LA FAMIGLIA DI CREDENTI, CHIAMATA ALLA MISSIONE. EMOZIONIAMO?
Dal campo estivo a San Pietro Vallemina (TO), agosto 1996

Premessa
L'intento di questi spunti, su cui peraltro riflettere ad alta voce, col contributo di tutti, è dichiaratamente quello di cogliere il senso dell'essere" e del "fare" per una famiglia di credenti oggi, chiamata ad uscire da se stessa, per lasciare dentro e fuori di sé la traccia significativa di una novità.
La novità di un'esperienza religiosa nella fede, che non può restare chiusa nell'animo di ognuno ma che invece può diventare un dato comune, da vivere e proporre "insieme" cioè nella dimensione-famiglia. Il tutto ovviamente in questa nostra stagione umana, davvero inedita, soprattutto per la complessità che va evidenziando.
Si tratta di spunti che ricavo dal quadro complicato della società odierna in cui la famiglia è inserita e di cui risente i contraccolpi. Ma si tratta anche di indicazioni che riprendo da due testi di riferimento: la "Familiaris Consortio" e il Convegno di Palermo.

La chiave di lettura
Credo che vada preso estremamente sul serio l'approccio che ritrova all'inizio della "Familiaris Consortio", là dove si sollecita a guardare agli aspetti positivi e negativi, alle luci ed alle ombre della situazione in cui versa la famiglia, dentro il quadro sociale che si va facendo complesso, contraddittorio, tutt'altro che lineare, decisamente in movimento e rimescolato.
Questo atteggiamento di equilibrio mette al riparo da una tentazione ricorrente e strisciante, quella di sentirsi solo e sempre assediati (in quanto credenti) dal mondo d'oggi. Il cosiddetto "complesso dell'assedio" non sta giocando a favore dell'annuncio cristiano da rilanciare oggi, dentro sfide del tutto nuove ed imprevedibili.
Cogliere "luci ed ombre" invece significa stare dentro la storia di oggi con "simpatia", da figli del proprio tempo, a fianco di uomini e donne con cui compiere un tratto di strada almeno (su alcuni minimi valori condivisi).
Significa evitare la chiusura nella cerchia aurea di chi si ritiene perfetto.
Significa avere speranza e confidare nelle sorprese dello Spirito anche sotto i nostri complicati chiari di luna.
Significa stabilire dei ponti con gli altri, con i quali avere linguaggi veri e comprensibili e sentirsi nella stessa barca della vita, con problemi spesso identici da affrontare e con difficoltà pressoché medesime.
Significa fare un salto nel presente e nel futuro, evitando di restare zavorrati da nostalgie o miopie rispetto ad una cristianità che è tramontata per sempre: uno dei problemi o dei limiti più seri (e meno avvertiti) delle comunità cristiane di oggi, spesso anche perché frenate dagli stessi pastori, è quello di affrontare la realtà come se la secolarizzazione fosse di là da venire o come se riguardasse altri (accontentandosi di quegli ambigui "ritorni di fiamma" sul piano religioso che oggi impediscono o frenano quando c'è da reinventare una credibile proposta pastorale: questo avviene quando si pensa alla comunità cristiana come ad un dato scontato, anche solo per il fatto che qualcuno in chiesa viene ancora, per il fatto che la festa patronale raccoglie un po' di gente, per il fatto che a Natale e Pasqua sembra ci sia un risveglio, per il fatto che ci sono i sussulti talora anche massicci attorno a movimenti che entusiasmano, attorno a figure carismatiche ... ).
A mio modo di vedere il fermarsi a questi fenomeni e ritenersi appagati per quel che producono nell'immediato, non è saggezza evangelica che esige invece di assumere la sfida della indifferenza religiosa ripartendo dalla costruzione di forti, convinte, coraggiose e costanti esperienze di fede nella ferialità, accanto, in mezzo agli altri uomini e donne del nostro tempo.
Significa dare all'esperienza cristiana l'attualità di sempre, che è perennità vitale: insomma siamo, da credenti, i seguaci del Dio vivo manifestatesi nel Signore risorto, che non muore più, che rimane il Vivente. Il che vuoi dire che è contemporaneo di ogni uomo, anche oggi, nel postmoderno, nell'era informatica, nell'alluvione mass-mediale, nella complessità del nostro vivere sociale, nella mondializzazione dei problemi. Il volto della fede per essere vero non può che essere quello degli uomini e delle donne di questi decenni. A cui far credito delle gioie e dei dolori, delle fatiche e delle speranze che accomunano anche se talora inquietano o illudono.
