Foglio di collegamento tra Gruppi Famiglia
GF93 – marzo 2017
LE DIECI PAROLE DI DIO
la famiglia e i comandamenti

 

Lettere alla rivista

1-L’ATTUALITÀ DEI COMANDAMENTI

Parole che non rendono schiavi, ma liberi

 

I dieci comandamenti sanno di costrizione, di obbligo. Il messaggio di Gesù è invece un messaggio di salvezza e liberazione. Non riesco a conciliarli, mi può aiutare?

Carlo

 

Risponde mons. Giancarlo Grandis, Docente di Teologia Morale del Matrimonio

 

La sua domanda forse nasce anche da un problema linguistico di interpretazione della parola comandamento.

In realtà più che di “dieci comandamenti” si tratta di “dieci parole” (decalogo) che Dio stesso ha rivelato al suo popolo nel contesto del grande evento di liberazione dalla schiavitù dell’Egitto (cfr Es 34,28; Dt 4,13; 10,4). Esse sono collegate con l’invito a stringere con lui un patto di alleanza.

Osservare queste parole non è limitare la nostra libertà, ma orientarla a intraprendere un cammino che porta dentro a questo rapporto di alleanza e di amicizia con Dio, che non rende schiavi, ma liberi. Il senso profondo dei comandamenti lo ha rivelato Gesù.

Nel suo discorso programmatico sul monte delle beatitudini, Egli riprende la questione dei comandamenti, affermando che non era venuto ad abolire la legge e i profeti, “ma a dare pieno compimento” (Mt 5,17).

Esso consiste nel duplice e unico precetto della carità, in cui Gesù compendia tutto il decalogo.

L’esperienza dell’alleanza con Dio – di cui i comandamenti sono la modalità di viverla – e dell’amore viene percepita come un’esperienza di libertà e di pienezza di umanità.

Significative, a proposito, sono le parole di san Giovanni Paolo II: “L’uomo non può vivere senza amore.

Egli rimane per se stesso un essere incomprensibile, la sua vita è priva di senso, se non gli viene rivelato l’amore, se non s’incontra con l’amore, se non lo sperimenta e non lo fa proprio, se non vi partecipa vivamente”.

La messa in pratica dei comandamenti esprime l’orientamento di vita che uno assume come “risposta” all’iniziativa d’amore del Signore. “All’inizio dell’essere cristiano – afferma papa Benedetto XVI – non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva”.

I comandamenti orientano alla sequela di Cristo, l’agnello di Dio che ci libera dalla schiavitù del male (cfr Gv 1,29). Al “tale” che gli si avvicinò a chiedere che cosa dovesse fare per ottenere la vita eterna, Gesù risponde che era necessario osservare i comandamenti, ma poi aggiunge “vieni e seguimi” (cfr Mt 19,16-19)

grandis.giancarlo@gmail.com

 

Dialogo tra famiglie

2-NON NOMINARE IL NOME DI DIO INVANO

Quando Dio non risponde alle nostre preghiere

 

Ho pregato, ho invocato tanto il Signore, ma Dio non mi ha ascoltato e si è preso il mio caro marito.

L’ho davvero invocato invano!

Eleonora

 

Cara Eleonora,

Capisco (almeno ‘credo’ di capirlo perché non l’ho ancora vissuto sulla mia pelle!) che il dolore per una perdita così importante ti faccia credere di aver pregato invano e di sentirti delusa per non aver ottenuto quanti desideravi. Certamente pregavi con fede e con speranza, a momenti anche con disperazione, ma mi sento di ricordarti che, quando la preghiera è autentica, è un rapporto tu per tu col Signore per credere davvero nel Suo amore fino affidarsi a Lui “come un bambino appena svezzato in braccio a sua madre” (salmo 131).

Possiamo, anzi dobbiamo, chiedere quanto ci sta a cuore, ma l’ultima parola che deve emergere dal nostro cuore è quella di Gesù “sia fatta non la mia ma la Tua volontà”…

Il Padre ci dona la vita, l’accompagna e la richiama a sé: il nostro vivere si dipana tra questi due momenti essenziali, non siamo “padroni” di nulla, né della nostra vita né di quella degli altri, neppure di quella della persona che Lui ci ha regalato per fare un pezzo di strada assieme, neppure di quella dei figli a cui abbiamo pur collaborato con Lui!

Anna Lazzarini

P.S. Se permetti, vorrei segnalarti una preghiera che mi è cara fin dalla mia adolescenza e che mi ha sempre regalato tanta pace. La trovi qui:

https://gruppifamiglia.wordpress.com/2017/02/09/abbandonarsi-a-dio/

 

Editoriale

3-LE DIECI PAROLE

Le parole della libertà, contro ogni schiavitù

 

di Franco Rosada

La “colpa” della scelta di questo tema è di Roberto Benigni, e delle sue due serate che alla fine del 2014 ha dedicato in TV ai dieci comandamenti.

Ho quindi subito acquistato il testo del pastore Ricca (1) e quello di Ravasi (2), indicati dalla stesso Benigni, ma quando a inizio anno ho iniziato a imbastire il numero sono dovuto ricorrere alla biblioteca del Seminario di Torino, perché libri “semplici” in commercio sul tema scarseggiano. I comandamenti sembrano, a parte Benigni, non essere più “di moda”.

 

Ancora “di moda”?

Questa disaffezione può essere legata anche ad un certo modo di intenderli.

Per molti sono espressioni della cultura del “dovere per il dovere”, sono solo oppressivi, non portano alla salvezza ma sono solo una schiavitù.

Io penso invece che siano la via maestra senza la quale non è possibile una vita “sociale”; senza regole la società sarebbe dominata dall’anarchia (solo diritti, nessun dovere).

Ancora: sono una via di libertà, senza i comandamenti resta solo la legge del più forte, diventiamo schiavi delle nostre passioni, dei nostri idoli.

 

Dieci o undici?

Troverete di seguito i dieci comandamenti elencati in modo diverso da quello che siamo abituati a conoscere attraverso il Catechismo.

Troverete, infatti, un comandamento in più: “non ti farai idolo...” e quindi, per far “quadrare” i conti, il nono e il decimo comandamenti saranno trattati insieme.

La mia non è un operazione arbitraria ma segue il testo di Esodo (20, 2-17), quello seguito dal pastore Ricca nel suo libro, e adottato anche dalle “chiese ortodosse d’Oriente, dagli anglicano d’Inghilterra e d’America e dai cristiani evangelici di confessione riformata” (3).

Il motivo per cui noi cattolici abbiamo un elenco diverso è dovuto al fatto che noi seguiamo il testo dei comandamenti riportato nel Deuteronomio (Dt 5,6-21).

 

Tre più sette?

Anche la foto inserita in questo articolo non corrisponde alla nostra tradizione: anziché proporre la classica suddivisione di tre più sette, mostra cinque comandamenti per tavola.

Abbiamo imparato che le prime tre parole riguardano il nostro rapporto con Dio e le restanti il nostro rapporto con il prossimo. Ma vi sono due comandamenti che collegano insieme Dio e il prossimo.

Vi è una prima parola che riguarda un ragionamento sul sabato, momento in cui Dio e l’umanità si incontrano, e una seconda che raccomanda di onorare i propri genitori, attraverso i quali abbiamo avuto il dono della vita, dono che ci rimanda a Dio.

“Questa lettura sottolinea che Dio e l’umanità non sono semplicemente accostati ma c’è una dinamica che parte da Dio per andare verso gli esseri umani. In un ottica cristiana si potrebbe parlare di un movimento di incarnazione” (4). Anche la tradizione di Israele contempla la ripartizione di cinque parole per tavola, e individua inoltre una corrispondenza ordinata tra i comandamenti delle due tavole, p.e. tra il primo e il sesto e così via (5).

 

2x1000 alla Cultura

Passando agli argomenti che riguardano il Collegamento, vi segnalo che dallo scorso anno nella Denuncia dei redditi è possibile firmare per destinare il 2x1000 dell’IRPEF ad una associazione culturale. Ebbene, da quest’anno anche noi ci siamo iscritti nel registro del Mibac e quindi potete sostenerci come già fate per il 5x1000.

 

Campi estivi 2017

La situazione nell’Italia centrale è ancora precaria; le scosse sono ancora forti e, pur non facendo più notizia, si succedono ogni giorno. Di conseguenza il campo in Umbria quest’anno non si potrà svolgere. Stiamo valutando una soluzione alternativa ma i tempi sono molto ridotti.

A pagina 27 trovate il calendario dei campi sul cui svolgimento siamo praticamente certi. Troverete comunque il calendario aggiornato in tempo reale sul sito dei Gruppi Famiglia.

formazionefamiglia@libero.it

 

(1) Paolo Ricca, Le dieci parole di Dio, Editrice Morcelliana, Brescia  2014.

(2) Gianfranco Ravasi, I comandamenti, San Paolo, Cinisello (MI) 2014.

(3) O. H. Pesch: I dieci comandamenti, Queriniana, Brescia 1983.

(4) John di Taizé: Verso una terra di libertà, Messaggero, Padova 2005.

(5) M-A. Ouaknin: Il decalogo...; Paoline, Milano 2001.

A questi testi si fa riferimento in tutto il numero (vedi a pag. 28 la loro presentazione).

 

4-IO SONO

il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d'Egitto, dalla condizione servile:

Non avrai altri dèi di fronte a me.

 

A cura della Redazione

“Le dieci parole cominciano con ‘Io sono’, YHWH, quattro consonanti senza vocali – scrive Ouaknin – pronunciarlo ponendovi le vocali significherebbe saturare subito il suo significato: l’infinità e l’eternità di Dio verrebbero cinte nei limiti di una parola. Se volessimo tradurre YHWH bisognerebbe dire ‘Silenzio ha detto’, poiché il suo nome invita al silenzio, a trovare la porta d’ingresso in se stessi”.

 

Io sono

“Qual è il significato di questo nome enigmatico?” continua Ouaknin. E spiega: “Certo, il Tetragramma è ‘l’Essere’ ma, in primo luogo, è una parola muta, che non lascia sentire nulla, se non il silenzio stesso.

I maestri del Talmud ci insegnano che, se combinate, le quattro consonanti permettono di scrivere ‘presente, passato, futuro’. Il Tetragramma non è il nome di Dio ma l’apertura alle tre dimensioni del tempo! L’essere è il tempo! Allora YHWH si potrebbe tradurre con ‘Io sono colui che è, è stato e sarà’ In questo modo la dimensione infinita di Dio entra nella Storia.

 

La libertà

Il secondo elemento di questo primo comandamento è la libertà.

“Dio chiama i suoi fedeli a lasciare dietro di loro il vecchio ordine e intraprende insieme a lui un pellegrinaggio verso la terra della libertà” scrive frère John. “Per fare questo cammino occorre un impegno totale, un sì che coinvolge tutto il proprio essere, tutta la persona, un sì che le permette di lasciare il mondo conosciuto per andare con fiducia verso una terra promessa e ancora sconosciuta”.

“Libertà significa assumersi il rischio di essere se stessi – commenta Ouaknin – ogni uomo in definitiva deve diventare redentore del mondo e di Dio. Si tratta di imparare a guardare ogni volta il mondo con uno sguardo nuovo, di dare ad ogni gesto, fosse anche il più semplice, freschezza e importanza tanto da rendere la vita più gustosa e feconda. In definitiva guardare e vivere la vita presente a partire dalla Redenzione”.

Questo comandamento e gli altri che seguono, riprende frère John, “non cercano di definire l’insieme della vita ma piuttosto i parametri che rendono possibile la libertà.

Per la loro stessa natura lasciano aperto uno spazio per la nostra libertà e per l’attività dello Spirito di Dio.

Se proviamo a chiederci perché lo spazio di libertà non è senza confini e bisogna che esso si scontri con un limite, la risposta è che questo limite rappresenta l’Altro, le relazioni che sono essenziali per l’esercizio della libertà nel mondo reale.

Senza questo limite saremmo rinchiusi per sempre in un universo auto referenziale, prigionieri incoscienti del nostro io”.

