In parrocchia, in famiglia, sul lavoro
FEDE E VITA: COME CONCILIARLE?
"Essere in Cristo, vivere in Cristo come dei servi"

di Dario Berruto*
Un problema che quotidianamente incontriamo come cristiani è quello di collegare fede e vita. È un impegno che siamo chiamati ad affrontare nelle realtà che viviamo: in parrocchia, in famiglia, sul lavoro, perché è lì che siamo chiamati a rendere testimonianza, a restituire la fede che ci è stata donata.

Una questione complessa
La questione non è semplice, perché il tema è vasto e ricco di equivoci, diversità, ambiguità. Per restare nel pratico: di fronte alla mancata visita del Papa all'università della Sapienza a Roma ho raccolto opinioni contrastanti. Un gruppo di laici impegnati, in un incontro, mi diceva che il Papa non avrebbe dovuto accettare quell'invito. Un amico non praticante, docente all'Università, mi diceva invece che aveva deciso con la moglie di andare a Messa per solidarietà con il Papa.
Fede e vita è quindi un discorso complesso, e lo spazio a disposizione mi permette di indicare solo alcuni paletti per non smarrire quello che deve essere l'itinerario della nostra vita cristiana.
Fede è parlare della vita cristiana nella sua totalità: la fede, infatti, cammina sempre insieme a speranza e carità; "senza carità non sono nulla", ci ricorda Paolo (1 Cor 13,2).
Posso credere ma non sperare (p.e. nella vita eterna), posso credere ma essere avaro (cioè senza carità).
Cos'è la fede? La fede come virtù interpella la vita di ogni uomo sulla terra, nessuno può vivere senza fidarsi di qualcun altro (del medico, dell'amico, della moglie, dei genitori… mi fido di chi ha visto Cristo risorto).
In noi non c'è solo la conoscenza razionale ma anche la conoscenza che proviene dalla fiducia: in noi c'è un intreccio tra ragione e fede, perché fede e ragione sono inseparabili.

Cosa è per noi la fede?
In ambito religioso quando parliamo di fede cosa intendiamo? Solo credere in Dio? Oppure è anche fidarci di Lui? E in che misura?
La fede non può restare in un ambito intellettualistico, deve incarnarsi nella vita.
Quando a Gesù chiedono cosa fare per compiere le opere di Dio - p.e. nell'oggi: come fare Unità Pastorale in modo concreto? - Lui risponde: "l'opera di Dio è credere in Colui che il Padre ha mandato" (Gv 6,28-29).
Cosa significa per noi la parola fede? Non può essere solo credere in Dio ma deve essere qualcosa di più preciso: essere in Cristo, vivere in Cristo e con una modalità bene precisa: come dei servi.
Luca ci narra che appena dopo l'istituzione dell'eucaristia sorse fra i discepoli un litigio su chi era il più grande e Gesù, anziché mandarli a stendere, prova per l'ennesima volta ad educarli: "chi è il più grande, chi serve o chi è servito? Ma se io vi lavo i piedi voi dovete fare lo stesso" (Lc 22,24-27, Gv 13,14).
Se leggiamo con attenzione i Vangeli troviamo che Gesù ha stravolto i ruoli: Lui "Verbo Incarnato", sta con noi come colui che serve.
C'è un dato rivoluzionario che ha caratterizzato la fede in Cristo fin dalle origini: l'umiltà, come lo scambio tra primo e ultimo, non per il gusto di umiliarsi ma perché gli altri siano innalzati.
Agli inizi la condizione per governare la comunità cristiana era questa: veniva scelto chi era più aperto al servizio.
Cristo ha parlato poco della sessualità ma molto dell'umiltà, dell'essere umili: "imparate da me, che sono mite e umile di cuore" (Mt 11,29). Chi non rinnega la propria vita non può essere suo discepolo, chi non è disponibile a servire gli altri è meglio che cambi mestiere.

