5° incontro dei Gruppi Famiglia a Vedelago
15 Febbraio 2009

Il primato della vita
Le scelte di fronte ad eutanasia e genetica. Vivere la sofferenza, la malattia, la nascita e la morte da credenti nel Dio della vita.

Relatore: Don Giuseppe Pellizzaro

La vita è un misto di tante cose
Questo tema è enorme e mi è un po’ difficile poter dire qualche cosa di completo e preciso. Pertanto mi affiderò molto di più alle vostre provocazioni.
Partirei dalla realtà della vita: che cosa è la vita? L’immagine che mi viene è di paragonare la vita alle giornate che si susseguono di sole, di nebbia , di nuvole o di pioggia, qualche volta anche di tempesta. Oppure c’è il giorno ma anche la notte. La vita è un misto di tante cose. Un mio insegnante di filosofia iniziava il corso paragonando la vita ad una corda dove noi siamo lì attaccati ma in cima alla corda ci sono due topolini, uno bianco e uno nero, che mordono quella corda finché un giorno a forza di mordere la corda si spezzerà.
La vita è una cosa che ha senso oppure un’illusione? L’uomo è qualcosa di straordinario per certi aspetti, basta guardarsi attorno per vedere che cosa è capace di fare e di costruire. L’uomo è un insieme di grandezza straordinario per i sogni, per i pensieri, per le imprese che riesce a fare, ma nello stesso tempo, dobbiamo anche dire che l’uomo è un insieme di grande fragilità. Fragilità dal punto di vista fisico. Dice il salmo "settant’anni è la vita dell’uomo, ottanta per i più robusti", anni che passano presto. Fragilità anche dal punto di vista psicologico e morale. Infatti restiamo talvolta scandalizzati da quello che succede per le bassezze di cui l’uomo è anche purtroppo capace.

Miti antichi e moderni
Allora che senso ha questo misto di gioie e di dolori, di drammi e di speranze, questo misto di finito e di infinito. Per gli antichi il tentativo di dare un senso alla vita era legato al mito. Nei miti cercavano di dare una spiegazione a questa grandezza/piccolezza della vita dell’uomo. Ad esempio per i Greci c’è il mito del dio Cronos (tempo) che aveva la triste abitudine di mangiarsi tutti i suoi figli appena nati. Con quel mito volevano dire che il tempo non lascia sopravvivere niente a sé stesso, distrugge tutto anche le cose più belle che crea. Nel tempo moderno c’è un altro mito: la tecnica, scienza; l’illusione che attraverso la scienza possiamo dare una spiegazione ultima a tutta la vita dell’uomo. Anche se oggi ci sono problemi non risolti, l’idea è che quello che oggi non è risolto domani potrà essere risolto. Non abbiamo ancora trovato il modo per debellare del tutto il tumore, ma ricerchiamo, approfondiamo…Eppure la vita media oggi è solo allungata di un po’, nonostante tutto il progresso che abbiamo. Il tentativo di dare un senso alla vita attraverso il progresso si rivela in realtà un’illusione, soprattutto perché, in questo modo, mi pare che ci sia un grosso rischio alla base che è quello di lasciare in sospeso i problemi di fondo.
Mi viene in mente un romanzo che ho letto tanto tempo fa, una piccola favola: la collina dei conigli. In quel romanzo ci sono questi due conigli girovaghi che ad un certo punto arrivano in un luogo dove ci sono dei conigli che stanno benissimo, hanno da mangiare anzi gli viene portato ogni giorno da mangiare e non hanno nessun problema, c’è un fatto però che in tutto quel benessere ogni tanto qualche coniglio scompare. Di questo però non bisogna parlare, quello è un tabù. Nella nostra società è un po’ così, qualcuno è vittima del progresso ma questo non deve essere preso in considerazione.