 

Libertà e legge

Emerge qui il ruolo della Legge. Scrive a questo proposito Ricca: “Quello che questo comandamento mette in primo piano è il rapporto tra libertà e Legge, Non abbiamo più nessun imperativo, nessun signore, nessun padrone, nessuna regola, nessuna legge, che non sia quella di Dio. La libertà è ubbidienza a Dio soltanto.

Ma c’è sempre nell’uomo l’idea che per essere liberi bisogna non avere nessuno e che la prima libertà è quella di liberarsi di Dio.

Invece la Bibbia ci dice che non è così. Dio non è colui che ci toglie la libertà ma colui che la re-inventa, e ce la ri-dona continuamente.

Non credo, in fondo, che l’uomo ami del tutto la libertà: l’uomo la ama e la odia allo stesso tempo. Quando l’uomo è schiavo ama la libertà. Ma quando ce l’ha non sa più cosa farne: questo è il nostro grande paradosso”.

Su questo terreno, continua Ricca “Le Chiese non sempre sono state luogo in cui si è proposta questa libertà. In fondo hanno preferito sostituire la libertà con l’obbedienza”.

Bisogna però riconoscere che anche nella Chiesa “ci sono stati storicamente varchi in cui si è fatta esperienza di libertà” annota Pietro Cota, in dialogo con Ricca. “Penso all’irruzione dei carismi, che sono la forza dello Spirito, che fa nascere esperienze di libertà all’interno della Chiesa. Penso a San Francesco d’Assisi. Penso alla Chiesa post-conciliare”.

 

Altri dei

“Questo Dio che ci ha fatto uscire dalla condizione di schiavitù ci ordina di non servire altri dèi. L’adorazione di altri dei è dunque implicitamente descritta come il ritorno ad una condizione di schiavitù” riflette frère John. “Per noi questo significa non tanto seguire altre fedi religiose ma soprattutto le realtà che ci sono umanamente più vicine, come la ricchezza, la riuscita, l’efficacia, il potere.

Le parole dell’alleanza ci rivelano un Dio che ci invita a metterci in cammino, superando i vincoli e le trappole di un’esistenza su questa terra, non perché il mondo sia malvagio in sé, ma perché il cuore umano è fatto per qualcosa di più grande”.

“Questo comandamento ci dice: abbandonati a me, e non a qualcosa d’altro che non meriti la tua fiducia!” ci ricorda Pesch. “Solo io, non gli altri dei, possiedo ‘emozioni umane’, posso ascoltarti, comprenderti, sostenerti, guidarti, amarti. Quando viene al mondo e quando muore, l’uomo sa di non essere debitore di un caso strano e neppure di una malignità diabolica, ma dell’amore di Dio stesso.

‘Non avrai altro Dio al di fuori di me’ significa: lascia che Dio sia la fonte e il fondamento della tua vita. Certo, i nostri idoli non sono più statue di oro o di argento, sono tutte le cose da cui ci attendiamo la pienezza di vita”.

 

Camminare con Dio

“Potremo così riassumere questo comandamento: non allontanarti da Dio” continua Pesch. “Questo vuol dire fare nostra la sua Parola per tradurre nell’esperienza quotidiana la peculiarità della nostra fede in Dio, fare riferimento a Lui quando dobbiamo prendere una decisione, scegliere tra il bene e il male, tra l’amore e la durezza di cuore.

Ci possiamo allontanare da Dio anche vivendo alla giornata, come persone che non contano su di Lui, disperandoci di fronte alle avversità della vita. Osservare questo comandamento significa vivere sapendo che la nostra vita è, nonostante tutto, qualcosa di molto buono, anche se qualche volta non si presenta affatto come tale.

Ci possiamo allontanare da Dio anche quando ci mostriamo ingrati, quando in tutte le cose scopriamo soltanto il lato oscuro e in tutti gli uomini vediamo soltanto le manchevolezze.

Osservare questo comandamento significa vedere fondamentalmente il lato buono delle persone e delle cose, avere occhi per gli innumerevoli doni che Lui ogni giorno tiene in serbo per noi, e che noi spesso trascuriamo; in altre parole essere riconoscenti.

Ci possiamo allontanare da Dio anche quando pensiamo che conti soltanto quello che noi facciamo, che l’aiuto di Dio vada meritato e guadagnato con l’impegno. Osservare questo comandamento significa riconoscere che davanti a Dio non conta l’opera ma l’uomo, non tanto il dinamismo ma saper ricevere e il lasciarsi donare”.

“A questo punto – conclude Pesch – possiamo comprendere come l’osservanza del comandamento ha il suo centro nella preghiera, in tutte le sue forme: nella lode, nell’adorazione, nel ringraziamento, nel lamento, nella confessione delle colpe”.

 

Per il lavoro di coppia e di gruppo

• Crediamo e coltiviamo la libertà o preferiamo l’obbedienza?

• Ricchezza, riuscita, efficacia, potere: quanto ci condizionano?

• Ci sono momenti in cui ci lasciamo vivere, non coltiviamo la speranza?

• Gli altri sono solo “brutti e cattivi”? Sappiamo sorridere?

• Siamo sempre i “più bravi”, o ci sappiamo riconoscere peccatori?

 

5-NON TI FARAI IDOLO

né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo, né di quanto è quaggiù sulla terra, né di quanto è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io, il Signore, tuo Dio, sono un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, ma che dimostra la sua bontà fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti.

 

A cura della Redazione

“Questa seconda parte del primo comandamento è in genere un po’ trascurata nella tradizione cattolica, mentre ha un peso fondamentale in quella ebraica” scrive la Caramore, curatrice del libro di Ricca. “Di certo, in un mondo dominato dalle immagini come il nostro diventa difficile capire questo divieto”.

 

Le immagini

“Nel mondo antico, numerosi popoli rappresentavano la divinità con statue, in generale con figure del mondo animale” scrive frère John. “Al contrario il Dio d’Israele rifiuta di essere racchiuso in un’immagine di quel tipo. Infatti, se Dio è il creatore non può essere confuso con nessuna delle immagini accessibili alla percezione umana.

Inoltre, la pretesa degli uomini di fare un’immagine di Dio è un modo per ridurre Dio a oggetto della comprensione e della padronanza umana”.

Infatti, “nell’antichità si riteneva che l’immagine non fosse semplicemente una riproduzione della divinità, ma fosse una parte di quella divinità” precisa Ricca. “Per cui possederne l’immagine significava in qualche misura possedere Dio, mettere le mani su di Lui, farne, appunto, un idolo”.

“Il divieto di farsi delle immagini di Dio – evidenza Pesch – non è tanto legato al fatto che Dio è spirito, e quindi non può essere rappresentato come un oggetto materiale, ma perché Dio è di natura talmente diversa da quella di questo mondo. Mentre le cose di questo mondo sono a nostra disposizione, non così Dio. Egli è libero e, anche quando si lega irrevocabilmente al suo popolo mediante l’alleanza, egli rimane sempre il libero Signore del suo popolo, colui cioè che questo popolo non può in alcun modo piegare al servizio dei suoi desideri”.

 

Il “nostro” Dio

Ma siamo sicuri di non essere più idolatri? “Fino a che punto ci facciamo un’immagine di Dio che in realtà è la personificazione dei nostri interessi?” si chiede Pesch.

E continua: “Ci creiamo, per esempio un Dio ‘Lascia-fare-a-me’, che risolve i problemi che noi stessi dovremmo risolvere; oppure un Dio ‘Io-comprendo-e-perdono-tutto’ che copre con il mantello della sua misericordia tutto quello che noi facciamo di male; oppure il Dio ‘legge-e-ordine’ che permette di respingere tutti coloro che non riescono da soli a tirarsi fuori dal fango; oppure il Dio ‘gliela-faccio-vedere-io’ che castiga coloro che sono contro di lui”.

E conclude: “Se non siamo assolutamente autocritici la nostra fede, nonostante la più fervorosa pietà esteriore, si può trasformare nel suo contrario, in ateismo”.

 

Un Dio geloso

‘Io sono un Dio geloso’ è una frase che  inevitabilmente colpisce.

“Si tratta di un cosiddetto ‘antropomorfismo’, cioè di una raffigurazione di Dio ricorrendo a caratteristiche umane” scrive Ravasi. “Il Signore è intransigente ed esclusivo (l’idea è desunta dal tema dell’amor proprio, della passione per una ‘proprietà’, oltre che dal linguaggio amoroso), non tollera che la sua ‘eredità’ più preziosa, l’uomo, gli sia alienata e passi sotto altri padroni”.

“La gelosia di Dio – aggiunge Ricca – non è che l’amore che si accentua nel rapporto esclusivo con colui che Dio ama, in questo caso Israele. Non ha una connotazione negativa di possesso ma indica un vincolo d’amore”.

 

4 contro 1000

“Quello che colpisce è l’immensa sproporzione tra la punizione e il favore” continua Ricca. “Dio è geloso, perché è appassionato dell’uomo e del rapporto con l’uomo e si sbilancia continuamente in suo favore, pur di suscitare nell’uomo stesso una qualche risposta”.

“Ai nostri giorni – annota frère John – non verrebbe in mente a nessuno di imputare una responsabilità morale a individui a causa di azioni compiute dai loro antenati.

Ma, se questo modo di pensare ci è estraneo, tuttavia ci interpella, in quanto la nostra società occidentale è segnata da un individualismo ad oltranza. Ci ricorda infatti la legge della solidarietà.

Sappiamo bene – continua frère John – che nelle famiglie dove i genitori hanno problemi che non riescono a risolvere, questo ‘malessere’ si riversa, in un modo o nell’altro, sui figli. E lo stesso vale per la società. Un paese che ha attraversato anni di corruzione non può ricostruire in un giorno un tessuto sociale sano, semplicemente allontanando i responsabili disonesti.

E, come ci ricorda il pensiero ecologista, sono i nostri bambini che dovranno pagare il prezzo delle nostre abitudini ad un consumo sfrenato che inquina il pianeta”.

“Infine – conclude frère John – questi versetti ci dicono che, nell’universo creato da Dio, il bene e il male non stanno sullo stesso piano. Se il male ha delle conseguenze dolorose [quattro generazioni] esse sono poca cosa di fronte all’immensità dell’amore divino [mille generazioni]”.

“Questo comandamento – osserva Ravasi – è un atto di accusa contro l’indifferenza in cui vive la società del benessere. Dio non è combattuto o cancellato, ma semplicemente dimenticato e ignorato. È i trionfo di un ateismo comodo e superficiale che rifiuta i grandi orizzonti, che fa abbandonare l’ansia della ricerca e l’inquietudine della coscienza per occuparsi solo di interessi limitati”.

 

L’immagine lecita

“Questo comandamento è un invito alla conoscenza di Dio” continua Ravasi. “Il ‘conoscere’ nella Bibbia è il verbo dell’amore sponsale: una conoscenza, quindi, fatta di intelligenza, di volontà, di passione, di sentimento e di azione.

Questo comandamento è un invito a scoprire, dietro l’aspetto fragile e persino odioso del prossimo, il profilo di Dio. Dobbiamo amare l’uomo, ‘immagine di Dio’ e luogo dell’incontro vivo con Dio”.

Questa idea è comune anche a Pesch, che scrive: “Dove possiamo allora trovare l’immagine di Dio? Nell’unica creatura che, nella Scrittura, viene detta continuamente ‘immagine di Dio’, nell’uomo.

Cercare e trovare nell’uomo l’immagine di Dio ci preserva da ogni fossilizzazione. Gli uomini sono sempre diversi e sorprendenti e ci pongono continuamente di fronte a interrogativi e compiti nuovi. Ed è proprio in questa esigenza di essere disponibili alla sorpresa che dobbiamo trovare il Dio inesauribilmente misterioso”.

Anche Ricca è sulla stessa lunghezza d’onda: “Tutte le immagini che ci possiamo fare su di Lui sono errate tranne forse una: quella dell’uomo. L’essere umano è l’approssimazione maggiore che abbiamo sulla realtà misteriosa di Dio. Solo guardando gli altri con gli occhi di Dio possiamo vedere negli altri questa immagine possibile, che poi in Gesù è diventata anche reale.

Credo di poter dire che mentre l’uomo è l’immagine perduta di Dio, Gesù è la sua immagine ritrovata”.

