fino a noi, portando ingenuamente con sé anche tutta la posta in gioco della sua scommessa. Solo che intanto il paesaggio circostante è profondamente cambiato.
La prima conseguenza che questi nostri ultimi decenni hanno visto intensificarsi esponenzialmente è l'abbandono precoce della pratica cristiana.
Maturità cristiana
Per molti battezzati, che pure 'congedati' da una regolare pratica cristiana restano spesso nel perimetro dei frequentatori saltuari, dei simpatizzanti anonimi, la formazione ricevuta da bambini resta l'unica in vigore per il resto della vita, sempre salvo le solite eccezioni che non fanno statistica.
Di fatto, chiediamo la pienezza della vita cristiana ai più piccoli, ancora avvolti nella magia dell'infanzia.
I bambini nelle nostre comunità sono i soli che fanno tutto. In ogni caso sono quelli che fanno di più. Leggono la Bibbia, studiano il catechismo, vanno a Messa, si confessano, dicono le preghiere. La loro presenza, talvolta davvero massiccia e prevalente, incoraggia a tagliare sulla loro misura, sui loro gusti, sulle loro necessità, l'abito delle pratiche pastorali destinate a tutta la comunità. Mi chiedo se non sia già stata abbondantemente superata la soglia che conduce all'infantilizzazione della vita cristiana. Se questa pressione educativa abbia generato un cattolicesimo fondato sull'infanzia, in cui la vita cristiana, che nella sua tremenda pienezza è una cosa da grandi, svanisca sempre più nella sua edulcorata versione per bambini.
La maggioranza dei praticanti, in effetti, conserva una coscienza della fede che supera di pochissimo l'elementare bagaglio nozionistico della formazione catechistica.
La catechetica di questi anni, anche quella più illuminata, si è fin troppo attardata sulla questione del 'metodo', senza vedere che è solo incidentalmente una questione di metodi. Nella sua sostanza è piuttosto una questione di contenuti.
Il problema nel quale si dibatte il catechista medio sta nel come dire quello che non sa.
Quello che non sa, che non possiede, è una comprensione adulta del fatto religioso, una visione matura dei contenuti connessi alla promessa evangelica, una elaborazione della vita di fede degna di un minimo atteggiamento critico.
Al catechista manca la capacità di mostrare un cristianesimo credibile. Può solo ripetere a propria volta le formule di un contenuto formativo che ha abbondantemente riassorbito le iniziali revisioni ermeneutiche del movimento catechistico (1), ritenute troppo impegnative se non devianti, per tornare a più rassicuranti toni assertivi.
Fede infantile
Su queste precarie fondamenta, salvo rare eccezioni, non può che edificarsi un cristianesimo magico, ingenuo, soprannaturalistico, che non regge alle prime obiezioni di una cultura minimamente critica o alle normali pressioni della vita reale, se non rifugiandosi in una trincea di devotismo interiore, staccato dai problemi della storia e dalle questioni della vita. Oppure planando nel limbo di un agnosticismo routinario, in cui la questione religiosa rimane in sospensione perpetua, intriso però di nostalgia per quell'infanzia in cui si andava all'oratorio e si faceva i chierichetti.
Le nostre comunità mancano quindi della figura di un cristianesimo adulto e maturo, la cui compiuta coscienza sia anche il frutto di una visione teologica minimamente credibile, capace di affrontare il compito della sfida ermeneutica, fuori dal guscio della convenzione devota o del racconto dogmatico, da tutto il loro ambiguo tepore e la loro soffocante prudenza. Manca il credente adulto in grado di non sprofondare nell'ansia e nel risentimento di fronte alla fatica di rielaborare l'immaginario religioso ricevuto per fare l'ingresso nel più credibile orizzonte evangelico che il nostro sguardo ha oggi ripreso a percepire in tutta la sua nitidezza. La comunità, se non è il luogo di questa maturità, non inizia nessuno a niente.
Il sacro e la religione
Il Vangelo è una cosa per grandi. Naturalmente non devi necessariamente aspettare di essere grande per entrare nelle sue promesse. Qualcuno ti può prendere per mano per indicartene gli ingressi. Ma chi ti conduce deve sapere dove ti porta.
La figura di un cristianesimo adulto mi sembra decisiva perché il Vangelo sia ritenuto degno di considerazione.
Su come questo possa succedere, a dire la verità, non ho grandi indicazioni da offrire. Continuo però a nutrire la convinzione che un passaggio decisivo in merito consista nel curare con tutta l'applicazione possibile il lavoro di discernimento che nella nostra epoca deve riguardare il rapporto fra la dimensione religiosa del sacro e l'umanesimo teologico del Vangelo.