Che cos’è la vita? È un caso, un dramma, una speranza?
Se apriamo la Bibbia, in essa troviamo che la vita non è frutto del caso né dramma ma fondamentalmente essa è dono. Ha un’origine buona, "E vide che era cosa molto buona". Nel libro della Genesi, dove si parla della creazione del mondo, il racconto è interessante perché ci fa vedere come l’origine della vita provenga da Dio. In una di queste letture si presenta Dio che crea tutte le cose. Però, prima della creazione dell’uomo, si dice che mancava l’erba perché non c’era ancora l’uomo che avesse fatto i canali che portavano l’acqua per far crescere l’erba. Stupenda immagine che sta ad indicare che Dio dona la vita ma questo dono domanda e interpella la responsabilità dell’uomo. La vita non è né fatto tragico e neanche auto costruzione con la presunzione infantile dell’onnipotenza, ma dono affidato alla nostra responsabilità.
C’è un dato però, l’uomo per struttura sua è un manipolatore, l’uomo è fatto di intelligenza e mani. Dunque egli conosce e trasforma la realtà, diventa con creatore assieme a Dio. Bisogna però dire che fino a poco tempo fa l’uomo aveva manipolato la realtà esterna, oggi l’uomo è arrivato a manipolare sé stesso, a manipolare la vita. Soprattutto è arrivato a poter manipolare quell’aspetto della vita che una volta sembrava intangibile, l’inizio e la fine della vita. Sembravano due realtà che non erano in possesso dell’uomo. Oggi sono nelle mani dell’uomo, però con un rischio. Non vorrei essere frainteso perché quanto ha fatto la scienza in questi anni è una cosa grande e benedetta. Per il fatto che la scienza si sia impegnata non solo per strumenti di morte come spesso ha fatto ma si impegni a servizio della vita lo dobbiamo considerare non come una minaccia ma come una grande grazia. Non bisogna vedere l’impegno della scienza in questi ambiti come fatto pericoloso ma come fatto positivo. Però abbiamo la concezione che l’uomo moderno sia come l’apprendista stregone. Chi è uno stregone?
È uno che possiede conoscenze che gli permettono di dominare le forze della natura, le forze magiche, le forze malefiche, benefiche. L’apprendista stregone è uno che comincia ad avere alcune conoscenze ma, essendo apprendista, non ha ancora la capacità di un dominio assoluto su quelle conoscenze e può essere benissimo che qualcosa gli sfugga di mano. Credo che la scienza dia inizio a cose stupende, a delle conoscenze straordinarie però con il rischio di dare inizio a delle realtà che poi non riesce fino in fondo a dominare. Soprattutto per quanto riguarda l’inizio e la fine della vita.

L’inizio della vita
Oggi le conoscenze che la scienza ha in questo ambito sono davvero straordinarie. Solo per fare qualche accenno pensiamo a tutto il progetto "genoma umano". La conoscenza del patrimonio genetico che esiste all’interno della cellula permette di entrare dentro i segreti della vita. Qualcuno ha detto che l’uomo si è impadronito del segreto di Dio sulla vita. In questo ambito ci sono delle scoperte straordinarie con delle grandissime possibilità in tutti gli ambiti.
Tutti abbiamo sentito parlare del DNA, se non altro in occasioni di esami per fatti criminali, e siamo anche a conoscenza di tutti gli altri interventi che ci possono essere sulle diagnosi prenatali. Abbiamo la possibilità di sapere in anticipo tante cose sullo stato dell’embrione o del conoscere anche in anticipo le malattie che possono riguardare questo individuo probabilmente anche in età successiva. Sono possibilità straordinarie anche perché è la conoscenza che poi da la possibilità di interventi precoci di carattere terapeutico. Solo che, a livello attuale, parlavo prima dell’apprendista stregone, ci troviamo in una situazione un po’ ambigua, se possiamo conoscere più di 500 malattie che potranno riguardare l’individuo futuro, ma non abbiamo sempre la possibilità di intervenire in senso terapeutico nei confronti di queste malattie. Allora si pone il grosso rischio che è quello del considerare eventualmente l’aborto come fatto terapeutico. Non può essere considerato "fatto terapeutico" un qualcosa che elimina il soggetto interessato, ma non avendo altra possibilità se non quella di eliminare il soggetto, si corre il rischio di chiamare terapeutico ciò che terapeutico non può essere.
Tuttavia il giorno che queste conoscenze permettessero anche una terapia genica, intervenire sui geni per evitare una nascita malformata o per evitare altre conseguenze negative, tutto ciò diventerebbe una grande benedizione.