Essere seguaci di Cristo comporta certo guardare indietro, alla sorgente, alla radice, ma per inglobarvi totalmente il presente ed il futuro. Insomma cogliere le "luci e le ombre" (non solo le une e non solo le altre) ci rende realisti, capaci di dialogo, in grado di proporre un senso alla vita stando gomito a gomito con tutti (senza pretendere di ritagliare per sé o per gli altri, quelle nicchie che sembrano mettere al riparo ma che non durano un granché agli urti inevitabili dell'ora presente).
Anche perché i problemi a cui si chiude la porta in faccia rientrano ben presto dalla finestra (magari anche drammaticamente). Pensiamo anche solo alle difficoltà educative per famiglie di credenti che si ritrovano, quasi di colpo, in affanno se non in rottura con il figlio o la figlia appena virata la boa dell'adolescenza.
E questa annotazione amara ma sperimentabilissima ci rende avvertiti su una questione di fondo, a cui prestare la massima attenzione. La complessità dell'oggi non è "fuori" od "esterna" alla comunità cristiana (ed in essa alla famiglia credente), ma è trasversale ad ogni realtà, ad ogni esperienza di vita, ad ogni persona. La stessa comunità cristiana, la stessa famiglia di credenti, lo stesso credente in prima persona... possono risultare spiazzati od incapaci a "gestire" contraccolpi, contraddizioni, scivoloni, sbandate... E così si vivono situazioni anche deludenti, perché ci si arrende, ci si perde, oppure si cerca un accomodamento dentro una coscienza che si allarga sempre più a fisarmonica (facendo star dentro tutto ed il contrario di tutto).
E probabile che la fede, dovendosi reinventare, su queste frontiere inedite, debba mettersi fortemente in discussione, riandando all'essenziale, scovando nuovi percorsi, persino sbagliando, andando "come a tastoni" (direbbe Paolo l'apostolo).
Mi soffermerei soltanto su alcuni "nodi" cruciali in cui il quadro culturale, sociale e quindi ecclesiale finisce per restare impigliato. Si tratta di alcuni passaggi stretti od obbligati, oltre i quali riemergere (potremmo dire) a testa alta, cioè con la consapevolezza di aver colto umilmente il positivo ed il negativo. Di aver cioè fatto uno sforzo per assumere l'oggi, evitando la pigrizia del rifiuto in blocco o l'acquiescenza a ciò che avviene attorno a noi. Cogliere il positivo ed il negativo è lo sforzo che vogliamo fare per andare oltre i fenomeni che ci toccano e magari ci inguaiano.

Emozioniamo?
In ascolto della Parola: "Potreste infatti avere anche diecimila pedagoghi in Cristo, ma non certo molti padri, perché sono io che vi ho generato in Cristo, mediante il Vangelo" (1 Cor 4,15); "Figlioli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore finché non sia formato Cristo in voi (Gai 4,19); "Invece siamo stati amorevoli in mezzo a voi come una madre nutre ed ha cura delle proprie creature" (1 Ts 2, 7); "Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte. Chiunque odia il proprio fratello è omicida, e voi sapete che nessun omicida possiede in se stesso la vita eterna. Da questo abbiamo conosciuto l’amore: egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli. Ma se uno ha ricchezze di questo mondo e vedendo il suo fratello in necessità gli chiude il proprio cuore, come dimora in lui l'amore di Dio? Figlioli, non amiamo a parole ne con la lingua, ma coi fatti e nella verità" (1 Gv 3, 14-18; 2, 9-11; 4, 7-13 20-21).
Uno dei tratti più evidenti della cultura odierna, cui tutti attingiamo perché è aria che respiriamo, e quello che vede protagonista il "frammento", cioè lo spicchio o lo spezzone di vita, da assumere in pieno come momento da spremere al massimo. Il frammento, di per se, è tale in quanto staccato, estrapolato, distinto da un filo di continuità. Il frammento sembra avere vita a se stante: una volta utilizzato, può sparire e sarà rimpiazzato da un altro frammento. L'attenzione posta oggi, con la lente di ingrandimento, sui momenti della vita, spesso staccati, discontinui, presi per proprio conto... non è subito da bocciare o da esorcizzare. È ambivalente, c'è del positivo e del negativo.