Mi sembra un fatto piuttosto inequivocabile che alla maniera mediante la quale Gesù dà forma alla sua testimonianza evangelica concorra in modo determinante il confronto assai aspro con la tradizione religiosa del giudaismo del suo tempo.
Gesù indica la verità dell'alleanza per differenza rispetto a quella stessa convenzione religiosa che ne veicola i termini. La verità dell'alleanza non era estranea alla tradizione religiosa. La sua limpidezza era semplicemente soffocata dalle contraddittorie interdizioni accumulate da quella gestione umana del sacro di cui la religione organizza il potere. Infatti, gli uomini finiscono sempre per immaginare Dio come sarebbero loro se potessero essere divini. Narcisisti, autosufficienti, rancorosi, vendicativi, inflessibili.
Il Vangelo di Gesù invece, come sappiamo, dà i suoi colpi di scalpello proprio su questo punto. La buona notizia è che per fortuna Dio non è come pensiamo noi.
Le parole e i gesti di Gesù sono tutti per mostrare l'evidenza di questa buona notizia. La fede a cui Gesù chiama non si pone come alternativa alla religione. Costringe però a chiedersi come deve essere fatta una religione per rimanere la vera alleanza del Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe. La sostanza della via evangelica proposta da Gesù si presenta anzitutto come un ‘umanesimo’, una maniera di essere uomini che realizzi la giustizia dell'umano, della quale la vita umana di Gesù si presenta come esemplare primizia.
Alla configurazione dell'umanesimo teologico del Vangelo serve un attento discernimento della dimensione religiosa del sacro. Sono persuaso che questo compito sia tornato a essere particolarmente urgente nel nostro tempo e sia uno dei compiti di fondo della vita delle nostre comunità. Si tratta di un'esigenza ampiamente avvertita.
Religione e fede
La riflessione teologica ne esplora i termini da molto tempo. Nondimeno la esprimo come un sentimento personale, perché avverto nel cattolicesimo che mi circonda l'ipoteca di un tenace involucro sacrale che continua ad avvolgere le espressioni della nostra fede a discapito della loro qualità evangelica.
Le forme nelle quali si esprime il sentire della maggioranza dei praticanti - nelle immagini, nelle parole, nei gesti, nelle attese, nei giudizi - sembrano mantenersi nel perimetro di una convenzione che replica se stessa con maggiore convinzione quanto più essa si offre come discontinua rispetto alla vita reale, oasi di uno scenario spirituale fatto di espressioni riconoscibili perché abituali, rassicuranti perché consuete, consolanti perché classificabili.
Questo modo di esprimere la fede evangelica sembra più un sentimento religioso alquanto indeterminato, nel quale i contenuti dogmatici della fede sono un codice di riconoscimento da conservare intatto piuttosto che nuclei di senso di cui tenere viva la profondità.
Normalmente il tentativo di superare in qualche modo l'inerzia di questa convenzione genera una resistenza quasi intimidatoria. Talvolta anche un risentimento aperto, esplicito, militante, che reagisce a male parole.
Mi sento però di dire con franchezza che la convenzione religiosa ancora abbondantemente presente nelle nostre comunità nasconde la visione di un soprannaturalismo ingenuo, nel quale prosperano indisturbate le più irragionevoli aspettative con cui il narcisismo primario del devoto può mettere Dio alla prova dei suoi desideri.
La disperata voglia di credere che davvero tutti i sassi possano diventare pani.
Questa sorta di cattolicesimo magico, per poter lasciare spazio alla crescita e alla presenza di un cristianesimo maturo e adulto, deve essere messo sotto la lente di un accurato discernimento tra dimensione religiosa del sacro e umanesimo teologico del Vangelo, senza il quale, peraltro, la vita ecclesiale rischia di essere seriamente fagocitata dai latenti ma energici processi di riscossa del sacro nella società contemporanea.
Un senso del sacro, senza regole e senza contenuto, sta occupando le forme della vita collettiva. Non voglio entrare in questa questione. Dico solo che la suggestione di questa nuova onda del sacro, un sacro selvaggio, indeterminato, pulsionale, evasivo, talvolta persino violento, rischia di travolgere le anime spente del nostro cattolicesimo di base, a corto di senso critico, anzi assai predisposte verso una religione tutt'altro che evangelica.
Fonte: L’arte di accendere la luce. Ripensare la Chiesa ripensando il mondo, Vita e pensiero, Milano 2019.