Arma a doppio taglio
È chiaro che quello che la scienza ci da è sempre un’arma a doppio taglio, non possiamo criminalizzare i coltelli perché esistono, bisogna piuttosto vedere come vengono utilizzati. La scienza ha oggi queste grandi possibilità ma anche questi grandi limiti. Non voglio entrare in queste tematiche che ben conosciamo. A proposito dei test prenatali credo che possano essere considerati cosa molto importante perché non sempre vengono fatti con l’intenzione per vedere se il bambino è malformato per poi eventualmente eliminarlo, ci sono oggi delle possibilità anche di terapia preventiva e possono perciò avere un grosso significato pur con tutti i problemi che si pongono.
Per dire la problematicità di questi interventi, proviamo a pensare se uno di noi venisse a sapere ancora prima della nascita che a 50 anni sarà interessato da una certa malattia. Sembra che si possa sapere con grande anticipo che un giorno quell’individuo si ammalerà di alzeimer, parkinson o altro. Questo signore ha una spada di Damocle sempre sopra la sua testa. Tutti sappiamo che un giorno la nostra vita termina, altro è il sapere il quando e il come, altro è avere l’idea chiara di sapere quando e come. Pensiamo poi come diventerebbe selettiva una conoscenza di questo tipo quando, ancora oggi, per assumere una persona si fanno delle visite mediche e vengono escluse persone che non hanno certe caratteristiche. Si corre il rischio di discriminare in maniera paurosa le persone. Tanto per dire Giovanni Paolo II non sarebbe mai diventato papa.

Cellule taminali
Altri interventi che si fanno all’inizio della vita. Qualche anno fa abbiamo discusso sulle cellule staminali embrionali. Se noi ci poniamo all’interno della nostra cultura, alcuni criteri che la stanno guidando sono legati a valori in sé positivi come il valore della libertà, ma quando questo valore è reso assoluto dimenticando qualsiasi altro valore, fa correre il rischio di diventare esso stesso fonte di ingiustizia. La libertà è certamente un grande valore ma non possiamo dimenticare che, perché uno debba essere libero, prima deve essere vivo. Ad una persona posso togliere la libertà e posso anche restituirgliela, ma se gli tolgo la vita non gliela posso restituire.
C’è un’altra mentalità, quella utilitarista: fare una casa perché ne deriva una utilità. È un criterio accettabile e doveroso quando lo applichiamo a una singola persona ma quando volessimo applicare questo criterio in generale la cosa potrebbe diventare particolarmente rischiosa. Dico queste cose perché nel caso delle cellule staminali embrionali il problema era quello che nell’ipotesi, perché solo di ipotesi si trattava, di poter curare delle malattie di qualche individuo si pensava che potessero essere tranquillamente sacrificati degli embrioni. Ma se accettiamo che l’embrione sia già un individuo per sé stesso, non è più accettabile sacrificare una persona oggi per poter avere dei vantaggi ipotetici per altre persone domani. Questo criterio utilitaristico non va assolutamente accet-tato perché quando non rispettiamo la persona come un valore in sé creiamo poi delle ingiustizie assolute, non c’è più nessun valore che possa in qualche maniera tenere. A proposito delle cellule staminali il discorso è estremamente delicato perché ci venivano presentate, se qualcuno ha memoria, come la soluzione dei problemi. Non è così semplice la cosa. Avete presente come è fatta una società nostra, ma prendiamo una società quando esistevano ancora gli artigiani.
Era una società fatta di molti individui dove ogni tanto qualcuno muore, e può morire anche chi fa un certo mestiere. Se vogliamo che quel lavoro possa continuare ci vuole qualcun altro che apprenda quel mestiere, qualche apprendista appunto. Facciamo conto che le cellule staminali siano una cosa simile. Noi siamo fatti di vari organi, di miliardi di cellule che si organizzano intorno ai nostri organi. Lungo la vita di un individuo muoiono miliardi di cellule che vengono sostituite da altre, proprio come avviene nell’esempio della bottega dell’artigiano. Ci sono cellule giovani, staminali, le quali devono imparare un mestiere di diventare cute, osso,… Una volta che si sono specializzate sostituiscono altre cellule che via via muoiono. Può succedere che qualche volta, per un evento qualche volta anche drammatico (pensiamo all’infarto), le cellule giovani non siano sufficienti per reintegrare le cellule che sono morte. Se noi avessimo un numero enorme di cellule da mettere lì che potessero intervenire per riparare quel danno ne potremmo avere una grande utilità, anzi il problema sarebbe risolto. Di questa speranza si tratta ma non è che sia proprio tutto così semplice perché prima di tutto bisogna che le cellule, che sono staminali, imparino il mestiere di diventare una cosa o quell’altra (si specializzino). C’è poi un altro grosso problema che è quello del rigetto. Può essere che non vengano riconosciute dall’organismo. Mettere cellule staminali dentro un organo possono produrre anche neoplasie (tumore), una neo formazione che parte per conto suo, che può danneggiare tutto l’organismo invece di ripararlo.