 

Per il lavoro di coppia e di gruppo

• Siamo tentati, a volte, di piegare Dio al servizio dei nostri desideri?

• Quali sono i nostri ‘idoli’? Quando ci comportiamo da idolatri?

• Siamo ‘gelosi’ di nostra moglie? Di nostro marito?

• Quanto facciamo pesare ai figli i nostri problemi di coppia?

• Sappiamo guardare gli altri con gli occhi di Dio?

 

6-Non pronuncerai INVANO

il nome del Signore, tuo Dio, perché il Signore

non lascia impunito chi pronuncia il suo nome invano.

 

A cura della Redazione

“Rispetto al comandamento precedente, in cui il divieto delle immagini è radicale – scrive Ricca – qui il divieto è relativo. Perché puoi adoperare il nome di Dio, ma non ne puoi abusare.

Gli ebrei per paura di pronunciare questo Nome invano, non lo pronunciano affatto. Il fatto che non lo pronuncino vuol dire, in sostanza, che Dio è al di là di tutti i nomi che gli possiamo dare. A questo proposito c’è una bellissima riflessione rabbinica: ‘Il nome di Dio non si può pronunciare perché tutti i nomi che si danno a Dio possono essere il suo’ ”.

 

Il nome di Dio

“Il nome di Dio richiede infinito rispetto” riflette frère John. “Nella Bibbia, come nella maggioranza delle civiltà tradizionali i nomi sono estremamente significativi. Rivelare il mio nome ad altri è un gesto che ha conseguenze importanti: è come se rivelassi una parte di me stesso.

Anche il nome di Dio non sfugge a questa logica. È per questo che Mosè, nell’episodio del roveto ardente (Es 3,13-14), chiede a Dio di rivelargli il suo nome. Con questa domanda, egli voleva disporre di un’arma potente per la sua missione. Ma il nome che Dio gli rivela: ‘Io sono colui che sono’ pone il Signore al di là di ogni tentativo umano di delimitazione. Dio non può mai essere posseduto, dominato e utilizzato come mezzo”.

Commenta Ravasi: “Il nome che Dio comunica a Mosé più che una rivelazione è una sorta di velamento, poiché il nome di Dio è ignoto e inafferrabile, proprio come il suo essere misterioso”.

“Nelle religioni dei popoli confinati con Israele – spiega Pesch – se si conosceva il nome di un Dio si poteva anche ‘scongiurare’ quest’ultimo, cioè renderlo docile ai propri desideri”.

Probabilmente ciò consisteva, scrive frère John, in “formule magiche con le quali gli uomini cercavano il dominio sul mondo attraverso la manipolazione di una potenza sovrannaturale”.

“Il più grande motivo di orgoglio per Israele – riprende Pesch – consisteva proprio nella conoscenza del nome del suo Dio: Jahwé. Ma Israele poteva anche ‘scongiurare’ il suo Dio, come facevano i pagani? È in questa situazione che nasce il comandamento, che vieta di servirsi del nome di Jahwé per compiere gli stessi scongiuri dei pagani.

Infatti, il Dio di Israele si è rivelato come colui al quale l’uomo può affidarsi in ogni istante della sua esistenza e quindi non c’è bisogno di conquistarsi la sua bontà con strane pratiche religiose”.

 

Invano

“Il nome di Dio è adoperato invano tutte le volte che è associato alla violenza” scrive Ricca. ”Questa è una storia tragica, i cui esempi abbondano: dalle Crociate all’Inquisizione, da una certa evangelizzazione missionaria alla benedizione degli eserciti”.

Lo nominiamo invano, continua Ricca, “tutte le volte che si usa il suo nome per coprire un vuoto, come potrebbe essere un uso rituale, un insieme di formule che si pronunciano per tradizione, per abitudine, ma senza la fede necessaria per dare a queste parole la verità che esse contengono”.

“Quando si pensa a questo comandamento” scrive Ravasi, “si va con la mente ad un comportamento ancora molto diffuso che è quello della bestemmia. Prima ancora che una questione teologica, la bestemmia è ai nostri giorni un problema di stile, di umanità matura e dignitosa”.

La bestemmia può essere una forma di ateismo ma, osserva Ricca, “per chi ha un rapporto con Dio, prendersela con Lui nei momenti di delusione, di rabbia, (cfr Giobbe) è simile a quello che accade nella vita di una coppia, dove possono anche volare parole pesanti, ma sempre all’interno di un legame, che è più forte della bestemmia stessa”.

 

Gli idoli

Ravasi fa notare che “la parola ‘invano’ in ebraico corrisponde a ‘vuoto, vano, inutile’ che è anche una parola con cui si indica l’idolo. La vera bestemmia è quindi scambiare il nome di Dio con il nome ‘vano’ di una cosa inutile ed impotente”.

E continua: “Ai nostri giorni movimenti, sette, gruppi religiosi offrono una specie di fitness dell’anima, una sorta di Dio vano e ‘comodo’, che però alla fine risulta impotente e pericoloso, certamente incapace di salvare.

Ma la contemporaneità propone molti altri idoli appariscenti e clamorosi che portano il nome di tecnologia, finanza, potenza, piacere, consumo, pubblicità che hanno sempre alla base l’auto-adorazione dell’uomo. Scriveva Erich Fromm. ‘L’idolo è privo di vita, Dio è vivo. La contraddizione tra idolatria e il riconoscimento di Dio è, in ultima analisi, tra l’amore per la morte e l’amore per la vita’ ”.

 

Il potere

Un altro aspetto di questo comandamento, scrive Pesch, “riguarda l’esercizio del potere. Ci sono persone che provano un grande piacere nel poter dare un ordine che tutti sono tenuti ad eseguire.

Come sarebbe allettante per questi soggetti poter anche dire: io esercito questo potere in nome di Dio!

Nei tempi passati i re, ma anche i tiranni, designavano la loro autorità come ottenuta ‘per grazia di Dio’ e ancora oggi certe decisioni politiche vengono presentate come ‘cristiane’ come se ciò potesse evitare ogni forma di opposizione”.

Ma questi atteggiamenti riguardano anche noi, continua Pesch. “Quante volte agiamo in base al principio: inchinarsi davanti a chi sta in alto e dare un calcio a chi sta sotto di noi, quante volte vogliamo imporci nei confronti dei figli, del coniuge, dei vicini, sono per il piacere di esercitare il potere.

Ma il vero esercizio del potere in nome di Dio significa: fedeltà contro l’infedeltà, amore anche contro l’odio, riguardo anche contro la mancanza di rispetto, pazienza e serenità contro eccitazione e confusione. Dio stesso ci ha fatto vedere le estreme conseguenze di questo comandamento: nella croce di Gesù Cristo. È questo l’unico potere che abbiamo dalla nostra parte. Ma questo potere ha sconfitto la morte e, con essa, ogni potere di questo mondo”.

 

Non vano

Per fortuna, c’è anche un modo non vano di usare il nome di Dio.

“Ci sono due usi che mi sembrano molto importanti per il nostro tempo” annota Ricca. “Il primo è l’uso del nome di Dio per perdonare. Io credo che il perdono sia in fondo la chiave dell’esistenza, perché fa sì che il torto, subìto o compiuto, non richiami vendetta, ma spezzi la catena del male.

Il secondo uso proprio del nome di Dio è simile al primo e consiste nell’adoperare il Suo nome per la riconciliazione, riconciliazione tra popoli, tra religioni, tra Chiese, una riconciliazione che presuppone naturalmente condivisone, partecipazione”.

Un modo certo non vano di usare il nome di Dio è la preghiera.

Questo è vero, scrive Ricca, “ma solo se preghiamo con fede, ponendoci davanti a Dio e dialogando con Lui, altrimenti le nostre sono solo parole vane”.

“Per questo, all’inizio della preghiera che Gesù ha insegnato ai suoi discepoli – commenta frère John – ha detto loro di pregare perché il Nome di Dio sia santificato (Mt 6,9).

In altre parole, pregando il Padre Nostro chiediamo che tutti possano scoprire l’identità di Dio attraverso l’esistenza di coloro che sono stati toccati da lui e che cercano di rendergli testimonianza. Nella misura in cui permettono a Dio di diffondersi tramite la loro vita, essi comunicano agli altri il suo vero nome”.

 

Per il lavoro di coppia e di gruppo

• Siamo superstiziosi? Ci capita di ripetere ‘gesti’ scaramantici?

• Quanto pratichiamo la preghiera e i sacramenti per fede e quanto per abitudine?

• Non si bestemmia quasi più, ma quante parole sconvenienti, sboccate usiamo?

• Ci piace comandare? Ci piace imporci sul lavoro e in famiglia?

• Pratichiamo il perdono e la riconciliazione?

 

7-Ricòrdati del GIORNO DEL SABATO

per santificarlo. Sei giorni lavorerai e farai ogni tuo lavoro; ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: non farai alcun lavoro, né tu né tuo figlio né tua figlia, né il tuo schiavo né la tua schiava, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te. Perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra e il mare e quanto è in essi, ma si è riposato il settimo giorno. Perciò il Signore ha benedetto il giorno del sabato e lo ha consacrato.

 

A cura della Redazione

“Questo è il primo comandamento che non consiste in un divieto, ma comincia con una indicazione positiva” scrive Ricca. “È anche il comandamento più lungo di tutti quanti, è anche molto dettagliato, e questo attesta la sua importanza”. Inoltre “Questo comandamento si colloca in un punto strategico del decalogo – continua Ricca – perché fa da cerniera tra la prima tavola, che riguarda i nostri rapporti con Dio, e la seconda tavola, che riguarda i nostri rapporti con il prossimo”.

Frère John invece annota: “Questo comandamento ci dà una prescrizione in senso positivo, ‘ricordati’, e nello stesso tempo ci viene detto di astenerci dal lavoro senza tuttavia dirci come trascorrere la giornata. Se ne cerchiamo la ragione riceviamo dalla Bibbia due spiegazioni radicalmente differenti”.

“Nel libro dell’Esodo – prosegue frère John – il sabato è giustificato per ciò che Dio ha fatto creando l’universo (cfr Gn 2,2). Nel libro del Deuteronomio, invece, si mette il sabato in rapporto con l’azione liberatrice dalla schiavitù in Egitto. Sebbene il lavoro sia la condizione normale degli esseri umani, il peccato lo trasforma in un gravame duro e alienante (cfr Gn 3,17-19)”.

“Attraverso questa liberazione periodica dal lavoro – conclude frère John – Israele si ricorda dunque che Dio l’ha tratto dalla schiavitù alla libertà”.

 

Il riposo

“Il giorno del riposo – sottolinea Ricca – è quello in cui tu ti riposi, cioè in cui tu non sei più protagonista, e apri degli spazi in modo che l’altro entri nel tuo orizzonte: sia l’Altro con la A maiuscola, che è Dio, che l’altro con la a minuscola, che è il prossimo”.

E continua: “Uno dei sensi più profondi del comandamento è proprio quello di rendere possibile all’uomo di stare con se stesso. In questo modo, nel giorno del riposo, si viene a comporre il triangolo biblico della santità: io, Dio, il prossimo”.

Sulla stessa linea si muove Ravasi che scrive: “Il giorno festivo è un tesoro; è una scintilla di luce deposta nel grigiore dei giorni feriali; è un seme che feconda la terra del lavoro, è uno sguardo verticale capace di interrompere l’orizzontalità della nostra visione comune e continua”.

 

Il culto

“Certo, c’è sempre il rischio di isolare sacramentalmente il giorno festivo in un’aura di incensi e di prescrizioni legali” prosegue Ravasi. “Il riposo, invece, non deve essere fine a se stesso; tra il tempio e la piazza della città non ci deve essere una barriera isolazionista ma un soglia attraverso la quale scorra il vento dello Spirito che unisce sacro e profano”.

E continua: “ ‘Santificare la festa’ è, quindi, prima di tutto santificare se stessi, sostare per contemplare Dio e per penetrare nella propria coscienza”.

“Dio non ha bisogno per sé del nostro servizio religioso” chiosa Pesch. “Noi invece ne abbiamo bisogno, per comprendere meglio perché non lavoriamo la domenica”.

 

Il lavoro

Se noi guardiamo indietro, nel tempo in cui questo comandamento è stato dato, troviamo due modi diversi di intendere il lavoro.