1 CEI, Rinnovamento della catechesi. Documento base, 1970
Sintesi della Redazione
Per il lavoro di coppia e di gruppo
• La nostra fede da adulti quanto conserva del bagaglio nozionistico fornito dal catechismo?
• Attraverso quali percorsi la nostra fede ha provato a diventare una fede adulta?
• Domanda difficile: quali sono le nozioni ricevute in cui non crediamo più?
• Con chi condividiamo, se li condividiamo, i nostri dubbi di fede?
19-IL
VOLTO DI DIO PER ISRAELE: portatore di pace
Mosè desiderava vedere il volto di Dio, ma gli fu detto: “Non puoi vedere il mio volto, perché l’uomo non può vedermi e vivere” (Es 33,20).
Dio è Spirito, Dio è Santo, Dio è tutta perfezione, come può qualcuno osare anche solo pensare di vedere il Suo volto?
Eppure, questa non era l’opinione dell’israelita pio. Nella sua preghiera, chiedeva costantemente di vedere il volto di Dio.
I Salmi, composti nell’arco di sette secoli, testimoniano questa preghiera:
Sal 4,6: Faccia splendere su di noi la luce del tuo volto.
Sal 11,7 Il Signore è giusto, ama la giustizia: l’uomo integro vedrà il suo volto.
Sal 17,15 Quanto a me, nella mia giustizia vedrò il tuo volto, sarò colmato della tua visione.
Sal 27,8-9 Il tuo volto, o Signore, cerco. Non nascondermi il tuo volto.
Sal 34,5 Fissa il tuo sguardo sul Signore, e il tuo volto si illuminerà (cfr Es 34,29).
C'è persino un accenno che senza vedere il volto di Dio non siamo al sicuro:
Sal 80,7 Faccia splendere il tuo volto su di noi e saremo salvi.
È in qualche modo comprensibile che gli angeli vedano Dio (cfr. Tobia 12,15), ma come può questa visione essere concessa agli esseri umani?
Eppure, Mosè vide Dio! (cfr. Es 24,11 e Dt 34,10).
La benedizione che Mosè impartì ad Aronne per i figli d'Israele suona chiara:
“Il Signore ti benedica e ti custodisca; il Signore faccia risplendere il suo volto su di te e ti sia favorevole; il Signore rivolga verso di te il suo volto e ti dia pace.” (Num 6,24-26)
E se nell'A.T. la Terra Promessa dà felicità, anche a costo di guerre, in questa citazione di Numeri vedo che in fondo c'è sempre un desiderio di pace.
E questo vale per tutti i popoli.
padre Vincenzo Salemi IMC
20-ANELIAMO INVANO ALLA FELICITÀ?
Alla ricerca del senso della vita
“La vita ha un senso e sono gli adulti a custodirlo” è la bugia universale cui tutti sono costretti a credere. Da adulti, quando capiamo che non è vero, ormai è troppo tardi. Il mistero rimane, ma tutta l'energia disponibile è andata da tempo sprecata in stupide attività.
Non resta che cercare di anestetizzarsi, nascondendo il fatto che non riusciamo a dare un senso alla nostra vita e ingannando i nostri figli per cercare di convincere meglio noi stessi.
Muriel Barbery, L’eleganza del riccio
Agostino scrisse una volta: In fondo vogliamo una sola cosa – “la vita beata”, la “felicità”.
Ma poi aggiunge: guardando meglio, non sappiamo affatto che cosa in fondo desideriamo, che cosa vorremmo propriamente. Non conosciamo per nulla questa realtà; anche in quei momenti in cui pensiamo di toccarla non la raggiungiamo veramente.
Benedetto XVI, Spe salvi
La consapevolezza di essere mortali e di sapere che la nostra vita ha un tempo finito e le nostre possibilità sono limitate, costituisce già di per sé un aspetto che dona significatività all’esistenza.
Victor Frankl
di Emerich Coreth*
Si dice che la domanda sul senso della vita sia un'“eterna domanda dell'uomo”. Espressamente essa è stata posta, però, soltanto in tempi recenti.
Nella tradizione filosofica non si trova mai questa domanda né tantomeno il concetto di “senso”.
Il fine dell'agire etico dell'uomo è, per l'intero pensiero greco, la felicità o la vita buona.
L'idea della felicità e della beatitudine entra nel pensiero cristiano, ma con la consapevolezza che in questa vita non potremo mai raggiungere una piena felicità, che si realizzerà solo nella vita eterna.
L'intero annunzio di salvezza e di vita eterna è una risposta alla nostra domanda sul senso e ciò che noi intendiamo con “senso” corrisponde profondamente alla parola biblica “salvezza”.