La fede nel quotidiano
Dunque: se credere è essere in Cristo come dei servi; come ciò si può tradurre nel quotidiano? Significa avere la consapevolezza di andare contro corrente, come i primi cristiani anche noi dobbiamo essere dei disadattati rispetto all' "impero" - da intendere oggi come pensiero unico segnato da potere e profitto - che ci circonda.
Tutto intorno a noi ci spiazza, è contro di noi.
I cristiani sono come stranieri e pellegrini in questo mondo, la loro patria è altrove.
Le parole chiave sono paroikía, pároikos, la parrocchia, i parrocchiani.
I cristiani sono concittadini dei santi e sono sulla terra come pároikos, pellegrini in terra straniera. La chiesa è ekklesía, convocata intorno al vescovo, e paroikía, che sta "presso le case".
Nella lettera a Diogneto si legge: i cristiani vivono come parrocchiani, cioè come stranieri e ogni terra straniera è la loro patria. Poi, a partire dal secondo secolo, con Ireneo, si è cominciato a chiamare le comunità parrocchie e il termine parrocchia ha cominciato a perdere il suo significato originario.
Parrocchia è comunque la comunità dei residenti in un determinato territorio che sanno che la loro vera patria è il cielo.
Dobbiamo organizzarci: essere in Cristo là dove la nostra vita respira.

Tre parole chiave
Come possiamo essere aiutati in questo compito? Abbiamo a disposizione tutta la Scrittura e poi ci sono tre parole che possono essere ottime cartine di tornasole per una verifica.
La prima è: "GRAZIE". Dire grazie è sapere che tutto quello che abbiamo ci viene donato e che siamo chiamati a restituire ciò che abbiamo ricevuto.
Se uno ci fa un regalo sentiamo il bisogno di ricambiarlo, non nell'ottica di pareggiare i conti ma per ricambiare il debito di amore che abbiamo contratto.
L'Eucaristia è il modo più importante che abbiamo per dire grazie a Dio e ai fratelli.
Ci rendiamo conto che in ogni eucaristia Cristo ci lava i piedi?
La seconda è: "PER FAVORE". Usare questa parola è riconoscere che chi ama non si impossessa di niente e di nessuno. Un servo è tipicamente colui che chiede, non colui che prende (cfr. Ap 3,20: "io sto alla porta e busso").
Dire "per favore" è riconoscere il donatore a cui ci rivolgiamo per chiedergli ciò di cui abbiamo bisogno. Il "Padre nostro" è un lungo "per favore" che noi rivolgiamo a Dio. Se non diciamo "per favore" viviamo da padroni.
"Per Favore" non è solo una questione di galateo ma riflette l'impianto di vita che abbiamo in noi. Ha detto uno scrittore: "Quando non si sente più dire ‘grazie’ e ‘per favore’ vuol dire che la fine è vicina". L'uomo è a rischio quando non usa più queste due parole; infatti, la morte si fonda su ingratitudine e superbia.
La terza parola è: "PERDONO", ti chiedo perdono. Se non sono più capace di chiedere perdono è perché penso che la colpa sia sempre degli altri e la vita diventa un continuo scaricabarile (cfr. Gn 3,11-13).
Queste tre parole vanno calate nelle nostre esperienze personali.
In famiglia, in parrocchia, sul lavoro siamo chiamati a essere in Cristo secondo la categoria del servo.
Essere in Cristo è anche riconoscere che Dio è Padre e quindi che io sono figlio.
Quella del servo è una categoria unificante, tutto l'agire di Gesù - che è maestro, guaritore, rivelatore del Padre, testimone (martire), si riassume nella figura del servo.
Deve diventare per noi una categoria mentale, in grado di cambiare la nostra vita.

* sacerdote, responsabile formazione del clero nell'Archidiocesi di Torino. Testo non rivisto dall'autore, rielaborazione della redazione.