“Nel mondo greco – scrive Ricca – il lavoro era per gli schiavi. E un uomo libero era libero in quanto era libero dal lavoro manuale, ed era libero per il lavoro intellettuale, per la filosofia, per la politica. La situazione era diversa per il mondo ebraico, dove il lavoro era generalizzato. La grande novità dell’Antico Testamento è proprio l’invenzione del sabato, e cioè l’interruzione del lavoro” che rappresenta una grande novità culturale.

“Nel racconto della creazione in Genesi – prosegue Ricca – si dice che nel settimo giorno anche il Signore si è riposato. Questa è una bellissima metafora per dire il fare di Dio non esaurisce il suo essere. Dio è di più del suo fare, di più delle sue opere. Il riposo di Dio ci fa comprendere che Dio è anche se non fa. Questa cosa si riferisce anche a noi uomini che siamo fatti ad ‘immagine e somiglianza’ di Dio. Per cui il senso che può acquistare il giorno del sabato è quello di farci smettere di fare per cominciare ad essere”.

Pesch a sua volta annota: “Questo comandamento non ci chiede soltanto di santificare il sabato con l’astensione dal lavoro ma anzitutto di lavorare sei giorni. Non possiamo fare diversamente ma è importante dare un significato al nostro lavoro, che è la partecipazione attiva all’attività creatrice di Dio nel mondo. Il lavoro, quindi, ha una dignità unica anche se spesso, per colpa dell’uomo, diventa corvée o uno stress”. E conclude: “Siamo, come cristiani, chiamati a collaborare a tutti quegli sforzi tesi ad ‘umanizzare’ il mondo del lavoro”.

 

Il sabato oggi

“Questo comandamento sembra andare proprio contro la nostra civiltà, non a caso chiamata ‘civiltà del lavoro’, che tende ad identificare l’uomo con ciò che fa, con la sua professione” annota Ricca. E poi si pone una domanda: “Cosa succede quando non hai più il tuo ruolo? Sei ancora o non sei?”

Anche Pesch pone una serie di domande pratiche: “Siamo capaci di riposarci veramente, in modo da acquisire nuove energie, oppure ci rifugiamo in ogni specie possibile di impegno che, in pratica, non ci libera dalla nervosità della settimana?

Siamo capaci di fare ‘silenzio’ e di ascoltare le voci più sommesse del nostro cuore, della nostra nostalgia, delle nostre speranze, dei nostri problemi, oppure abbiamo paura di questa voci e cerchiamo di sopraffarle con ogni sorta di rumori?

Siamo capaci di incontri liberi e gratuiti in famiglia e con gli amici, vivendo momenti di comunione oppure le persone che incontriamo non sono altro che mezzi per distrarci?

Riusciamo ad avere realmente tempo per noi stessi, per il prossimo, per le cose ‘belle’ ma in pratica ‘inutili’ oppure abbiamo addirittura paura del tempo, al punto che pensiamo di doverlo ‘ammazzare’?”.

 

Un giorno santo

“La ragione essenziale per osservare il sabato – conclude frère John – è che si tratta di un giorno santo, cioè che appartiene a Dio. Dio mette il proprio segno anche sul tempo che scorre; egli conserva un giorno per sé, come suo bene personale.

L’osservanza del sabato è una maniera cosciente per mettere in pratica la prima parte dei comandamenti, di riconoscere quel Mistero unico che chiamiamo Dio e il cui richiamo assoluto rende possibile un’esistenza pienamente umana.

Solo il riferimento a una dimensione fuori da noi stessi ci permette di rompere il giogo di schiavitù che ci lega all’opera delle nostre mani. Ancora un volta la Bibbia ci dice che non possiamo liberarci con le nostre forze e la libertà è sempre un dono, nella misura in cui noi prestiamo attenzione a una chiamata che viene da altrove”.

 

Per il lavoro di coppia e di gruppo

• Santificare la festa è anche santificare noi stessi. Sappiamo farci questo dono?

• La domenica, come coppia e come famiglia, ci riposiamo o cerchiamo di avere mille impegni?

• Stimiamo le persone per quello che sono o per la posizione che occupano?

• Come operiamo per combattere la precarietà, l’insicurezza e la disumanità di certe forme di lavoro?

 

8-Onora TUO PADRE e TUA MADRE

perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che il Signore, tuo Dio, ti dà.

 

A cura della Redazione

Questo comandamento, nella tradizione cattolica e luterana – premette Ricca – inaugura la seconda tavola, quella relativa ai nostri rapporti con il prossimo. La prima grande affermazione che Dio fa, a proposito del prossimo, è che il nostro primo prossimo sono i genitori”.

 

Obbedire o…

“Quando da bambino studiavo il catechismo questo comandamento occupava quasi tutto lo spazio disponibile” scrive frère John. “Ne veniva data una sola interpretazione, senza ambiguità: si leggeva ‘obbedisci a tuo padre e a tua madre’ ”.

Però “questo comandamento non è rivolto ai bambini – precisa Ricca – per imporre loro delle regole o per colpevolizzarli quando disobbediscono, ma ai figli adulti: onora i tuoi genitori anziani, sostienili nella loro fragilità”.

 

…riconoscere

Infatti, continua Ricca, “per quanto importanti possiamo essere o diventare, non saremo mai più importanti dei nostri genitori, perché senza di loro tu non ci saremmo e quindi non ci sarebbe neanche la nostra importanza e la nostra grandezza.”

“Onorare i genitori significa riconoscere il nostro debito verso di loro, riconoscere che noi non siamo gli autori della nostra vita” precisa frère John.

“In senso ampio, significa riconoscere il nostro debito verso i nostri simili, senza i quali noi non saremmo le persona che invece siamo”.

“Quindi l’ingiunzione di onorare i propri genitori – conclude frère John – va applicata innanzi tutto al modo di agire verso gli anziani (cfr Mc 7,9-13)”.

 

Una benedizione

Ravasi annota che questo comandamento “insieme al comandamento del sabato, è esposto in forma positiva, a differenza degli altri precetti presenti nel decalogo, martellati da un severo ‘Non’ seguito dall’imperativo della proibizione. Inoltre è l’unico comandamento seguito da una benedizione: la vita lunga e felice”.

Questo tema è ripreso da Paolo nella lettera agli Efesini: “Onora tuo padre e tua madre… perché tu… goda di una lunga vita sulla terra” (6,2-3).

“Detto in altri termini – spiega frère John – quando saremo vecchi e incapaci di gestire la nostra vita, dovremo contare su coloro che avremo cresciuto. Essi agiranno verso di noi seguendo l’esempio che noi stessi gli avremo dato con il nostro comportamento verso i nostri anziani”.

“Questo tema è ripreso anche dal Talmud – scrive Ouaknin – che afferma: il tempo donato per occuparti dei genitori ti sarà reso integralmente. Agendo così investi nel tempo, che è esattamente il senso della promessa: ‘perché si prolunghino i tuoi giorni sulla terra che Dio ti dà’. Dal momento che questa promessa non ha solo un significato simbolico, essa non si riferisce solo al mondo futuro, ma a questo mondo e a questo tempo”.

 

Il dono del tempo

“Questo comandamento – conclude  Ouaknin – potrebbe essere riassunto così: imparare ad offrire del tempo all’altro, non solo agli anziani. Spesso è facile offrire oggetti inutili a chi li riceve; ma il tempo dedicato agli altri non è inutile”.

Inoltre, sottolinea Ricca “Per noi figli il tempo, la storia e la memoria coincidono con quella dei nostri genitori, nel senso che più indietro la nostra esperienza diretta non va”.

Quindi, conclude Pesch, “Nel colloquio con i genitori e le persone anziane non dovremmo perdere nessuna occasione per ammirare il modo con cui hanno speso la loro vita”.

 

Il dono della vita

“L’onorare i genitori è riconoscere anche la nostra creaturalità, il dono della vita che abbiamo ricevuto, l’atto di amore di Dio” ci ricorda Ricca, un Dio che ha un volto paterno e materno (cfr Os 11,4).

“Per essere riconoscenti verso i propri genitori, ‘onorare’ gli anziani – scrive Pesch – è necessario considerare la vita e la realtà come qualcosa di buono, e cioè riconoscere la presenza del Dio che, attraverso il padre e la madre, ci fa dono di questa vita buona e ci concede di dispiegarla in questo mondo e in mezzo agli altri uomini, ponendola sulla via del suo inimmaginabile compimento”.

 

Essere figli

Il problema, sottolinea Pesch è che “oggi i giovani cercano la loro ‘felicità’ senza ‘onorare il padre e la madre’ perché lo spirito del tempo è caratterizzato ‘dall’illusione della gioventù e dal disprezzo di vecchi’ (J. Bodamer)”.

Non si può risolvere l’argomento anziani come una questione tecnico finanziaria di sicurezza sociale; comunque “non si dovrebbero mai trattare le persone anziane con aria di condiscendenza – conclude Pesch – quasi si trattasse di bambini che non capiscono niente nella vita”.

A volte i genitori possono non essere degli dell’onore che il comandamento richiede. Come ci si deve comportare?

“Rispettare il padre indegno significa dare peso al padre che non è stato o non ha potuto essere” spiega Ouaknin. “Si tratta di ‘riconoscere ai genitori il diritto alle loro mancanze, alla loro storia. Ma significa anche non trascorrere la vita a rimediare quella che sembra essere una mancanza della delle loro esistenze’(Daniel Sibony)”.

 

Essere genitori

Come abbiamo appena visto, il comandamento riguarda anche i genitori. “I genitori, rispetto ai figli – scrive Ravasi – incarnano la generazione precedente con i suoi valori che devono essere trasmessi ed attualizzati. Per questo è grave la responsabilità del genitore come maestro: egli non deve lasciarsi tentare dallo scimmiottare i giovani ignorando la sua missione.

‘I genitori’ ha detto il Concilio vaticano II ‘devono essere per i figli i primi maestri nella fede’ (LG 11)”.

I genitori sono chiamati a trasmette i valori in cui credono ma anche lasciare liberi i figli nelle loro scelte.

“Il peggiore delitto di cui i genitori possono macchiarsi – scrive Pesch – è di non permettere ai figli di vivere la propria vita. Il fine dell’educazione non può mai essere quello di formare i bambini a immagine e somiglianza dei genitori, ma piuttosto quello che essi trovino e percorrano la loro strada, aiutandoli, se è il caso, ma disinteressatamente, anche se questa non dovesse corrispondere alle aspettative dei genitori”.

In sintesi “la colpa più grave dei figli è quella di vivere come se i genitori fossero già morti” commenta Ricca. “La colpa più grave dei genitori è quella di vivere come se i figli non fossero ancora nati”.

 

Socialità e solidarietà

“Il comandamento sui genitori è soltanto la punta di un iceberg. La famiglia, infatti, rappresenta anche altre forme di comunità e di autorità, soprattutto la comunità del popolo” scrive Ravasi citando Josef Becker. E continua “In questa luce il precetto esalta il diritto-dovere di partecipare alla costruzione di una società armonica e giusta”.

“Ancora una volta – conclude frère John – le dieci parole tracciano per noi il ritratto di un mondo di solidarietà, di una società dove nessuno è al centro, ma dove tutti ricevono e danno a loro volta”.

 

Per il lavoro di coppia e di gruppo

• Nell’educare i nostri figli/nipoti quanto conta l’ubbidienza?

• Quanto ci prendiamo cura dei nostri anziani?

• Riconosciamo ai nostri genitori l’importanza che hanno avuto per la nostra vita?

• Accettiamo, come genitori, le scelte dei nostri figli anche se non corrispondono alle nostre aspettative?

• Sappiamo accettare i limiti che l’età ci impone o desidereremmo ritornare giovani?

 

9-NON UCCIDERE

“Non fare tutto quello che puoi”

 

A cura della Redazione

“Il sesto comandamento apre la seconda delle tavole della legge” scrive Ouaknin. “Secondo i maestri il sesto comandamento è in relazione con il primo, che apre la prima tavola: ‘Io sono il Signore tuo Dio…’. Ecco perché i commentatori rabbinici dicono: ‘non uccidere significa non uccidere il modo particolare con cui l’Eterno tuo Dio si è rivelato, e ha detto io sono’.