La questione del senso oggi
Fin tanto che l'uomo si sente al sicuro nel proprio mondo, nelle norme e nei valori della vita che sono chiari, guidato dalla fede religiosa, egli non si interroga sul senso della vita.
Solo quando questa sicurezza viene meno e la fede comune perde la sua capacità di dare senso, si pone al singolo la questione di dove egli stia e di dove vada, di quale sia il senso della sua vita.
È quello che è accaduto in Occidente con l’Illuminismo: da allora è stata dominante la fede nel progresso della scienza e della tecnica, le sole capaci di risolvere tutti i problemi, di rendere felice l'umanità e di creare un paradiso in terra.
Certamente questo progresso procede sempre in avanti, in modo assai più veloce e impetuoso, ma anche assai più pericoloso. Bisogna riconoscere che il solo progresso materiale urta oramai contro dei limiti, che esso non risolve i problemi autenticamente umani, anzi, provoca un'infinità di nuovi problemi su scala mondiale.
Questo ha generato un pessimismo critico che dà luogo ad una grave crisi di senso: perché tutto questo? Dove porta?
Tutto quello che accade nel nostro tempo, con le sue conquiste, ha in assoluto un senso?
Gli uomini divengono con ciò migliori, più felici, più umani?
E la mia vita personale ha un senso?
La progressiva perdita del senso porta alla fuga nella mancanza di senso. La seduzione dei beni materiali e degli stimoli esteriori soffoca qualsiasi domanda di senso, e addirittura la sopprime con la fuga nelle droghe, nel terrorismo, nel suicidio...
Il senso del singolo e del tutto
A livello personale, tutto quello che noi facciamo di buono aspirando alla realizzazione di valori autentici ha un senso e dà alla vita, in ogni dimensione particolare, un senso.
Ma il Tutto in cui siamo immersi, in cui si collocano le nostre singole azioni, ha un senso?
Abbiamo bisogno di un senso che dia fondamento e direzione alla nostra vita, di un'origine e di una meta a partire dai quali tutto ciò che è nostro, singolare, acquisti il suo senso.
Concretamente: se l'uomo non conosce o non riconosce Dio come fondamento di senso ultimo della sua esistenza, egli rende assoluto qualcos'altro. Si arriva, così, al fenomeno dei “surrogati della religione” e delle “religioni-surrogato” che si spinge fino all'adorazione cultuale, per esemplo, di un idolo politico, ideologico o puramente pratico.
Se non lo si trova in Dio o negli dèi, allora si cade nel “vuoto esistenziale” che è così caratteristico per gli uomini del nostro tempo e che porta alla disperazione e in alcuni casi al suicidio.
Questo fenomeno mostra che l'uomo non può fare a meno di qualcosa di assolutamente valido, di un assoluto.
Il senso dei fallimenti e della morte
Tutto ciò che facciamo anche di buono e di sensato resta limitato, minacciato e caduco. Quanto più aspiriamo alla conoscenza della verità, tanto più sperimentiamo la nostra ignoranza. Quanto più pretendiamo di fare il bene, tanto più facciamo esperienza della nostra inadeguatezza. Di fronte a ciò che potremmo e dovremmo fare, pecchiamo sempre di omissione o per debolezza o per colpa.
Così, quando arriviamo alla fine della vita ci chiediamo: tutto questo era ciò che conferiva senso alla mia vita?
Nella morte il senso della vita è annientato, ma viene annientato solo il senso delle singole azioni o anche quello complessivo della mia vita? Oppure anche la morte ha a che fare positivamente con il senso della vita?
Nella morte la vita trova la propria fine. Una tale fine appare come il nulla, il nulla dell'esistenza in questo mondo. Tutto ciò a cui ho aspirato in questa vita, che ho sperimentato, fatto o sofferto cade nel nulla. Anche se io continuo a vivere nelle opere e nel ricordo degli altri – così alcuni si consolano – non sono “io” a vivere ancora.
Ma dobbiamo porre una contro-domanda: nella morte il senso della vita viene eliminato e distrutto o forse viene preservato e assicurato? Se non dovessimo morire, questa vita si svilupperebbe senza fine. Una cosa poco immaginabile, ma sicuramente inquietante, orribile. Non sarebbe proprio allora, infatti, che la vita sprofonderebbe nella vuota mancanza di senso, nel nulla?
Soltanto attraverso il nulla della morte la vita riceve il suggello del senso definitivo e insuperabile. Soltanto così la vita intera riceve un senso che permarrà valido, cioè, precorrendo il suo compimento definitivo.