Cellule staminali embrionali
Perché si parlava di cellule staminali embrionali? Noi ne abbiamo un po’ dappertutto ma è difficile raccoglierle. Sono più presenti nel midollo osseo, cordone ombelicale, … mentre nel caso dell’embrione queste cellule sono tutte giovani. Ecco perché la scienza è particolarmente interessata alle cellule dell’embrione e non quelle somatiche proprio per la facilità di averle a disposizione. Qui entra il grosso problema che abbiamo detto dal punto di vista morale. È lecito, è accettabile che si possa sacrificare una vita in ordine ad una ipotetica speranza di un individuo futuro? Non vorrei fare terrorismo psicologico ma con questi criteri potremmo giustificare anche i campi di concentramento di Hitler e le ricerche di Mendele che è arrivato a grossi risultati attraverso le sue sperimentazioni ma credo che nessuno sia più disposto ad accettare oggi una ricerca fatta sull’uomo con quei criteri per i vantaggi che poi sono derivati all’umanità futura.

Interventi artificiali sulla generazione umana
Anche qui dobbiamo ringraziare davvero la scienza che, se tante volte si è impegnata nel campo della offesa della vita, oggi si sta impegnando anche nel permettere la vita anche la dove la vita non era possibile. Anche in questo ambito il criterio del coltello a doppio taglio vale sempre.
Cioè la scienza è una benedizione purché però vengano rispettati alcuni valori fondamentali. Un primo valore fondamentale è che l’embrione venga sempre rispettato come tale.
Nel caso della FIVET (fecondazione artificiale in vitro che può essere omologa o eterologa), almeno prima della legge 40, erano prelevati più ovuli, una decina circa, attraverso la stimolazione ovarica, tutti venivano fecondati, ne venivano impiantati 3 e gli altri conservati. I tre impiantati derivavano da una selezione, e già qui si pone il problema con quali criteri veniva fatta la selezione. Una volta impiantati, se l’impianto aveva avuto successo, si procedeva con un aborto selettivo in modo da favorire la nascita di uno rispetto agli altri. Se invece l’intervento non aveva avuto successo se ne prendevano altri tre e si ripeteva l’impianto. Gli embrioni che non venivano utilizzati dovevano poi essere eliminati. Il problema appunto riguardava il rispetto dell’embrione.
Mettiamola così! Pensiamo che sia contenta una donna di aver avuto il suo bambino. Se però sa che, in modo programmato, ha dovuto eliminare altri 10/20 embrioni messi in essere, si deve domandare se questo sia dare vita o se non sia piuttosto un produrre qualche cosa. Quel figlio può essere chiamato figlio? E cioè che derivi da una coppia che è tale come coppia. Negli interventi di carattere eterologo c’è da chiedersi se quel figlio è figlio di quella coppia!
Certo qualcuno potrà dire che anche nel caso dell’adozione il figlio non è figlio della coppia e dunque qui si tratterebbe, in fondo, di una semi adozione. Ci troveremmo di fronte ad una condizione quasi migliore. In realtà però nel caso dell’adozione è la coppia che come coppia si rende disponibile a dare una famiglia a questo bambino, nel caso dell’intervento artificiale eterologo le cose sono diverse perché il rapporto dei genitori con questo bambino è diverso. Credo che sia diverso per una donna sentire che quello che cresce in lei è frutto del nostro amore oppure il figlio è mio e di X.
Non è un caso che molti figli che sono nati con queste tecniche, specie in America dove le cose sono iniziate molto prima che da noi, siano all’affannosa ricerca dei loro padri naturali. Questo significa che noi siamo fatti strutturalmente per la relazione. Una donna può aver avuto un figlio casualmente, da una relazione strana…però c’è una storia. Qui invece ci troviamo di fronte al vuoto. Questo vuoto dal punto di vista psicologico non è senza significato.