Solo l’uomo può dire ‘io sono’ ” continua l’autore. “Lo può dire perché, rispetto agli altri animali, ha ricevuto in più la conoscenza, l’emozione e la parola”.

Inoltre “L’ ‘io sono’ non è mai solo, di fronte a lui c’è sempre un ‘tu’, l’uno non esiste se non in rapporto all’altro; sono inseparabili pur restando separati, poiché l’intervallo che li divide non può essere superato”.

“Quando la distanza si annulla – constata Ouaknin – l’uno finisce per assorbire l’altro, col rischio costante di commettere ingiustizia e crudeltà, un “omicidio” potenziale” che nel caso di Caino e Abele si è trasformato in un omicidio reale. “Il loro discorso era fatto di non-parole – conclude l’autore – un silenzio carico di tale violenza da portare all’omicidio (cfr Gn 4,8a)”.

 

Caino e Abele

“Il messaggio che riceviamo dal racconto di Caino e Abele – annota frère John – appare chiaro: quando gli uomini rompono la relazione con Dio, anche le relazioni tra di loro non hanno più nessuna definitiva garanzia.

Adamo ed Eva, dopo il rifiuto di seguire la parola divina, hanno visto la loro iniziale unità degenerare, in vergogna, accusa reciproca e disaccordo.

Il racconto di Caino e Abele porta questa logica al culmine: un fratello uccide l’altro fratello per gelosia.

D’altra parte, ogni assassinio non è sempre, di fatto, una specie di fratricidio?”.

Ma c’è di più. “In questo racconto – continua frère John – troviamo per la prima volta l’idea della spirale della violenza. Dopo il suo crimine Caino dice a Dio: ‘Ecco tu mi scacci oggi da questo suolo e io mi dovrò nascondere lontano da te… e chiunque mi incontrerà mi potrà uccidere’ (Gn 4,14)”.

“Lasciare la terra della libertà, questo spazio che è sotto la protezione divina – conclude frère John – vuol dire essere fuori dalla legalità.

Senza una legge data da Dio per definire e regolare il comportamento umano prevale la ‘legge del più forte’ ”.

 

La guerra

“Ciò che questo comandamento condanna in modo inequivocabile – scrive Ravasi – è l’azione violenta su un soggetto privo di difesa, ma ci sono nell’Antico Testamento casi in cui le uccisioni non sono condannate ma, anzi, sono raccomandate: pensiamo alla cosiddetta ‘guerra santa’ che comprendeva la strage e la distruzione dei nemici o ancora alla ‘legge del taglione’, che all’offesa risponde con l’offesa proporzionata e all’omicidio con un altro omicidio.

È stato spiegato a più riprese dagli studiosi – continua l’autore – che questi limiti dell’Antico Testamento sono legati ad un dato fondamentale della Bibbia: essa non è una collezione di tesi teologiche e morali ma la storia di una manifestazione di Dio all’interno delle vicende umane.

Il progressivo sviluppo di questo comandamento verso la condanna di ogni uccisione a violenza raggiungerà il suo vertice con Cristo”.

Purtroppo, sottolinea Ricca, “nella storia cristiana è stata elaborata prima una ‘teologia della guerra’ che una ‘teologia della pace’. Quando la Chiesa è stata integrata nel sistema imperiale di Roma, è stato quasi inevitabile trovare delle argomentazioni per legittimare in qualche maniera la ‘guerra giusta’ ”.

Queste sono oggi disquisizioni ormai obsolete, precisa Ravasi, “ma restano ancora da comporre le parole di Gesù con la tradizionale dottrina della legittima difesa. I principi devono essere ‘incarnati’ nella concretezza dei casi che spesso sono molto intricati e complessi.

Così si può ammettere una reazione di difesa nel caso in cui essa sia l’unica strada possibile per impedire l’aggressione, l’ingiustizia, l’oppressione: l’atto violento è finalizzato non a punire l’aggressore ma a farlo desistere e a bloccarlo”. E conclude: “Riconosciuta la legittimità di questo comportamento è però necessario per il cristiano ribadire con forza il principio dell’ ‘amare il nemico’ e quindi della non-violenza. Anche se apparentemente ‘utopica’, la non-violenza è, in realtà, molto più efficace di quanto politici e militari vogliono farci credere”.

 

La vita

Se un certo tipo di omicidio ci sembra legato alle pagine di cronaca nera, vi sono altre situazioni dove la dimensione umana viene messa in discussione.

“Che un uomo possa disporre di un altro uomo, che egli possa fare violenza e abusare del suo potere e delle sue possibilità non vi è alcun dubbio” scrive Pesch. “Ma egli non deve fare tutto questo, in altre parole, non deve fare tutto quello che può fare.

In quest’ottica “il cristiano non potrà mai ammettere l’aborto eccetto il caso limite in cui, a seguito a complicanze mediche, si deve interrompere la gravidanza per salvare la vita della madre”.

Lo stesso discorso vale per l’eutanasia. “Ciò equivale a disporre della vita di un uomo – annota Pesch – quando sappiamo che soltanto Dio è il padrone della vita e della morte. Ma vi è anche il diritto dell’ammalato grave di morire la sua propria morte. Se la morte è certa, il cristiano ha diritto a trasformare il suo morire nell’ultimo atto di fede e ciò prevale sul prolungamento puramente fisico della vita”.

 

La quotidianità

Ma la prevaricazione del più forte sul più debole intesse in realtà tutta la nostra vita.

“Questo comandamento ci impone una scelta” ci ricorda frère John: “vogliamo una società fondata sulla violenza, oppure una società radicata nella reciproca solidarietà? La violenza o la solidarietà: ecco l’alternativa che ricompare sotto una moltitudine di aspetti nel nostro quotidiano esercizio di vivere insieme sulla terra”.

Uno di questi aspetti è il ricorso alla pena di morte. Per Ricca “non è lecito ricorrervi mai, perché si tratta di un atto irreparabile”.

Ravasi, a questo proposito ci ricorda “che ancor oggi è praticata in ben 76 stati, tra i quali spiccano Cina e Stati Uniti. Anche la vita del criminale è sotto la giurisdizione esclusiva e suprema di Dio , proprio per il carattere trascendente dell’uomo e della donna, creati a ‘immagine e somiglianza di Dio’ (Gn 1,26-27). Contro le tentazioni forcaiole che stanno risorgendo ai nostri giorni, anche in Italia, bisognerebbe ricordare ai credenti le parole divine riferita dal profeta Ezechiele. ‘Io non godo della morte di chi muore’ (Ez 18,32)”.

Un altro di questi aspetti è “la mancanza di rispetto nei confronti della vita fina al punto di distruggerla. Pensiamo –scrive Ricca – alla sofisticazione dei cibi, all’inquinamento ambientale, che produce l’inquinamento degli alimenti, alla diffusione della droga: che vende droga vende morte, nulla di diverso dalla morte”.

“Pensiamo alla produzione di armi” continua Ricca. “Le armi uccidono prima ancora di essere adoperate: il fatto stesso di produrle e di impegnare delle somme ingenti per gli armamenti, priva l’umanità di risorse immense, che potrebbero evitare la morte di innumerevoli creature umane”.

“Ce poi un ultimo volto dell’uccidere che sicuramente è il più nascosto” conclude Ricca.

“Parliamo dei molti delitti incruenti, magari consumati tra le mura domestiche, in cui non si versa sangue ma si uccide qualcosa di una persona: si può uccidere un sentimento, una passione, la dignità, la giovinezza di qualcuno, e lo strumento utilizzato è la parola.

Ma si può uccidere anche uccidere con l’indifferenza, con l’umiliazione”.

 

Per il lavoro di coppia e di gruppo

• Il nostro amore rispetta l’altro o tende alla simbiosi, all’annullamento delle differenze?

• Ci capita di giustificare certe situazioni in cui si pratica la violenza?

• Sul tema dell’aborto ci limitiamo alla deprecazione o operiamo concretamente per la vita?

• Siamo rispettosi dell’ambiente o ci preoccupiamo solo di ciò che succede nel nostro “cortile” di casa?

• Ci rendiamo conto di quanti modi incruenti abbiamo per “uccidere” il nostro prossimo?

 

10-Non commetterai ADULTERIO

“Puoi amare di un amore irrevocabile”

 

A cura della Redazione

“La definizione di questo comandamento che noi tutti abbiamo in mente – scrive Ravasi – non corrisponde all’originale biblico. Infatti, per noi suona come ‘non commettere atti impuri’, oppure, tornando indietro nel tempo ‘non fornicare’. Il concetto era, comunque, sempre chiaro: siamo in presenza della cosiddetta morale sessuale”.

“In realtà – precisa l’autore – il precetto contenuto in questo comandamento non si riferisce all’area sessuale generale ma a quella specifica del matrimonio nel contesto della cultura maschilista dell’antico Vicino Oriente. Una cultura in cui la donna è sfavorita e la presunzione di colpa cade prima di tutto su di lei”.

“Nel contesto di allora, ‘non commettere adulterio’ – scrive Ricca – significa che non puoi toccare una donna che appartiene ad un altro uomo. Ma questo non vale per le donne libere, per le schiave, e non è neanche un divieto alla poligamia”.

“Perché allora l’estensione successiva a tutta la morale sessuale?” riprende Ravasi. “Perché il matrimonio è considerato dalla Bibbia come il simbolo di tutte le relazioni interpersonali. La Bibbia, infatti, considera la coppia maschio-femmina alla base della sua antropologia”.

 

La famiglia

Da qui si muove anche la riflessione di frère John: “Dopo la tutela della vita, la seconda realtà che Dio vuole proteggere è la coppia, più precisamente ancora, la famiglia. L’espressione di Genesi ‘saranno una sola carne’, in ambito ebraico non si riferisce in particolare all’atto sessuale. Una traduzione più fedele sarebbe ‘diventeranno una sola [nuova] realtà umana’, una nuova unità familiare.

Dio utilizza l’atto con il quale due esseri umani fanno una libera scelta, promettendo di impegnarsi uno verso l’altro per sempre, come fondamento per l’origine e lo svilupparsi della vita umana”.

E conclude: “Se Dio si impegna a fianco degli esseri umani che si consacrano nel matrimonio, siamo allora di fronte ad un gesto irrevocabile. L’atto creatore di Dio non può essere annullato dai capricci della comportamento umano”.

 

L’adulterio

Ma, ahimè, nel nostro tempo il capriccio la fa da padrone e “l’adulterio è diventato per molti una ‘scappatella’ divertente, una ‘trasgressione perdonabile’ ”, scrive Pesch.

Proprio per questo, “questo comandamento è il più complicato – commenta Ricca – perché appare il più datato, in quanto sembra appartenere ad un mondo che non è più il nostro. Non solo l’adulterio non sembra più una colpa grave, ma ormai è proposto a volte come terapia per coppie in crisi, che hanno perso il gusto dei rapporti coniugali.

Così l’adulterio non ha più rilevanza sociale, pur continuando ad essere un dramma, ma un dramma privato”.

 

La fedeltà

“Una simile crisi di valori – riflette frère John – ci mette soprattutto di fronte alla necessità di capire ciò che sta alla radice di ogni relazione pienamente umana, non solo relativamente alla coppia.

Se l’essenza di una relazione sta nella continuità e nella stabilità di una vita comune, rifiutando questi principi non si può parlare di relazione. Io devo poter contare sul fatto che domani l’altro ci sarà per me come c’era ieri e c’è oggi. Questo consenso alla continuità nel tempo è un impegno, una promessa. Abbiamo bisogno di credere che, in seno alle vicissitudini della storia personale e collettiva, ci sia la presenza di ‘qualcuno’ che resti uguale a se stesso. Un mondo senza impegno e senza fedeltà è un mondo non umano, o meglio disumano”.

 

La genitorialità

L’assenza di fedeltà corrisponde, secondo Ouaknin, ad un assenza di responsabilità.

“Io penso – scrive l’autore – che un uomo e una donna commettano adulterio quando il rapporto che li lega rende loro impossibile rispondere del futuro di un figlio che potrebbe nascere dalla loro unione. Detto in altro modo, in questo comandamento si pone subito il problema del figlio adulterino, ossia delle conseguenza che l’adulterio comporta per la filiazione”.