Kant riconosce quest'aspetto nei postulati della ragione pratica: il libero agire morale esige l'immortalità dell'anima e l'esistenza di Dio, in quanto questi è l'unico a poter assicurare il “sommo bene”, la perfezione e la felicità. Senza questa attesa la vita nel suo complesso, malgrado le sue singole prestazioni dotate di senso, sarebbe insensata. Soltanto Dio può dare un senso pieno alla nostra esistenza.
Il senso della storia
Questo vale anche per la storia. Nel suo complesso, essa ha un senso? E dove si trova? Lo si può vedere nel progresso: nel progresso della ragione (Illuminismo), nel progresso della libertà (Hegel), nel progresso verso una società senza classi e non violenta (Marx). Ma nella storia non c'è soltanto progresso; ci sono anche ricadute e declini e nella maggior parte dei casi il progresso in un certo àmbito è acquistato al prezzo di una perdita e di una decadenza in altri àmbiti.
Così, oggi sperimentiamo nel gigantesco progresso della tecnica un'enorme decadenza della cultura in tutti i suoi àmbiti, come mai forse vi è stata finora nella storia. E anche se il progresso dovesse condurre ad un futuro migliore, comunque non vi sarebbe alcun senso e alcuna giustificazione per tutte le assurdità del passato, per le ingiustizie, le violenze, le crudeltà, le sofferenze e le morti inutili. No, il futuro non sana il passato.
Non soltanto la vita umana nella sua singolarità, ma anche l'intera storia universale trova dunque il suo senso autentico e definitivo non in sé stessa, ma in un futuro realizzato pienamente soltanto da Dio.
No, la vita in fondo non ha alcun senso se fosse soltanto la vita che si svolge sulla terra e la storia non avrebbe in fondo alcun senso se fosse soltanto la storia dell'umanità in questo mondo.
L'uomo è trascendente e soltanto nella trascendenza divina trova il senso autentico e definitivo della sua esistenza.
In questo modo, a dispetto di quanto si obietta frequentemente, la vita non è svalutata, non è sminuita per mezzo della consolazione che viene da un al di là migliore. Al contrario: proprio la fede in un'altra vita, quella definitiva, conferisce a quest'esistenza provvisoria nel mondo il suo autentico valore, perfino il suo valore di eternità, il suo peso infinito, ma con ciò anche la sua responsabilità incondizionata e insopprimibile.
Emerich Coreth, Dio nel pensiero filosofico, Queriniana, Brescia 2004
Fonte: www.notedipastoralegiovanile.it
Sintesi della Redazione
Per il lavoro di coppia e di gruppo
• Essere felici è solo una questione di fortuna?
• Bisogno di “senso”, felicità, salvezza eterna: che cosa hanno in comune?
• Che posto ha Dio nella nostra vita? Quanto la nostra fede in Cristo è fonte di senso?
• Nell’esercizio della carità abbiamo mai fatto esperienza della nostra inadeguatezza?
• Come reagiamo di fonte alle tragedie della Storia?
• Che atteggiamento abbiamo di fronte al mistero della morte?
21-FELICITÀ:
ETIMOLOGIA DI UNA PAROLA
La felicità è una parola che è sempre stata in movimento e in trasformazione, scrive Marco Balsamo*.
Nella Grecia antica la felicità era legata dall’ineluttabilità e dal caso, dal fato. Poi, con Aristotele, la felicità si configura come uno stato di fioritura umana e benessere esistenziale, raggiungibile attraverso la virtù e il conseguimento di uno scopo nella vita.
Nel latino dell’antica Roma, vi è il legame intrinseco della felicitas con l’abbondanza e la fortuna, ma anche con la “donna nel suo essere fonte di vita”, con la “madre-terra creatrice”. La felicità, in questo senso, è un seme che cresce e diventa frutto che nutre i figli e i figli dei figli.
Nell’ebraismo la felicità è tutt’uno con la gioia nella ricerca di Dio. Beato è colui che si mette in cammino nella fede con gioia, cercando la propria strada ma assumendo “una precisa condotta”, per ricongiungersi all’eterno, “alla sola vita autentica dove la felicità diventa beatitudine”.
Arrivando ai giorni nostri, nella lingua inglese, quella che è quasi una lingua universale, si ritorna al punto di partenza. Happiness, infatti, deriva dall'antico inglese hap, che significa “sorte” o “caso” ritornando a collegare la felicità a eventi fortuiti e alla possibilità che accada qualcosa di positivo.
Ma è proprio vincendo la passività e l’evento fulmineo della caduta, possiamo fermarci per cercarne un senso, con la consapevolezza che la fortuna con la sua inestricabile caducità è solo un’occasione.