Il positivo sta nel valore assegnato all'oggi, a ciò che si vive e si sperimenta nell'immediato. La vita è poi quella di tutti i giorni, del presente, delle cose che accadono. Se si cerca di essere autentici nel frammento, si sta in una dimensione seria della vita. Che non viene presa alla leggera, ne viene interpretata come un insieme di parentesi, in attesa di grandi eventi. Tutti gli eventi, anche i più banali e semplici sono "grandi" ed importanti, perché sono i "nostri" eventi. Da credenti sappiamo che la fede non procede a sobbalzi, non è un abito della festa o delle occasioni di rilievo. La fede è esperienza di vita, sempre. In ogni frangente. Tutto ha valore, anche e soprattutto ciò che è feriale, nascosto, usuale...
Ma c'è anche il rovescio della medaglia: si può correre il rischio di perdere la memoria del passato, magari decidendo che ogni frammento dì vita va reinventato daccapo, al di fuori di un progetto complessivo, agganciato invece a quel che si prova e si vive in quel momento. La vita non procede a scatti. È una lunga storia. Non può essere abbandonata allo zig-zag, allo slalom tra i paletti che si spostano a piacimento, a ghiribizzo, a capriccio. E poi i quadri della vita non sono soltanto da giustapporre: oggi in un senso, domani in un altro (come avviene nel contrasto voluto ed esasperato o dello "zapping" televisivo). La vita come cocktail di attimi fuggenti anche se variopinti, però senza una logica, senza un disegno... può finire scombussolata e scombussolante, disorientata e disorientante.
Dentro il "frammento" trovano oggi un posto di primo piano le "emozioni", i sentimenti, i sogni, le storie, le relazioni... Ritorna in auge la tenerezza, si sente il bisogno di amicizie e di legami, si restituisce al cuore ed alle sue ragioni un ruolo trainante.
Il positivo sta nel recupero di questo dato non secondario dell'esistenza che è appunto quello di dar sapore delicato e forte alla vita, nutrendola di sentimenti che danno emozioni. Guai se dalle nostre giornate venissero espulsi i sentimenti, gli affetti, i legami. La vita non avrebbe gusto ne senso. Il ricordarsi ed il ricordare che l'esistenza è anche un intreccio forte e delicato di atteggiamenti che fanno vibrare il cuore non mette solo un po' di colore rosa nel quadro di ogni giorno ma rende vero il cammino feriale di ogni persona che è fatta per amare, per essere dono, per essere accolta, per ricambiare amore, per respirare amore.
Ma il negativo è dietro l'angolo ed è facilmente intuibile: non si vive di sole emozioni, che oggi ci sono e domani non più. Non è possibile ridurre la vita ad una questione di cuore che batte a sorpresa, all'interno di "storie" che stanno in piedi finché in misura più o meno imponderabile resiste il "feeling". La persona (propria ed altrui) è un mondo umano complesso, articolato, completo... in cui oltre al cuore, c'è la testa, c'è lo spirito, c'è l'animo, c'è un progetto, c'è un passato-presente-futuro, ci sono talenti, ci sono interessi, ci sono responsabilità, ci sono compiti, ci sono impegni...
Non si può giocare banalmente col cuore perché il gioco coinvolge le persone, che non vanno usate o ingannate (neppure se sembra esserci, lì per lì, un tacito assenso reciproco). Le emozioni ed i sentimenti sono intrisi di fragilità. Possono scolorirsi, possono perdere di vigore, possono esaurirsi. Se non sono nutriti e radicati in altra scelta di vita, che sia in grado di attivare nuove risorse e nuove ragioni per rilanciare i sentimenti, rendendoli veri, purificandoli nel "crogiuolo" delle difficoltà, dei tornanti in salita, della fedeltà a tutta prova.
Ma oggi sul piano delle emozioni si ritrovano anche altre controindicazioni: la fragilità non viene affrontata e superata guardandola in faccia, facendosene ragioni autentiche e credibili, risalendone alle radici ed alle cause e inserendo lì i rimedi più efficaci. Oggi la fragilità viene risolta dando ampio spazio alla debolezza personale di ognuno e quindi ricorrendo ad appoggi esterni che possono dar sicurezza nell'immediato, sgravando di responsabilità, proprio perché ci si affida a chi può dar certezze a buon mercato: i maghi, gli astrologi, i santoni, i guaritori... in un miscuglio di esperienze ed illusioni dove il religioso si abbina al superstizioso ed all'occulto. Ingenerando però ulteriori angosce e paure, non liberando ma rendendo sempre più dipendenti.