Ouaknin sottolinea un elemento molto radicato nella cultura ebraica, che oggi sembra dimenticata o poco importante: il valore della tradizione, di potersi narrare anche attraverso la vita di chi ci ha preceduto.

Scrive infatti l’autore: “Il possibile figlio adulterino non potrà avere risposta alla sua domanda circa la propria identità. Il suo legame di filiazione sarà mal detto o non sarà detto affatto. È importante che ognuno conosca la storia della propria filiazione, e che questa gli sia raccontata da altri. Ciò che posso dire io è certamente importante per la mia identità, ma è insufficiente. Qualcun altro deve potermi dire chi sono. Io esisto in quanto portato dalla parola della generazione precedente, dalla forza della parola genealogica”.

 

Il matrimonio cristiano

Per i credenti, quale valore ha il matrimonio?

“Nella visione della Bibbia – fa notare Pesch – non ci sono ‘gli uomini’, ma soltanto maschi e femmine e soltanto nel rapporto e nella convivenza di maschio e femmina vi è l’immagine di Dio.

Per questo il matrimonio tra credenti non è un contratto qualsiasi, che si firma e si scioglie a seconda della propria utilità e del proprio vantaggio.

Il frutto dell’amore tra l’uomo e la donna, la procreazione di una nuova vita, non ha perciò soltanto il senso di assicurare la continuazione dell’umanità, ma anche quello di liberare l’amore dei coniugi dall’ ‘egoismo a due’ e di consumarsi in favore della vita di nuovi uomini. L’adulterio e lo scioglimento del matrimonio sono dunque un attacco contro l’atto creatore di Dio”.

 

Durare nel tempo

“Perché un matrimonio resista alla prova del tempo c’è bisogno di mille piccole cose – scrive Pesch – qualche volta di qualche piccolo ‘trucco’ per superare le situazioni di conflitto.

Uno dei più importanti presupposti per la riuscita di un matrimonio è donarsi reciprocamente la libertà. Se il ‘noi’ è importantissimo per tutte le cose essenziali, per tutte le altre occorre donare all’altro la libertà di essere se stesso, più di quanto lo fosse prima del matrimonio.

Un altro punto molto importante – continua Pesch – è quello di avere abbastanza tempo l’uno per l’altro, lo stare insieme intimo non come un ‘impegno’ da fare rapidamente, di corsa, in una sorta di reciproco ‘sfruttamento sessuale’, ma come un momento all’interno di un generoso tempo libero comune che ci si riserva l’uno per l’altro”.

 

Saper perdonare

Senza questi ‘trucchi’ le crisi coniugali, scrive papa Francesco nell’esortazione Amoris laetitia “si affrontano in modo sbrigativo e senza il coraggio della pazienza, della verifica, del perdono reciproco, della riconciliazione e anche del sacrificio”.

Senza perdono le famiglie soccombono, ma “l’esperienza mostra che con un aiuto adeguato e con l’azione di riconciliazione della grazia una grande percentuale di crisi matrimoniali si supera in maniera soddisfacente”. Di conseguenza, “saper perdonare e sentirsi perdonati è un’esperienza fondamentale nella vita familiare”.

 

Per il lavoro di coppia e di gruppo

Vi proponiamo alcuni pensieri su cui riflettere e confrontarvi:

• “Saranno una sola carne” significa “diventeranno una sola nuova realtà umana”.

• Io devo poter contare sul fatto che domani l’altro ci sarà per me come c’era ieri e c’è oggi.

• Nel rapporto e nella convivenza di maschio e femmina vi è l’immagine di Dio.

• Non trasformiamo lo stare insieme intimo in una sorta di reciproco “sfruttamento sessuale”.

• Le crisi coniugali vanno affrontate con il coraggio della pazienza, della verifica, del perdono reciproco, della riconciliazione e anche del sacrificio

 

11-NON RUBERAI

“Non distruggere ciò che l’uomo ha costruito”

 

A cura della Redazione

Scrive Ravasi: “Originariamente questo comandamento condannava il rapimento, il sequestro di persona, più che la rapina, il furto. Alla tutela dei diritto di proprietà farebbe riferimento, invece, l’ultimo comandamento ‘Non desiderare la moglie e la casa del tuo prossimo’. Quindi, nei primi quattro comandamenti dalla seconda tavola sono elencati i diritti fondamentali della persona: la vita, il matrimonio, la libertà, l’onore”.

“Con questo comandamento – precisa Ricca – Dio si presenta come colui che difende la libertà dell’uomo.

Oggi si suppone che la schiavitù non esista più ma non è vero. Ora è vietata dalla legge, mentre in passato era legale, ma è ancora un’attività molto florida” continua Ricca. “Basti pensare alle donne che vengono comprate e vendute per essere avviate alla prostituzione, a tutte le forme di lavoro nero, che in qualche caso è peggiore della schiavitù antica, mentre oggi, essendo illegale, è ancora più selvaggia”.

Ouaknin commenta: “Questo comandamento si riferisce, prima di tutto, al ‘furto delle anime’. Cioè, tu non ruberai ciò che costituisce la personalità dell’altro, la sua originalità, ciò che gli permette di essere se stesso”.

 

La proprietà

“Cercando di comprendere il significato di questo comandamento – scrive frère John – è importante non cadere nella trappola di considerare tutto questo come una giustificazione assoluta del diritto alla proprietà privata, come se Dio fosse definitivamente dalla parte dell’economia capitalista contro ogni forma di socialismo”.

E continua: “Ogni presunto ‘diritto’ alla proprietà trova il suo senso e la sua giustificazione unicamente nel più ampio quadro di una società fondata sulla condivisione. In questo tipo di società il valore della persona e il sentimento di sicurezza non provengono da ciò che si possiede ma dai rapporti che si hanno verso gli altri. Allora la cupidigia perde il suo veleno e il furto la sua ragione d’essere”.

 

Il furto

“Questo comandamento” scrive Pesch,  “proibisce il furto sia nella semplice forma dell’appropriazione indebita che in quella più grave dello scasso e della rapina”.

Cosa c’è alla base del furto? “C’è una specie di sete di avere – risponde Ricca – ma questa pulsione è una grande illusione: quella che l’avere equivalga all’essere. Invece la vita, e con essa la Bibbia ci insegnano che ciò che vale quello che vale non è il bene che abbiamo ma è il bene che facciamo, (cfr Lc 12,20)”.

Su questo punto precisa Ouaknin: “L’uomo è costituito dal desiderio che lo spinge ad essere di più, a essere meglio, a essere domani. Il ladro, in fondo, è animato da questo desiderio, soltanto sbaglia nello scegliere l’oggetto del suo desiderio. Confonde l’essere con l’avere, ciò che è da ciò che possiede. Questa è un’ambiguità fondamentale dell’uomo, in lui coesistono contemporaneamente il desiderio di essere e quello di avere”.

Ci sono però in certe circostanze il furto può non esser più tale: è il caso di furto lieve di generi alimentari fatto per bisogno.

Frère John su questo tema scrive: “I teologi cristiani hanno spesso sostenuto che, nel caso ipotetico di un povero che prendesse del pane dalla tavola di un ricco per evitare a se stesso e alla propria famiglia di morire di fame, non si tratterebbe di furto. O più esattamente un furto si era precedentemente consumato quando la cupidigia del ricco lo portava a trattenere per se stesso ciò che era superfluo per lui, ma necessario alla sopravvivenza di altri”.

 

Piccole trasgressioni?

“Dovremmo però rendere più sensibile a nostra coscienza per alcune forme moderne di furto – annota Pesch – le quali vengono considerate dall’opinione pubblica, come una specie di sport o al più come una trasgressione di poco conto, come appropriarsi di strumenti sul posto di lavoro o fare telefonate private a spese dell’azienda”.

E continua: “Tra gli effetti sociali di questo comandamento vi è la questione delle tasse. È un’assurdità pretendere dalla società e dallo Stato l’attuazione di tutte le immaginabili garanzie sociali ed economiche e, contemporaneamente, non voler per principio pagare ciò, che in forza del diritto e della legge, ci viene richiesto. Lo stesso va detto del viaggiare senza biglietto sui mezzi pubblici”.

 

I ladri occulti

Al di là di questi aspetti, questo comandamento ha un valore categorico, scrive Ricca “perché  investe tutta la realtà, ogni tipo di furto. Lo potremmo riformulare dicendo: ‘non togliere al tuo prossimo ciò che gli appartiene’.

Il prossimo è un concetto molto ampio, significa il singolo, ma anche una collettività, lo Stato, un continente o anche l’intera umanità, perché ci sono dei beni che appartengono a tutti gli uomini.  Tutte le aggressioni che si fanno contro la natura, sono aggressioni contro l’umanità, perché la natura appartiene a tutti gli uomini”.

Chi ruba di più? Secondo Ricca non di certo “i ladri di professione ma coloro che rubano occultamente, infatti, si ruba per necessità ma soprattutto per avidità. Si vuole avere sempre di più, possibilmente subito, senza faticare”.

“Naturalmente – conclude Ricca – chi ha più potere ha anche più potere di rubare. E qui cogliamo l’intreccio tra furto e politica”.

Sempre restando sul questo terreno, Ravasi fa notare che “le dittature, le oppressioni politico-sociali ed economiche, le strutture she strappano artificiosamente il consenso, la stessa moderna egemonia della seduzione mediatica, i sistemi subdoli di convincimento, oltre naturalmente la schiavizzazione economica dei popoli, sono crimini non solo sociali ma anche religiosi, non colpiscono solo la morale ma anche la fede, non si configurano soltanto come peccati contro il prossimo ma anche sacrilegi perché si rivoltano contro il progetto divino”.

 

Quanto questo comandamento si lega con quello che lo precede (“non commetterai adulterio”)?

Un anziano maestro raccontava: Un giorno un uomo andò a trovare un rabbino e gli disse: “Rabbi, mi hanno rubato l’orologio”. Il rabbino rispose: “È semplice. Andrai in sinagoga il sabato in cui si leggono i dieci comandamenti e, al momento in cui si arriverà a ‘tu no ruberai’, guarderai ciascuno dei presenti. Quello che arrossirà sarà certamente il ladro del tuo orologio”. L’uomo si recò alla sinagoga il giorno indicato, poi tornò a trovare il rabbino per dirgli che aveva finalmente ritrovato il suo orologio. Quest’ultimo si rallegrò nel vedere che i suoi consigli avevano avuto un buon risultato. Ma l’uomo gli disse: “No, non si tratta di questo. Il fatto è che nel momento in cui si leggeva ‘Tu non commetterai adulterio’, mi sono ricordato che avevo lasciato l’orologio a casa della signora Coen”.

Marc Alain Ouaknin

 

Per il lavoro di coppia e di gruppo

• Siamo consapevoli di quanta schiavitù occulta è presente oggi nel nostro Paese?

• Qual è la misura del superfluo che adottiamo nella nostra famiglia?

• Paghiamo tutte le tasse (dirette e indirette) o, quando è possibile, proviamo ad eluderle?

• Che idea abbiamo della politica? La consideriamo un servizio o un mezzo per arricchirsi?

• Come tradurremmo la definizione “furto delle anime”?

 

12-Non pronuncerai FALSA TESTIMONIANZA

contro il tuo prossimo.

 

A cura della Redazione

Se “I primi tre comandamenti della seconda tavola vietano di togliere in maniera violenta la vita, la sposa, i beni altrui. In altre parole io sono tenuto ad agire verso gli altri nello stesso modo in cui vorrei che gli altri agissero nei miei confronti. Questo comandamento mira allo stesso obiettivo, ma a un diverso livello” così presenta questo comando frère John di Taizé.

 

La giustizia

Il primo ambito in cui si colloca questo comandamento è l’ambito giudiziario “dove i testimoni, ieri come oggi, erano chiamati a deporre. Non dire falsa testimonianza e come dire: dì la verità – scrive Ricca – da sempre, infatti, senza verità non ci può essere giustizia”.

Il testimone è chiamato a dire tutta la verità, nient’altro che la verità.

Ma attenzione, precisa Ricca “una mezza verità è anche una mezza menzogna, è solo illusione di verità”.