La fine della vita
Anche qui abbiamo bisogno di essere guidati da un criterio, da una luce. Con questi interventi alla fine che cosa si deve fare, come si deve agire?
Ho parlato dell’apprendista stregone. Cosa fare per esempio quando ci troviamo di fronte a una vita che è vita? Se si dice di far morire Eluana vuol dire che non era morta. Ma se era morta avrebbe dovuto essere sepolta 17 anni fa.
Eluana non si poteva considerare morta. Il problema che si pone oggi è appunto questo che la persona è viva ma non è viva come noi vorremmo che fosse. Si tratta di una vita che noi non consideriamo vita, tanto è vero che si arriva a dire che era morta 17 anni fa perché non è più una vita che corrisponde al nostro criterio. Che cosa fare quando da un lato è vita, e non possiamo dire che non sia così, e quando nello stesso tempo non lo è più come noi vorremmo che fosse?
Adesso ci sarà la grande discussione sul testamento biologico. Con quali criteri si porrà il problema del testamento biologico? Per cominciare, un punto fondamentale è l’epoca nella quale viene steso questo testamento biologico. Credo che nessuno di noi può dimenticare un fatto, cioè "mi pento". Se voi interpellate i ragazzi di una scuola e chiedete che cosa pensano di questi problemi ti diranno con chiarezza che è meglio morire. È evidente perché per un giovane la vita è vita fin tanto che ha certe caratteristiche. Per noi che siamo qui, per un giovane, se fossimo già all’altro mondo forse faremmo loro solo un piacere, perché hanno una paura terribile della vecchiaia, hanno il terrore della decadenza. Se uno esprime un desiderio dice: "La mia vita vale finché ha certe caratteristiche, finché ha certe possibilità". Credo però che anche tutti quanti abbiamo anche sperimentato di trovarci in situazioni diverse nella vita. Non so se vi è mai capitato di trovarvi di fronte a persone che sono in situazioni così drammatiche eppure sono anche terribilmente legate alla vita. Qualche volta invece ti dicono: "Quanto mi farà stare ancora qui il Signore?". È però da vedere se quella richiesta e davvero una richiesta di morte o di qualcosa altro.
Il nostro problema allora è il problema del tempo: quando viene fatto questo testamento. L’altro grosso problema è che viene accettato il criterio della autodeterminazione come criterio assoluto.
Il criterio della autodeterminazione, cioè che io ho stabilito qualche cosa per me, questo deve poi essere rigorosamente osservato dal medico quando io dovessi trovarmi in quella situazione. Sembra essere una esaltazione della libertà del soggetto e, siccome per noi oggi è un criterio fondamentale, questo ci attrae molto perché sembra essere rispettoso del nostro volere, della nostra libertà, della nostra assolutezza. Però vi è nascosto un rischio molto profondo, e cioè quello in fondo di trasformare il medico soltanto come un puro esecutore di una volontà in modo tale che lui si deresponsabilizza quasi totalmente nei confronti del suo paziente. Lui può sempre giustificarsi nel dire: "Io ho fatto quello che tu mi hai detto". Anzi, se il medico non dovesse compiere quello che il paziente gli ha chiesto, anche se l’effetto di ciò che il medico ha fatto fosse positivo, potrebbe essere denunciato. Il che diventa paradossale perché non posso dimenticare che, per una responsabilità del soggetto, anche se dobbiamo superare quel paternalismo di altri tempi quando il medico decideva quello che voleva nei confronti del paziente, non si può neanche trasformare il medico in puro esecutore.

Alleanza tra due soggetti
Ci sono due responsabilità in quella che dovrebbe essere un’alleanza tra due soggetti dove uno dei due si trova ad avere una parte preminente perché è in posizione verticale di fronte ad un altro che è orizzontale. Tuttavia non possiamo dimenticare che anche il medico ha una sua coscienza e quindi non posso chiedere al medico di eseguire qualsiasi cosa io gli chieda. Il testamento biologico ha un grosso significato dentro questa visione, in questo tipo di alleanza terapeutica, dove io posso anche determinare e decidere di assoggettarmi a certe cure o di rifiutarle, e ho tutto il diritto di poterlo fare, quando non ho la possibilità di intervenire con la mia volontà perché incosciente o altro, in qualche maniera io posso continuare quel tipo di alleanza terapeutica con il medico senza che egli venga totalmente deresponsabilizzato da quello che lui ritiene il modo migliore per curarmi in quel momento. Quindi è giusto che io esprima anche i miei desideri però non posso semplicemente imporre. La mia volontà diventa una linea guida, un orientamento che il medico è chiamato a seguire nel rispetto della mia persona ma anche nel rispetto della sua professione, del suo agire in scienza e coscienza.
Certamente le soluzioni estreme come l’enfasi posta sulla libertà del soggetto sono molto consone a un tipo di società come la nostra che sta diventando sempre di più una società di indifferenti. In una società come la nostra presenza vale in quanto svolgi qualcosa e non per quello che sei, per cui una società funzionale queste soluzioni sembrano ovvie. Questo è un grosso rischio.