Un altro aspetto del prevalere e dell'imporsi oggi del "frammento" è quello che porta a richiedere e ad esigere giustamente la "motivazione di tutto": niente viene più accettato come scontato o come logico, si vuole capirne il perché. Questa esigenza si mescola però anche a macroscopiche contraddizioni, proprio sul terreno dell'essere convinti e motivati per comportarsi in un modo o nell'altro: infatti "le mode" oggi pesano enormemente, anche se poi si rivendica il diritto-dovere di essere consapevoli, autonomi, indipendenti, non succubi.
Il positivo è evidente e risiede nel desiderio, talora anche esasperato, di diventare padroni di se stessi, in grado di gestirsi con piena maturità, capaci di puntare ad un progetto di vita che si scopre e si fa proprio, aderendovi in tutta libertà, appunto perché è convincente e se ne resta convinti.
Il negativo invece sta nel non voler, spesso, riconoscere una sorgente di valori e di senso al di fuori di sé, contrapponendo la propria coscienza, la propria libertà, la propria autonomia al progetto di Dio (il quale non ci è estraneo, ne ci è padrone, ma ci è padre che ci ha creati a sua immagine e somiglianza). Il progetto di Dio è "esterno" fino ad un certo punto, in quanto siamo segnati dalla stessa vita. Il non percepire questo legame forte ed importante con Dio conduce a fare dell'uomo la misura di tutte le cose, facendolo "concorrente" di Dio stesso, rivendicando all'uomo la scelta del bene e del male. E questa scelta, tra bene e male, viene dettata dall'emozione del momento, senza agganci sicuri. Tutto ed il contrario di tutto può diventare possibile ed "accettabile": dal gettare i sassi dal cavalcavia dell'autostrada... al finire preda della droga, dal gestire i sentimenti con la leggerezza di chi coglie al volo l'occasione... al non distinguere più la portata dei legami (a più riprese, persino svariando nell'omosessualità...).

La missione
Rispetto a questi tre "nodi" (il frammento da cogliere fino in fondo, le emozioni che vanno e vengono, il volere la ragione di tutto) che missione ricade sulla famiglia dei credenti?
Ovviamente, si tratta di fare leva sul positivo, per evangelizzare innanzitutto "se stessa" cioè i componenti della famiglia. La "Fam. Cons." aveva coniato quello slogan, tuttora valido: "Famiglia, diventa ciò che sei", riproponendo ferialmente, con gesti, atteggiamenti, parole, scelte... quel clima che genera l'amore autentico, formando una comunità di persone, attingendo alla sorgente dell'amore di Dio che ha creato l'uomo e la donna perché non restassero soli ma perché comunicassero tra loro e comunicassero la vita. L'amore di Dio-Trinità diventa "normativo", "liberante", "rassicurante"... proponendo la logica del dono, sulla quale non si è mai ingannati. Là dove il dono è bacato, non c'è, ecco che si aprono varchi profondi alla sconfitta della famiglia. Il patto coniugale che va nutrito di emozioni, sentimenti, intensità, ragioni forti... ha senso compiuto se al centro sta il dono di sé ed il dono della vita. Il dono fa andare oltre le logiche mercantili, il dono non è possibile là dove ad incontrarsi sono solo due egoismi.
"Amare significa dare e ricevere quanto non si può ne comperare ne vendere, ma solo liberamente e reciprocamente elargire" (Lettera del papa alle famiglie, n. 10). Il dono, poiché gratuito, è il segno di una immensa apertura all'altro, senza ambiguità, senza riserve mentali, senza residui interessi. Ed in quanto tale crea un legame potente, coinvolgente, fino all'indissolubilità, fino a dire "per sempre". Due parole queste che oggi spaventano e che vanno in crisi alla prima difficoltà: forse perché alla radice non sta il dono limpido di sé, ma ci stanno ancora altri ingredienti che inquinano il legame, lo indeboliscono, lo mettono a repentaglio.
"Un simile dono obbliga molto più fortemente e profondamente di tutto ciò che può essere acquistato in qualunque modo ed a qualunque prezzo" (id. n. 11).
Anche il dono della vita, che lega le generazioni, contiene una vibrante forma di reciprocità: la nascita è il segno di un dono ricevuto ma contemporaneamente inscrive l'essere umano in una condizione di debito: il figlio che riceve in dono la vita è debitore nei confronti dei suoi genitori; ma anche i genitori hanno ricevuto a loro volta in dono la vita e sono a loro volta debitori nei confronti delle generazione precedente. La famiglia è perciò il luogo dello scambio affettivo tra generazioni, nel segno del dono, che diventa un vincolo dolce e forte.