 

Maldicenza e falsità

Ma questo comando, precisa Ouaknin, può anche essere enunciato così: “Non utilizzare la parola per far soffrire l’altro”. E continua: “Ci sono tre livelli di uso scorretto della parola. Il primo è l’indiscrezione: si tratta di una persona che va in casa degli altri, ascolta, guarda quello che viene detto e fatto e, pur senza cattive intenzioni, racconta tutto a terzi. Pur non avendo cattive intenzioni viola l’intimità altrui. Un secondo livello è recarsi presso conoscenti per dire male di altri, anche se si riferiscono cose vere: si tratta di maldicenza. Un terzo livello è il parlare male degli altri affermando per di più cose non vere: è falsità. Utilizzare la parola per far soffrire l’altro dicendone male è per Maimonide peggio che commettere un omicidio”.

“La maldicenza è molto diffusa” conclude Ouaknin “per una ragione molto semplice: si prova gran piacere a dire male di un’altra persona e altrettanto ad ascoltare chi ne parla male. Secondo i maestri del Talmud, ci sono tre responsabile della maldicenza: colui che parla male di qualcuno, colui che ascolta la maldicenza e colui che con il suo comportamento la provoca”.

 

Le relazioni

Dire la verità è importante anche nei rapporti interpersonali, scrive Ricca, “la sua mancanza indica slealtà e non autenticità. Questo vale nel rapporto di coppia, nel rapporto di amicizia, nei rapporti di lavoro. Con un’immagine si potrebbe dire che la verità è l’ossigeno dei rapporti umani, mentre la menzogna è il veleno”.

Quindi, sottolinea Pesch, non è ammesso “nessun spergiuro, nessuna bugia, neppure quando non danneggia un altro, ma anche nessuna verità per colui che se ne vorrebbe servire per fare il male”.

 

Il rimprovero

“Se questo comandamento ci chiede di imparare a tacere, per non recare pregiudizio agli altri, e di non distruggere mediante la parola” scrive Ouaknin, come devo comportarmi se devo rimproverare? “Devo imparare – spiega l’autore – a parlare in modo giusto, in modo che il rimprovero sia compreso e accettato dall’altro. Se il mio prossimo mi offende, devo saper trasformare l’offesa in parola, parole di rimprovero, ma giuste”.

Scrive Marie Balmary, citata da Ouaknin: “All’inizio di relazioni amorose, quando nessuna ombra, alcun malinteso, alcuna offesa è ancora giunta a turbare i sentimenti che nascono, non c’è bisogno di parole: coniugare il verbo ‘amare’ è sufficiente. Ma poi, pronunciare questa parola ‘amare’ può diventare, a volte, difficile mentre si accumulano in noi dolori e rimproveri inespressi, non formulati…”.

Di conseguenza, secondo Ouaknin, “questo comandamento ci insegna anche a parlare per espellere l’odio che rischia di invaderci quando non formuliamo i nostri rimproveri. Allora: amare o rimproverare? No, rimproverare per amare. Ma non basta: bisogna saper ascoltare i rimproveri. Per essere trasformata e trasformare la parola suppone una ricezione che non è mai a senso unico. Ciascuno parla e ascolta, si è in dialogo”.

 

Parlare o tacere?

“I veri casi di conflitto interiore però non sono provocati dalla questione se si possono dire delle bugie, ma piuttosto dalla domanda: fino a che punto si può dire la verità?” si domanda Pesch.

“Quando la verità non genera fiducia e pace, ma confusione e spavento, bisogna essere molto prudenti” risponde l’autore. “Quando un bambino piccolo chiede da dove egli provenga, sarebbe una menzogna rispondergli con la storia della cicogna. Ma sarebbe brutale dirgli tutto per filo e per segno senza alcun riguardo per la sua età e la sua capacità di comprensione”.

“Al letto di un ammalato si deve dire sempre la verità?” si chiede ancora Pesch. “Chi ha compreso questo comandamento non si affiderà né alla rude franchezza né al silenzio più completo. Se c’è speranza di guarigione, non sembra il caso di paralizzare la volontà di vivere dell’ammalato dicendogli la piena verità. Non è neanche giusto lasciarlo morire nell’incoscienza soprattutto se l’interessato ha chiesto che gli si dica tutta la verità”.

Da qui, sempre secondo Pesch, “nasce quindi un'altra domanda: in che modo dire la verità?

Per esempio, si può dire alle persone in maniere brusca cosa si pensa di esse e che cosa da esse si vuole o non si vuole ma è una modalità indisponente, senza carità. La verità va condita con la cortesia, con la capacità di saper dire la cosa giusta al momento giusto”. Allora, conclude Pesch “la verità sarà detta francamente, ma sempre in una forma che edifichi, infonda coraggio e non lasci senza speranza”.

 

Verità e società

Un altro aspetto di questo comandamento riguarda la vita sociale. “La società odierna è basata a un livello senza precedenti sulla trasmissione della realtà attraverso le parole, le immagini e altri mezzi simbolici ritrasmessi e amplificati attraverso la tecnologia” scrive frère John. E continua: “l’informatica ci ha dato una parola per esprimere questo universo parallelo: lo chiamiamo virtuale. Tutto ciò non è in se negativo, lo diventa quando viene meno il legame tra virtuale e reale. Quando questo viene distrutto coscientemente e deliberatamente possiamo parlare di menzogna, ma anche quando questo atto non è del tutto consapevole, gli effetti non sono però meno gravi”.

“Molte delle rappresentazioni dell’esistenza umana proposte dai mass media hanno pochissimi legami con la nostra vera condizione” sottolinea frère John. Di conseguenza “la vita che esse dipingono è irreale ma tuttavia è in grado di suggestionare molti. Infatti, agli occhi di molti contemporanei questa ‘realtà virtuale’ sembra più reale della vita che essi conducono, e ciò non può che condurre alla delusione, alla frustrazione, al vuoto”.

 

Verità e fede

Terminiamo con un tema delicato, che da credenti ci tocca da vicino: Verità e fede.

“La fonte della verità, per chi crede, è Dio, così come Cristo ce lo ha fatto conoscere, ed è una verità che si testimonia, non si impone” scrive Ricca. E continua: “la verità è bella perché crea fiducia, e la fiducia è l’ingrediente fondamentale dei rapporti umani. Quando c’è fiducia tutto diventa possibile”.

Ma se “In Dio amore e verità coincidono, nella storia della Chiesa molto meno perché sovente si è anteposto il dogma all’uomo”. Di conseguenza, precisa Ricca, “per evitare l’intolleranza bisogna cercare di coniugare l’amore per la verità con l’amore per le persone concrete che sono alla ricerca della verità”.

È quello che ripete sovente papa Francesco: “la Parola di Dio ci insegna a distinguere tra il peccato e il peccatore”.

 

Per il lavoro di coppia e di gruppo

Vi proponiamo alcuni pensieri su cui riflettere e confrontarvi:

• Una mezza verità è anche una mezza menzogna, è solo illusione di verità.

• Utilizzare la parola per far soffrire l’altro dicendone male è peggio che commettere un omicidio.

• Imparare a parlare in modo giusto, in modo che il rimprovero sia compreso e accettato dall’altro.

 

13-NON DESIDERERAI

la casa del tuo prossimo. Non desidererai la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo né la sua schiava, né il suo bue né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo.

 

A cura della Redazione

“Questo comandamento pone un particolare problema di interpretazione – scrive Pesch – perché non si capisce bene che cosa venga aggiunto rispetto ai comandamenti precedenti”.

Una prima considerazione che possiamo fare, per chiarirci le idee, è relativa alla distinzione tra legalità e giustizia.

“Mentre i due precedenti comandamenti vietano il furto e l’adulterio prevedendo la trasgressione della legge, qui invece il furto e l’adulterio vengono vietati là dove essi potrebbero avvenire in forma legale” commenta Ricca. “Questo ai tempi di Israele poteva accadere nel caso di un debito non restituito: per saldarlo il creditore si appropriava sia delle persone che delle proprietà del debitore”.

“Ma - precisa l’autore - questo vale anche per l’oggi: ci sono più crimini commessi in nome della legge che crimini che vengono commessi contro la legge. Il più clamoroso, in questo senso, è la pena di morte, ma vi sono anche tante leggi ingiuste che provocano un’infinità di ingiustizie”.

“La bellezza di questo comandamento – conclude Ricca - è proprio che esso distingue nettamente tra legalità e giustizia. Sovente questi due termini non solo non coincidono ma sono in conflitto l’uno con l’altro”.

 

Il desiderio

Una seconda considerazione che possiamo fare è relativa al verbo desiderare.

“ ‘Desiderare’ non è semplicemente una disposizione dell’animo ma qualcosa che comincia dal cuore e poi conduce ad un’azione” scrive Pesch. “Desiderare una cosa del prossimo non significa soltanto avere il desiderio che essa mi appartenga ma piuttosto fare tutto ciò che è in mio potere affinché la cosa divenga mia”.

Frère John precisa: “Se i comandamenti precedenti riguardavano comportamenti chiaramente giudicabili da un osservatore esterno questo ci rimanda ad un percorso interiore, visibile solo a posteriori. La traduzione generica di questo comando usa il verbo ‘desiderare’, ma poiché nella Bibbia il vocabolo ebraico corrispondente viene spesso usato in senso negativo, il verbo italiano “concupire” coglie meglio la sfumatura presente nel testo originale.

Sia il vocabolo ebraico che quello italiano oscillano tra due significati, ‘desiderare ardentemente’ e ‘desiderare male’ ”.

A questo punto frère John si chiede: “Quando un semplice desiderio si trasforma nella tendenza a compiere il male? Una prima indicazione concerne l’intensità del desiderio. Se la cosa o la persona bramata sembra assolutamente necessaria per la nostra felicità, al punto da rendere intollerabile la frustrazione di non possederla, stiamo cedendo ad una forma di idolatria.

È in rapporto a questo aspetto che l’ultimo comandamento riprende il comandamento iniziale: Dio solo deve essere adorato. Quando una parte è confusa per l’intero, la nostra aspirazione universale è frustrata e il nostro cuore si disperde e si spezza”.

Ma il desiderio è sempre negativo?

“Al contrario di quanto ci ha abituato una certa predicazione ascetico-puritana, la Bibbia non propone un modello buddhista di cancellazione di ogni desiderio come sorgente dell’esperienza del dolore” risponde Ravasi. “Pensiamo anche solo all’attesa spasmodica dei patriarchi per avere un figlio oppure alla tensione verso la conquista di una terra in cui vivere in libertà. Una volta conquistati, questi beni diverranno la sorgente di un desiderio ulteriore che conduce verso l’eternità e l’infinito”.

Ma, precisa Ravasi “se c’è un ‘ben desiderare’, che è poi desiderare il bene, c’è anche la bramosia, la concupiscenza, l’ingordigia che è invece un ‘desiderare il male’ ”.

“Prima di fare una cosa noi la desideriamo interiormente”, chiosa Ricca. “Noi facciamo quello che prima abbiamo pensato e desiderato. È quello che dice Gesù nell’Evangelo di Matteo quando afferma: ‘È dal cuore che vengono i pensieri malvagi…’ (Mt 15,19)”.

 

La casa

Per la mentalità di oggi suona scandaloso che la casa, nel comandamento riportato in Esodo, preceda la donna, la moglie. Infatti, nella tradizione cattolica, il desiderare la donna d’altri precede, come comandamento, il desiderare la roba d’altri.

A questo proposito Ravasi scrive: “La ‘casa’ è uno dei simboli capisaldi della civiltà ma è pur vero che si può intendere ‘casa’ come casato, come famiglia. Si comprende, allora, come il nono e il decimo comandamento cattolici siano, in realtà, un unico precetto, perché la macchinazione che sottrae ad una persona la sua casa, indirettamente le toglie anche gli affetti, le sfalda la famiglia, le incrina la sicurezza, le offusca la dignità, le umilia lo spirito”.

Come siamo chiamati a vivere oggi il rispetto dei beni degli altri?