Il diritto di vivere con dignità
Giriamo la medaglia, se da una parte è vero quello che ho detto, c’è anche da chiedersi: per il fatto che uno è venuto al mondo è comunque condannato a vivere in ogni situazione? Quanti si sentono, usiamo questa espressione, bene nei propri panni? Non possiamo dimenticare che c’è un diritto di vivere con dignità e c’è anche un diritto a morire con dignità. Il che vuol dire che, se deve essere condannata con forza l’eutanasia, con altrettanta forza e chiarezza deve essere condannato l’accanimento terapeutico, ossia tutto quegli interventi che, più che essere al servizio della vita, sono in qualche maniera un interferire con la morte. Nella dottrina della Chiesa questo è sempre stato affermato. Pio XII diceva che l’utilizzo di mezzi analgesici per alleviare il dolore se pur avessero come effetto l’accorciamento della vita del paziente, sono più che giustificati per poter dare al paziente stesso uno spazio di vivibilità umana, perché alcune sofferenze impediscono la possibilità stessa di poter vivere un minimo di relazione. Cosa dire però quando ci sono alcuni interventi che potrebbe prolungare la vita di una persona in situazioni però tali che sia per il paziente che per i parenti la condizione non sia più considerata umana o addirittura disumana.
Una volta le cose erano risolte in maniera piuttosto semplice, perché nella morale si distingueva tra mezzi ordinari e mezzi straordinari e si riteneva che tutti quelli che erano considerati mezzi ordinari dovevano comunque essere utilizzati per la persona, non erano doverosi i mezzi straordinari. Ma in quel contesto era considerata straordinaria anche la penicillina. Oggi sono diventati ordinari anche gli strumenti di rianimazione. Quella distinzione non ha più significato. Credo che sia più utile un’altra distinzione, se pur molto delicata, che è: mezzi proporzionati e mezzi sproporzionati in ordina al fatto di ottenere, a giudizio medico, una vita che abbia un minimo di conoscenza e di capacità relazionale. Se questa speranza non c’è bisogna avere il coraggio di riconoscere che la morte fa parte della vita. E dunque bisogna riconoscere che qualsiasi intervento che fosse attuato per continuare la vita del soggetto è semplicemente un interferire con la morte. Se noi oggi dovessimo adoperare tutti gli strumenti che abbiamo a disposizione per intervenire sui malati terminali paradossalmente creeremmo una umanità in parcheggio di morte.

Morire con dignità
La paura che noi abbiamo del limite, della fragilità, della debolezza ci porta a negare tutto ciò che è debolezza in noi. Per cui se da una parte è vero quello che ho appena detto, e per non interferire con la morte, la grandezza dell’uomo sta anche nell’accettarsi nella debolezza del morire. Morire che deve avvenire con estrema dignità, che abbia le caratteristiche di una morte che sia umana. Purtroppo, se la morte è solitudine, se la morte è dramma, qualche volta qualcuno oggi è costretto a morire due volte o tre volte perché è costretto a morire nella solitudine che fa assaporare tutto il dramma della morte avendone sottratto tutta quella grandezza che poteva avere una volta quando il letto del morente era un trono dal quale il paziente poteva ancora esprimere le sue ultime volontà, poteva avere la vicinanza delle persone care. Se avete un po’ di esperienza sapete quanto una persona, anche morente, riesca ancora tenerti la mano. Mi ha fatto sempre impressione questa cosa tanto che ci si domanda come fa a trovare quella forza. Vuol dire che c’è bisogno di vicinanza.

Cos’è la vita, che valore ha? Da dove deriva?
Se prendiamo in mano la Bibbia vediamo che è un dono di Dio. Ci sono immagini diverse. Sull’origine della vita. Per gli antichi la vita di un figlio era totalmente proveniente dal padre. Era il padre che generava il figlio perché era lui che dava il seme. La parola seme deriva dalla natura, se si prende un seme di qualsiasi specie e lo si mette nella terra germoglia. La terra e solo l’elemento passivo che lo fa crescere. Così si pensava della generazione umana e dunque il figlio è del padre, la donna era solo la realtà passiva che alimenta e fa crescere il figlio. Aristotele definiva la donna come un contenitore. Il padre è padrone del figlio, anche nella legislazione romana il padre aveva diritto assoluto sul figlio al punto che poteva esporlo nei primi otto giorni, poteva essere raccolto da chiunque, venduto come schiavo, mandata alla prostituzione se era ragazza, oppure il padre aveva il diritto di schiacciare il cranio al figlio. Abbiamo solo spostato i termini.
Nel rapporto educativo questo figlio doveva rispondere alle attese del padre. È bello vedere come la Bibbia accolga tutti i valori umani, perché i valori sono anzitutto umani non cristiani. Che cosa fa la Bibbia? Li riporta alla loro originaria bellezza. Non c’è un valore che non sia umano. Anche il perdono non è un valore cristiano perché la forza del perdono ricevuto e dato la può intuire chiunque. Forse è un po’ più fatica perdonare 70 x 7.
La storia di Abramo che riceve una promessa di discendenza numerosa come le stelle del cielo, come la sabbia del mare. Gli anni passano e i figli non arrivano, Sara porta la sua schiava Agar ad Abramo. Abramo ha un figlio da Agar ma è suo perché il seme è suo ed Agar è un utero in affitto.
Dio ritorna alla carica: "Ho promesso a te un figlio". Finalmente Abramo ha un figlio da Sara, sua moglie solo che, quando nasce Isacco, Abramo ha 100 anni e Sara è sterile, tutto questo per sottolineare che Isacco non è il frutto della capacità sessuale di Abramo ma è dono di Dio.
Questo significa che Abramo non può ritenersi il padrone di Isacco ma dovrà considerarlo come altro da sé. La vita di Isacco ha valore anche se fosse debole o indebolita, anche se avesse degli handicap non perché risponde ai sogni e alle attese di questo uomo e dell’uomo di questa cultura ma perché anche in quella debolezza è amata, è accolta, ha un senso, non è un caso per Colui che la ha donata.