Perché a riempire e a dare senso alla nostra vita è la vita stessa, con le sue misteriose strade fatte di fallimenti e rinascite.
* Cosa c'entra la felicità? Una parola e quattro storie, Feltrinelli 2022
Uomini e donne nella bibbia
22-CHI È GESÙ PER NOI?
di Luigi Maria Epicoco
Le fede il Lui ci permette di scorgere un senso dietro tutto quello che ci sembra senza senso.
“Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!” (Mc 10,46-52)
Un cieco che grida è forse l’immagine più bella della nostra condizione interiore. Quante volte siamo noi Bartimeo, proprio perché non vediamo più che senso ha la nostra vita, cosa sia giusto fare, dove si trova davvero Dio nella nostra storia.
In quel buio terribile non dobbiamo disperarci ma imparare a pregare. E importa poco se molti ci dicono che non serve a nulla, o una parte di noi ci rimprovera scoraggiandoci a farlo: “Molti lo sgridavano per farlo tacere, ma egli gridava più forte: ‘Figlio di Davide, abbi pietà di me!’”. Noi sappiamo che Gesù ascolta sempre la preghiera di chi prega con tutto il cuore: “Allora Gesù si fermò e disse: ‘Chiamatelo!’.
E chiamarono il cieco dicendogli: ‘Coraggio! Alzati, ti chiama!’. Egli, gettato via il mantello, balzò in piedi e venne da Gesù”.
Dobbiamo sempre pregare con la certezza di essere ascoltati, e proprio per questo la nostra preghiera deve essere ostinata. E sentiremo interiormente Gesù che ci dice: “Che vuoi che io ti faccia?”.
Allora come Bartimeo potremmo chiedergli la grazia più grande di tutte: tornare a vedere! Scorgere, cioè, un senso dietro tutto quello che fino a quel momento ci sembrava senza senso. “E Gesù gli disse: ‘Va', la tua fede ti ha salvato’. E subito riacquistò la vista e prese a seguirlo per la strada”.
“Ma voi chi dite che io sia?” (Lc 9,18-22)
Ogni tanto il Vangelo ci ripropone questa bruciante domanda: che cos’è realmente Gesù per noi?
Si può rispondere a un interrogativo simile usando parole romantiche, o ragionamenti complicati, ma la verità di fondo è che davanti a una domanda simile si deve essere solo tremendamente sinceri. Che cos’è Gesù dentro la nostra vita? Potrebbe essere semplicemente qualcosa di decorativo, una tradizione tramandataci dalla nostra famiglia, un feticcio delle nostre paure e delle nostre insicurezze.
Ma si è cristiani solo soltanto se Gesù è per noi quello che dice Pietro: “Il Cristo di Dio”. Cosa significa dire una cosa simile? Significa dire che Gesù è il motivo della nostra vita, il fondamento di tutto ciò che siamo e che viviamo, il gusto più profondo.
È grazie a Lui che un matrimonio, un figlio una vocazione, un mestiere, un dolore, una gioia hanno senso e luce.
In questo senso non si può vivere senza Gesù. Per un cristiano non si può vivere senza un legame profondo con lui che si manifesta attraverso la frequenza alla Sua persona nei sacramenti, nell’ascolto della sua parola, nella preghiera, nei gesti di carità dove noi sappiamo che Egli è presente specialmente in chi soffre e in chi è fragile.
Non esistono nella realtà cristiani non praticanti, perché sarebbe come dire di amare senza rendere l’amore qualcosa di concreto. Questo è Gesù per noi: qualcosa di concreto per cui la vita vale la pena.
La luce nella vita (Gv 8,12-20)
“Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita”.
Accogliere Gesù è accogliere la luce. L’esperienza della luce è l’esperienza di vedere le cose per ciò che sono, ed è sapere il motivo vero per cui la vita vale la pena. Solo chi vede è davvero libero. Ecco perché Gesù dice a chi lo interroga: “la mia testimonianza è vera, perché so da dove vengo e dove vado. Voi invece non sapete da dove vengo o dove vado. Voi giudicate secondo la carne; io non giudico nessuno”.
Sarebbe bello nella vita poter sapere da dove veniamo e dove stiamo andando, ma molto spesso non sappiamo il vero senso del nostro passato e soprattutto verso dove siamo incamminati. Per questo seguire Gesù è anche potersi mettere in un’esperienza che possa davvero rispondere a questa domanda di senso. Escludere Gesù significa condannarsi al buio.
Persino chi non crede ha bisogno di rispondere a questa domanda di senso, e proprio per questo un credente ha la doppia responsabilità non soltanto di cercare una luce che lo salvi ma di lasciarsi illuminare da quella luce fino a diventare luce per chi non l’ha incontrata.