BRANI PER LA LECTIO (ripresi dal testo):
1 Cor 13,1-13: l'inno alla carità;
Gv 6,26-40: il pane della vita;
Lc 22,24-27: chi è il più grande?;
Gv 13,12-17: la lavanda dei piedi;
Mt 11,28-30: il giogo di Gesù;
Ap 3,15-17.19b-20: la chiesa di Laodicea;
Gen 3,8-13: la caduta di Adamo ed Eva.

Domande per il lavoro di gruppo
IN FAMIGLIA
Sul tema della fede serve sapersi aspettare e rispettare. Infatti, nel nucleo famigliare ci possono essere delle diversità, percorsi non sempre lineari, arresti, ripensamenti.
Ognuno dovrà da un lato alimentare la propria fede personale e dall'altra condividere il passo degli altri.
Sarà importante tenere vivo il discorso religioso sulle cose che accadono nel mondo non solo con valutazioni critiche, ma con osservazioni positive che mostrino sempre amore (anche se, a volte, tribolato) nei confronti della Chiesa.
Capire quali sono gli elementi, nel campo della fede, a cui la famiglia vuole dare priorità. Per esempio: la centralità dell'Eucaristia, una breve preghiera prima dei pasti, attenzione verso i poveri riservando nel bilancio famigliare una voce (anche molto piccola) attraverso cui si viene incontro a chi è nel bisogno, coinvolgendo in questo impegno piccoli e grandi.
Da qui: come oggi in famiglia si può vivere il discorso della sobrietà?
E ancora: attenzione verso chi è malato, andarli a visitare. Sono occasioni in cui si possono ricucire delle relazioni parentali compromesse per i motivi più diversi.
Rispondendo positivamente a queste sollecitazioni, e ad altre che si possono individuare, si può diventare cristiani "alternativi", in grado di offrire una risposta di fede coerente a chi ci sta intorno.

IN PARROCCHIA
Quanto si è detto per la famiglia può essere trasferito anche in quella famiglia più grande che è la comunità parrocchiale.
Serve coltivare l'ospitalità e l'accoglienza. Accogliere significa, prima di tutto, un ascolto attento, capace di recepire le domande senza troppe pretese di saper dare risposte. Un servo ascolta prima di parlare!
Questo è il primo grande servizio della fede, anche perché oggi tutto si gioca nel campo delle relazioni personali.
La parrocchia, più che di iniziative, ha bisogno di credenti che sappiamo stare in mezzo alla gente e riescano ad intercettare i "dialetti" della persone come, dopo Pentecoste, tutti capivano il Vangelo!
Bisogna anche verificare se l'essere "servi" nella comunità non cozza a volte con quel serpentello (cfr. Gn 3) che si chiama protagonismo, eccessiva stima di se stessi, particolare attaccamento al proprio "orticello" (p.e. liturgia, catechesi, carità) con atteggiamenti di gelosia nei confronti degli altri.
Serve crescere nella comunione e nella condivisione.

SUL LAVORO
In una società basata sulla competizione la fede viene messa a dura prova. Serve mantenere una buona stima nelle proprie capacità e competenze ma, allo stesso tempo, non considerarle qualcosa di "strettamente personale", a cui gli altri non devono accedere. Nello stesso tempo saper aiutare gli altri, senza far cadere dall'alto la propria competenza.
Ciò comporta il rischio di essere scavalcati, superati, defraudati, scoprendo che la propria disponibilità viene usata contro di noi, è considerata una debolezza, un limite.
Essere "servi" nell'ambiente di lavoro significa anche farsi carico delle ingiustizie, avendo il coraggio di denunciarle, accettando il rischio di pagarne le conseguenze.
Il cristiano non può avere al primo posto la carriera a tutti i costi, ma l'attenzione nei confronti degli altri, siano colleghi, siano utenti.
La fede non è un valore da esibire, ma da vivere, con serietà e coerenza.