Categoria "dono" e categoria "diritto"
Abramo deve rispettarla comunque anche se fosse debole o indebolita. Nel rapporto educativo Abramo non potrà esigere che Isacco risponda ai suoi sogni, ma deve solo educarlo, deve tirar fuori quello che c’è già nel figlio.
La differenza sta tra la categoria dono e la categoria diritto. Quando il rapporto diventa io–tu soltanto il rischio è sempre quello del potere, del dominio. Accettare che ci sia una Presenza che diventa mistero per cui l’altro comunque conserva tutta la sua importanza, solo così il rapporto con l’altro può avere la qualità di essere dono. Oggi, una volta che noi, nella nostra cultura abbiamo escluso la presenza di Dio corriamo il rischio che la categoria "diritto" subentri estremamente determinante. Io sono omosessuale, sono single, ho diritto di avere un figlio. Nei confronti dei figli tu non hai diritti. Preferisco dire che un bambino ha diritto di avere dei genitori ma i genitori hanno la speranza di avere un figlio, e anche chi dovesse adottare un figlio lo deve fare non con l’atteggiamento di chi pensa: ho anch’io "diritto". Benedette quelle tecniche che permettono di avere un figlio anche per quelle coppie che non lo possono avere purché lo facciano con questa mentalità. Anche nel caso dell’adozione è più corretto pensare che è un bambino che ha bisogno di una famiglia, noi siamo nelle condizioni di poter dare a un bambino una famiglia. Questo è l’atteggiamento che giustifica l’adozione.
La vita è dono, ma se vogliamo guardare per la Bibbia qual è il significato della vita biologica potremmo riassumere brevemente il tutto in alcuni principi. Per la Bibbia la vita è soprattutto un valore non strumentale perché la vita biologica, che abbiamo, è la condizione unica per poter vivere tutti i valori della nostra esistenza: per vivere la nostra relazione con gli altri. Se non ci fosse la nostra vita biologica non potremmo farlo, per vivere anche la nostra risposta unica e irrepetibile a Dio che ci chiama.

La vita biologica non è il bene assoluto
Dunque la vita è un valore non strumentale, ma nello stesso tempo per la Bibbia la vita biologica, fisica non è il bene assoluto tanto è vero che Gesù può donare la sua giovane vita al Padre per amore dei fratelli. Io posso anche sacrificare la mia vita per amore, la posso anche sacrificare per l’acquisizione di beni superiori. Se però io posso sacrificare la mia vita non potrò mai sacrificare la vita di un altro perché l’altro appare a me nella sua totalità soltanto attraverso la sua fisicità. Di fronte alla vita mia e dell’altro debole o sofferente il Dio della vita ci indica allora qualche criterio di comportamento, qualche criterio che illumini la nostra azione. C’è un criterio che può essere espresso in negativo, ed era stato espresso in negativo ancora all’origine dei tempi, secondo la Bibbia, quando Caino in modo ironico risponde a Dio: "Sono forse io custode di mio fratello?". Ho la sensazione che quella frase ironica nella bocca di Caino è diventata assolutamente plausibile nella bocca dell’uomo del nostro tempo. "Che cosa me ne importa a me dell’altro?" . Siamo inseriti in una società che definirei di soci, qualche volta di indifferenti, di funzionali. Di fronte a questa mentalità e a questa società Gesù ci ha indicato un altro modo di essere e di agire. Gesù è colui che si piega e tocca cose estremamente difficili con atteggiamento che è anche di rabbia, se volete, e di compassione nello stesso tempo. Gesù si piega sulla debolezza e che ci indica attraverso una parabola che poi è l’immagine di quello che lui è, la parabola del Samaritano buono, quale deve essere l’atteggiamento che dovrebbe caratterizzarci come persone: dall’essere indifferenti, "sono forse custode di mio fratello", all’essere prossimi.