Fonte: https://www.famigliacristiana.it/blog/don-luigi-maria-epicoco-parola-del-giorno-.aspx
23-IL NOSTRO CAMPO ESTIVO
Barcis (PN)10 - 17 agosto
Il tema del campo: Intelligenza artificiale. Istruzioni per l’uso. Impariamo a servirci delle tecnologie, affinché le tecnologie non si servano di noi.
La settimana estiva per famiglie si è svolta dal 10 al 17 agosto 2025 presso la Casa S. Giovanni a Barcis (PN).
Nella lettera di invito da parte di Fiorenza e Antonio Bottero e Jane e Mauro Sanvido, era già presente il tema della settimana: “Intelligenza artificiale, istruzioni per l’uso. Impariamo a servirci delle tecnologie, affinché le tecnologie non si servano di noi”. Un tema piuttosto impegnativo ma altrettanto affascinante e attuale.
Eravamo al completo, tutti i 55 posti della casa erano occupati.
Dopo esserci scambiati alcune informazioni sull’itinerario eccoci arrivati a Barcis, ridente paese nel cuore della Valcellina, nelle Dolomiti friulane, sulle rive dell’omonimo lago artificiale, a 409 metri sul livello del mare.
È stata una settimana ricca di incontri, di condivisioni, di allegria e di autentica amicizia. Per le riflessioni giornaliere siamo stati guidati:
- il lunedì dal prof. Gregorio Ceccone sul tema AI=rivoluzione digitale;
- il martedì da don Stefano Didonè sul tema AI e antropologia;
- (mercoledì pausa per la gita);
- il giovedì dal Prof. Filippo Bellò sul tema AI e impegno personale;
- il venerdì dal Prof. Paolo Brugnera e sua moglie Cinzia sul tema: AI e fake news.
Ci sono stati collegamenti anche con la dimensione religiosa e la nostra fede. Alle relazioni sono seguiti ampi dibattici e lavori di gruppo.
Sempre presente tra noi è stato padre Francesco Pellizzer per la parte spirituale: Lodi, S. Messa giornaliera, preghiera della sera. Ci ha accompagnati anche nella solenne eucarestia di fine settimana in cui ha avuto luogo il commovente rinnovo delle promesse del matrimonio da parte di ogni coppia con i propri figli.
La giornata penitenziale ha avuto luogo il martedì con la presenza di padre Francesco, di don Alessandro Dussin e di don Luciano.
Ci sono state delle uscite organizzate. Il mercoledì a Villa Emma nella foresta del Prescudin con un percorso facilitato, durante la quale i partecipanti hanno potuto anche visitare una fresca cascata vicina. Nello stesso giorno i più esperti di montagna si sono recati al rifugio Bosconero, 1457 metri, in Val Zoldana. Ci sono state anche due uscite pomeridiane: alla Forra del Cellina e un percorso attorno al lago di Barcis.
Un grande contributo per la buona riuscita di questa settimana l’ha dato il gruppo Animatori, guidati dall’instancabile Jane Antonello che ha condotto con professionalità e passione la loro preparazione e li ha guidati ogni giorno su proposte di lavoro per i 18 bambini e ragazzi presenti (da 1 ai 12 anni).
Il “Codex Alsha”, un racconto molto coinvolgente pensato e scritto dall’animatrice Alessia Sanvido sull’Intelligenza Artificiale, ha condotto ragazzi e bambini a riflettere su questo argomento partendo ogni giorno dagli stessi temi proposti agli adulti.
Durante la preghiera del mattino Jane ci presentava dei simboli rappresentanti contesti di vita su cui riflettere: il paese, la colomba, la casa, la famiglia, la persona, il cuore, la coscienza riferendosi al discorso di Papa Francesco al G7. Sempre era presente il messaggio: dal villaggio concreto stiamo passando ad un villaggio virtuale ma non dobbiamo mai abbandonare il villaggio delle relazioni buone e concrete.
Per la fine della settimana i bambini e i ragazzi hanno realizzato un quadretto con i simboli del mattino rappresentante un villaggio.
Tutte le attività proposte erano pensate con gli animatori che durante la settimana hanno partecipato anche a tre incontri di formazione. A questi animatori speciali: Pietro, Cesare, Alberto, Emanuele, Nicola e Alessia, va un grazie particolare perché hanno partecipato con impegno alla buona riuscita della settimana, seguendo i bambini e ragazzi con tanta amorevolezza e dedizione.