Ma il tutto non è automatico: ogni giorno va rimesso in discussione e quindi in circolazione.
Tutti i membri della famiglia, ognuno secondo il proprio dono, hanno la grazia e la responsabilità di costruire giorno per giorno la comunione delle persone, facendo della famiglia una 'scuola di umanità' più completa e ricca" (Fam. Cons. n. 21). E se è scuola è anche esercitazione da svolgere, talvolta errore da correggere, spesso difficoltà ad apprendere. Non per nulla nella "Familiaris Consortio" si parla a più riprese di "comunione ricostruita", di "unità ritrovata", di spirito di sacrificio, di "pronta e generosa disponibilità di tutti e di ciascuno alla comprensione, alla tolleranza, al perdono, alla riconciliazione" (n. 21).
E chiaro che su simili frontiere, l'uomo e la donna di questa stagione post-moderna (senza più ideologie chiare e distinte dietro cui nascondersi o con cui avvilupparsi) trovano tutto più complicato. Pensano che il dono totale di sé annulli la propria libertà personale, vorrebbero emozioni e sentimenti senza legami profondi, vorrebbero sentirsi il principio e la fine del senso delle proprie azioni.
Anche il credente ne resta un po' contagiato.
Nella percezione seria di questa logica del dono possono trovar soluzione matura e responsabile le esigenze ed i ruoli diversi dell'uomo e della donna, del marito e della moglie, del padre e della madre... con le varianti del lavoro, delle incombenze casalinghe, del compito educativo... al di là di schemi prefissati che sembrano ricavati dall'esterno e non maturati all'interno della famiglia stessa che poi deve vivere le situazioni concrete.
La missione è quindi indirizzata a rievangelizzare la famiglia al suo interno, nella convinzione che sarà "buona notizia" già per il fatto stesso che si riesce a coltivare questi pensieri, queste esigenze, queste attese. La ricerca di questo stile poi non lascia indifferente la storia concreta in cui si è intrecciati ferialmente.
Qualcosa sempre trapela e quindi viene immesso dentro il circuito della vita, anche solo per il fatto che oggi sì crescono le situazioni di solitudine ma crescono anche paradossalmente le modalità di incontro pure tra famiglie. E nell'incontro si trasmette qualcosa di sé, soprattutto ciò che è più vero, ciò a cui si tiene di più, ciò che si persegue al di sopra di tutto. Se il "dono" è importante per chi lo vive, lo si scoprirà, anche dall'esterno. E inevitabile, per fortuna o... per grazia di Dio. E si evangelizza il "dono" già tra i parenti (magari i più "difficili" da coinvolgere), poi tra gli amici, poi tra i colleghi di lavoro, poi in parrocchia... I cerchi concentrici sono facilmente individuabili. Ognuno conosce (ma non del tutto) la capacità di penetrazione dell'evangelo del dono.
"La storia dell'umanità passa sin dall'inizio - e passerà sino alla fine - attraverso la famiglia. L'uomo entra in essa mediante la nascita che deve ai genitori, al padre ed alla madre, per abbandonare poi al momento opportuno questo primo ambiente di vita e di amore e passare al nuovo. 'Abbandonando il padre e la madre', ognuno ed ognuna di voi contemporaneamente, in un certo senso li porta dentro di sé, assume la molteplice eredità, che in loro e nella loro famiglia ha il suo diretto inizio e la sua fonte. In questo modo, anche abbandonando, ognuno di voi rimane: l'eredità che assume lo lega stabilmente con coloro che l'hanno trasmessa a lui ed ai quali tanto deve.
E egli stesso - lei e lui - continuerà a trasmettere la stessa eredità... Nei riguardi di questa eredità noi non possiamo mantenere un atteggiamento passivo od addirittura rinunziatario, come fece l'ultimo di quel servi che sono nominati nella parabola dei talenti. Noi dobbiamo fare tutto ciò di cui siamo capaci, per assumere questo retaggio spirituale, per confermarlo, mantenerlo e incrementarlo. Questo è un compito importante per tutte le società, specialmente forse per quelle che si trovano all'inizio della loro esistenza autonoma, oppure per quelle che devono difendere dal pericolo di distruzione dall'esterno o di decomposizione dall'interno questa stessa esistenza e l'essenziale identità della propria nazione" (Giovanni Paolo II, Lettera ai giovani nell'Anno Internazionale della Gioventù).
Don Andrea Avagnina (fine prima parte)