Essere prossimo
La parola "prossimo" è il superlativo di proxse, proxsior, proxsimus. Non è vicino, neanche più vicino ma vicinissimo. E dove Gesù, dopo aver illustrato che cosa significhi essere vicini, attraverso quella parabola dove uno vede, uno ha compassione, uno si fa accanto, uno si carica, uno paga di persona,…alla fine, in maniera sorprendente e straordinaria, inverte tutto. E alla domanda che era stata posta risponde: "Chi è stato prossimo?". L’altro aveva chiesto: "Chi è il mio prossimo?". Il cristiano non è uno che ha il vicino e neppure uno che ha il vicinissimo ma uno che si fa vicino, anzi vicinissimo a tutte le situazioni di debolezza, di povertà fisiche, psichiche, morali che ci possono essere.
Da una società di indifferenti a una società di prossimità dove il volto dell’altro ancora conta, e dove anche il mio volto può avere un significato.Possiamo discutere all’infinito su tante cose e forse non ci caveremo un ragno dal buco perché possiamo affrontare con tira molla tutte le questioni senza arrivare a niente. Se ci fosse di più questo senso di prossimità forse anche quella coppia che stava aspettando un bambino, dopo che lei aveva contratto un virus con diagnosi di passaggio alla bambina, e non si sa come nascerà, quasi sicuramente con qualche handicap, se ci fosse una società di prossimità anche quella coppia potrebbe avere la forza di portare avanti quella gravidanza perché sanno che nella vita non resteranno soli. Ma in una società dove le uniche parole che continuano a sentire sono "siete criminali se non abortite", è ben difficile che quella gravidanza possa continuare. Se lo fanno occorre un eroismo. Ma con la pesantezza di giudizio che si dovranno portare addosso non avranno la solidarietà degli altri quando nascerà quella bambina ma solo la pesantezza del delitto. Lo stesso potremmo dire per quella famiglia che è chiamata a custodire quella persona che è anziana, allettata, ammalata.

Cambiamento di mentalità
Il grosso problema allora non è allora tanto quello del risolvere i casi concreti ma che tipo di cultura, di mentalità si sta caratterizzando. E anche, non ne ho parlato, nel caso del sofferente. In una cultura soltanto determinata dal fare, quando tu non puoi fare niente, e quando ti accorgi che sei soltanto di peso agli altri: "Ma che cosa sto a fare a questo mondo? Lasciatemi morire!". Se ci fosse una cultura di prossimità probabilmente anche quella persona potrebbe capire che la sua vita non è soltanto un peso ma potrebbe diventare un ministero e forse il ministero più grande perché potrebbe diventare una grande scuola per noi per imparare ad accettarci nel nostro limite, nella nostra fragilità. Quante volte abbiamo detto: "Basta andare all’ospedale per capire qualcosa!". Accettarci anche nel limite più drammatico che diventa occasione per crescere nel senso della solidarietà, nel senso di capire che dobbiamo piegarci verso qualcuno, e sicuramente un malato potrebbe capire che ha ancora un compito grande da svolgere. Il ministero che può essere della preghiera. Gli apostoli quando hanno voluto tenersi il ministero più importante, più necessario si sono tenuti il ministero della predicazione e della preghiera. Le tre ore di Cristo in croce che diventano per qualcuno 30 ore, 30 giorni, 30 anni, non possono essere le ore più inutili della vita. Se in quelle ore Cristo ha salvato il mondo anche la sofferenza dei nostri malati non può essere una cosa inutile, né per loro né per gli altri. Non esaltiamo la sofferenza, dobbiamo combatterla con tutte le nostre forze. Cristo non ci ha insegnato il vittimismo, ci ha insegnato a combattere la sofferenza, e ci ha insegnato anche, quando non c’è altra possibilità, ad accettare il mistero della sofferenza perché Dio non è lontano neanche da quella sofferenza, anzi qualcuno può scoprire Dio nella stessa sofferenza.