Le serate sono state sempre brillanti e molto allegre con il coinvolgimento degli adulti. La Santa Messa e i momenti di preghiera sono stati accompagnati da due chitarre e da due strumenti a percussione; alcuni animatori erano anche musicisti.
Un elogio particolare va al nostro cuoco Matteo Marchioretto che si è dimostrato un vero chef, coadiuvato dalla Signora Carmen. Importanti e decisive per l’organizzazione della settimana estiva sono state le coppie: Tony e Valeria Piccin, Antonio e Fiorenza Bottero, Mauro e Jane Sanvido.
È stata veramente un’esperienza forte di convivialità e amicizia con riflessioni profonde e ci auguriamo fortemente che questa esperienza venga ripetuta anche il prossimo anno.
Luciana Rech e Giovanni Gazzola
Crediamo ancora nella famiglia
24-GRUPPI FAMIGLIA VALLÀ 2025-2026
Incontri-annuncio per adulti desiderosi di crescere nella fede in ogni stagione
della loro vita.
19-10-2025 - GENERAZIONI A CONFRONTO.
Come mantenere l’integrità della coppia con l’avvento dei figli e il rapporto con le famiglie d’origine.
Rel. Silvano Bordignon
30-11-2025 TOBIA E SARA: storia di un incontro.
Rel. Antonio Piccin
25-01-2026 - VIOLENZA DI GENERE.
Quell’invisibile confine tra costruttivo e distruttivo all’interno dei rapporti umani.
Rel. Dott.ssa Panaghia Facchinelli
15-03-2026 - CHE MERAVIGLIA IL CREATO!
Ci è stato donato con amore gratuito, sta a noi esserne custodi.
Rel. Rudi Bressa
Per chi avesse Piacere di fermarsi, sarà possibile proseguire con un momento conviviale autogestito in allegria e semplicità.
Il percorso si concluderà con una uscita gioiosa il 24-05-2026.
Gli incontri avranno luogo presso il centro parrocchiale di Vallà nei giorni in calendario secondo la formula seguente:
15:00-15:15 arrivo e accoglienza
15:15-16:30 relazione-annuncio
16:30-17:00 break
17:00-18:00 work-shop di gruppo
È gradita la presenza di tutti i figli. Per loro verranno organizzati momenti di amicizia-scambio, attività-creatività-allegria-festa.
Per informazioni:
Fiorenza e Antonio Bottero: tel. 340 5195718, Elena e Alberto Piccin: tel. 329 882 8790, Yane e Mauro Sanvido: tel. 340 488 0433
25-NEI PROSSIMI NUMERI
di Franco Rosada
Grazie alle vostre risposte, i prossimi numeri della rivista tratteranno di:
• La dottrina sociale della Chiesa
• Giovani e anziani: due generazioni contro?
Il primo tema è già stato annunciato più volte. Doveva essere il tema di questo numero, ma la scomparsa di papa Francesco e la successiva elezione di Leone XIV lo ha fatto slittare ancora.
Il perché è semplice: da un papa che assume il nome di Leone, come quello del suo predecessore Leone XIII, autore della prima enciclica sociale, la Rerum novarum, c’era da aspettarsi un’esortazione su questo tema.
Per evitare di realizzare un numero sulla dottrina sociale della Chiesa priva del contributo del nuovo papa, abbiamo atteso un suo primo pronunciamento che è appena arrivato: l’esortazione Dilexit me.
Il secondo tema potrebbe essere considerato una sorpresa. Proposta da voi lettori nell’ultimo sondaggio fatto circolare in rete, è stato uno tra i più scelti.
Questo da un lato ci ha fatto molto piacere; non abbiate timore nei prossimi sondaggi online di proporci argomenti che vi stanno a cuore.
Dall’altro lato ci ha un po’ spiazzato. Per esempio, in questo numero sui temi della maternità e paternità ci lavoravamo da tempo raccogliendo materiali.
Sulla maternità i primi documenti raccolti risalgono al 2022 mentre per la paternità abbiamo attinto a libri usati per il numero 103 dedicato al capitolo 5 dell’Esortazione Amoris laetitia.
Ma ce la faremo anche questa volta!
26-PER
CONCLUDERE
Forse più nessuno si aspetta seriamente qualcosa della Chiesa.
Eppure, tutte le volte che essa restituisce ossigeno alla fiamma del Vangelo qualcuno alza lo sguardo. Magari solo da lontano la osservano come un segnale da non perdere d’occhio.
Essa non deve pretendere di mettersi alla testa di tutti.
La luce che ha tra le mani è anzitutto per se stessa.
Per non smarrire la strada.
Giuliano Zanchi