“Oggi non è più sotto il mirino del comandamento solo il latifondo prevaricatore o la speculazione terriera ed edilizia – risponde Ravasi – ma anche una certa globalizzazione che pone capestri ad alcune nazioni, che lascia impunite le prevaricazioni delle multinazionali, che strangola le autonomie attraverso il debito pubblico di molti Stati in crisi, che aliena le stesse identità dei popoli. Infatti, la casa è simbolo anche della storia, dell’esistenza, della vita di una famiglia cha abita un edificio o occupa un terreno e di un intero popolo o società”.

 

La donna

Nell’Antico Testamento troviamo due diverse versioni del decalogo.

“Nel libro del Deuteronomio – scrive Pesch – rispetto al testo di Esodo, la donna, la moglie, viene prima della casa (cfr Dt 5,21) e si differenzia dal resto della proprietà mediante l’uso di un diverso verbo: non si deve ‘aspirare alla’ moglie del prossimo, mentre non si può ‘desiderare’ la sua proprietà”.

“L’amore tra uomo e donna nel matrimonio – precisa l’autore – deve e può rendere visibile l’amore di Dio per gli uomini. Chi vuole avere la donna del suo prossimo, non solo rifiuta di accettare nella propria vita l’immagine dell’amore di Dio, ma addirittura la distrugge là dove essa riesce ad imprimersi, minacciando un altro matrimonio”.

In senso più generale, scrive Ravasi “questo comandamento non condanna solo i tentativi di impadronirsi dell’amore della donna di un altro ma anche ogni atteggiamento che riduca la donna a mero ‘oggetto’ del desiderio, a un giocattolo. E in questo la televisione, il cinema, la pubblicità, i giornali possono diventare un infame strumento di perversione sociale”.

 

Invidia e possesso

“Perché non possiamo poter desiderare una bella casa in un bel paesaggio?” Si domanda Pesch. “Un tale desiderio non è contrario a questo comandamento, come trovare bella una donna bella.

Ciò che è contrario a questo comandamento – precisa l’autore – è invece l’invidia. Invidiare non è il desiderio di stare meglio, non la lotta per la giustizia sociale, non il disappunto per la preferenza data ingiustamente ad altri, ma è il desiderio di cambiare la situazione in modo che gli altri diventino poveri e io abbia la loro ricchezza. La migliore difesa contro questo atteggiamento è la liberalità”.

Coltivare desideri ‘malati’, per frère John “è come immaginare che l’obiettivo dell’esistenza, che dovrebbe essere un continuo viaggio verso una terra nuova, passando attraverso la morte di una parte di noi stessi, fosse invece quello di restare aggrappati ad ogni costo a ciò che possediamo, dentro una falsa e immobile eternità radicata nel rifiuto della morte.

Questa progressione all’interno del testo porta le Dieci Parole a disegnare uno spazio incompiuto e aperto: esse non spiegano come vivere, eliminano semplicemente i falsi percorsi”.

I comandamenti rimandano ad uno sviluppo futuro. È quello che i discepoli di Gesù hanno trovato nell’insegnamento del loro maestro.

 

Per il lavoro di coppia e di gruppo

• Nella nostra esperienza, legalità e giustizia sono sempre sinonimi?

• Secondo noi, quando un desiderio è positivo e quando è negativo?

• In che modo questa società “concupisce” l’immagine della donna?

• Invidia e liberalità: che posto hanno nel nostro cuore?

 

Uomini e donne nella Bibbia

14-I COMANDAMENTI

Una lettura al femminile

 

1- Io sono il tuo Dio che ti ho fatto uscire dalla condizione servile

La condizione servile umilia l’uomo, fatto ad immagine di Dio, creato libero.

Per la donna il cammino di uscita dalla condizione servile è stato ancora più lungo che per gli uomini, lo è stato storicamente e continua ad esserlo nell’esperienza delle donne di oggi, isolate e private di ogni libertà in tante parti del mondo.

Anche nei nostri contesti occidentali, però, le donne si trovano a confrontarsi con una libertà “diminuita” perché più esposte alla disoccupazione, al licenziamento e a una minore retribuzione a parità di mansione, per non parlare della pressione sociale sulla bellezza, la sensualità che le ragazze si trovano a dover subire in maniera molto più pesante dei coetanei maschi.

Se Dio è il liberatore non possiamo onorarlo chiedendo alla donna di tornare alla condizione servile; per questo il cristiano è lontano da qualunque nostalgia verso la cultura patriarcale e anzi promuove e sostiene il cammino di emancipazione femminile, che – pur con alcuni errori – ha fatto così tanto bene.

 

2- Non ti farai idolo né immagine

Perché questo comandamento? Perché sentiamo naturalmente il desiderio di possedere l’altro, di appropriarcene e vorremmo possedere anche Dio. Questo comandamento ci dice che Dio non è nelle nostre disponibilità, i suoi pensieri non sono i nostri pensieri e le nostre vie non sono le sue vie, per cui nessuna “buona intenzione”, nemmeno quella di convertire qualcuno, ci consente di pensare di conoscerlo, di tenerlo sul palmo della nostra mano. Noi, piuttosto, siamo sul palmo della sua mano… non per essere dominati però, bensì amati e completamente conosciuti.

 

3- Non pronuncerai invano il nome del Signore

L’insegnamento di questa Parola è quello di non usare il nome di Dio ai nostri scopi, di non piegarlo alla nostra volontà.

La prima parola che i bambini di tutto il mondo pronunciano è “mamma” e l’esperienza di tutte le madri è quella che, quando i loro figli hanno imparato a chiamarle, sentono risuonare quel nome infinite volte al giorno, per qualsiasi cosa.

Ebbene, come il richiamo di un bambino alla sua mamma non è mai vano perché la chiama in causa, la convoca, la vuole più vicina, così – da figli – possiamo sentirci liberi di chiamare nostro Padre infinite volte, anche con rabbia quando è la rabbia a prevalere in noi (come ha detto recentemente il Papa, ma sempre all’interno della dinamica del rapporto con Lui, mai per farci forti del Suo Nome contro qualcuno.

 

4- Ricordati di santificare le feste

Dimenticare di fare festa è lasciare che il lavoro diventi il nostro padrone.

A volte, però, si dimentica che anche il lavoro domestico è un lavoro e che la domenica dovrebbe essere una giornata di riposo e festa per tutti, anche per le madri di famiglia. Certo, anche di domenica si deve mangiare, ma sarebbe bello che la domenica fosse il giorno della condivisione dei carichi necessari e della disponibilità a fare a meno di ciò che necessario non è. In questo modo la famiglia può sperimentarsi come luogo di libertà e non solo di cura e in questo modo lasciare che sia il Signore a servirci, con l’abbondanza della sua Parola e del suo Pane.

 

5- Onora il padre e la madre

Dimenticare i genitori nella loro vecchiaia è una colpa gravissima, così come l’umiliarli dall’alto dei nostri studi o della nostra posizione. Ma c’è un altro comandamento che manca nell’Antico Testamento e che però Gesù ha svelato e cioè che anche i figli vanno onorati (cfr. Mt 18,5-6). La nostra sembra una società che mette al centro i bambini, li ricopre di oggetti e di occasioni, eppure a ben guardare è tutt’altro che rispettosa dei loro tempi e delle loro esigenze, e spesso i genitori sono i primi a dimenticare di onorare i propri figli, ovvero di trattarli pienamente come persone. Si sente spesso parlare del fatto che i genitori di oggi non sarebbero più capaci di dire dei “no”, invece i no ai bambini vengano detti molto spesso: “mamma posso restare a casa oggi?” “no devi andare all’asilo”, “papà giochi con me” “ora no devo fare una telefonata urgente”. E se il problema dei bambini non fosse nel fatto che non diciamo abbastanza no, ma che diciamo troppi pochi sì e soprattutto che questi sì vengono solo per le richieste più facili da soddisfare come regali, dolciumi, tv? Mentre difficilmente accordiamo ciò che ci  toglie tempo da dedicare a noi stessi, ma che per loro sarebbe più importante, come giocare insieme.

 

6- Non uccidere

L’essere umano è capace di azioni finalizzate all’annientamento dell’altro: omicidio, istituzioni di morte, guerra.

Le donne non vanno in guerra eppure muoiono a causa della violenza, uccise spesso in casa, per mano di quelli con cui dovrebbero sentirsi più al sicuro e spesso a questa violenza viene dato un nome vergognoso, si dice che vengono “uccise per troppo amore”. Il Comando di Dio è chiaro: non uccidere. E non uccidere significa rispettare la vita dall’inizio alla fine. Se c’è un lavoro culturale da fare per evitare la normalizzazione di aborto ed eutanasia, serve anche un sostegno concreto perché nessuna donna si trovi a non vedere davanti a sé nessun’altra scelta che abortire e nessuna famiglia sia nella condizione di non potersi prendere cura dei propri vecchi.

 

7- Non commettere adulterio

L’amore va protetto, va protetto dalla naturale tendenza a rincorrere le novità, i fuochi d’artificio, l’ultima roboante emozione. Ma anche dalla pigrizia, dal considerarlo ormai acquisito e scontato e  va protetto dai messaggi esterni che tendono a contrastarlo, quando non a sovrastarlo.

Penso alla mentalità prestazionale che ci pervade, quella secondo la quale dovremmo lavorare 24h su 24, essere sempre connessi, disponibili e a portata di telefono, perché questa mentalità è proprio contraria ai tempi dell’amore che sono fatti di attese, silenzi, abbracci.

Se non ci accorgiamo più che il nostro amato è lontano e che lo stiamo aspettando, se dimentichiamo gli appuntamenti ecco, forse, è ora di chinarsi sul rapporto che stiamo vivendo e assicurarci che quella delicata pianticella (sempre delicata anche dopo vent’anni di matrimonio) abbia tutto il nutrimento che le serve.

 

8- Non rubare

Significa non privare l’altro di ciò che gli è necessario per vivere: quando priviamo un neonato della tenerezza e del contatto fisico di cui tanto abbisogna, lo stiamo derubando; quando togliamo ossigeno a un rapporto disinteressandoci dell’altro, del marito o della moglie, lo stiamo derubando di qualcosa di essenziale, di necessario.

Non rubare, in un contesto in cui esistevano gli schiavi, era anche “non togliere la libertà”, ma questo messaggio di liberazione vale anche per noi oggi: salvaguardare la libertà dell’altro, amarla e non temerla. Salvaguardare la possibilità di vivere dell’altro, anche facendogli spazio nella nostra vita, nella nostra città, nel nostro paese. Non rubare la speranza ai tanti disperati che arrivano qui perché in fuga, anche questo risponde al comandamento di Dio.

 

9- Non dire falsa testimonianza

Cioè scegli per te la verità. In un mondo fatto di menzogne, di “fatti alternativi” e di manipolazioni: tu scegli la verità, la limpidezza, il parlare chiaro. È uno dei doni che Dio ci fa e ripete in Gesù: l’invito ad essere “semplici come le colombe, ma anche scaltri come i serpenti”, a non temere di dire la verità, ricordando però che dire la verità è ben altro e ben di più che dire quello che si pensa. Perché quello che si pensa può non essere vero, utile, costruttivo, la verità invece è luminosa e liberante, tanto quanto la menzogna è oscura e inquietante.

Aprire le porte del proprio cuore alla verità significa non cercare di evitare il momento doloroso della ammissione della propria colpa, o del proprio concorso nella colpa, ma affrontarlo.

È faticoso, ma ne vale la pena, letteralmente: la verità è una pena che vale.

 

10- Non desiderare

C’è un confine tra noi e gli altri, un confine che segna la nostra sacralità e quel confine non va mai superato.

Pensare di potersi accaparrare l’altro, farlo proprio oppure prendersi ciò che all’altro sta a cuore significa penetrare nel suo santuario e profanarlo. Come fare dunque, dato che il desiderio è spesso incontrollabile? Occorre anzitutto distinguere tra i moti spontanei (quello orientato al possesso e quello orientato alla seduzione possono essere considerati tra questi) e ciò che io consento a me stessa.

Vedere un uomo, una donna e provare un moto di desiderio può accadere, è incontrollabile e quindi incolpevole, ma indulgere in quel pensiero o – addirittura – darmi il permesso di trasformare quel pensiero in atti concreti è ben altro.

Noi siamo chiamati a desiderare, siamo fatti di desiderio, ma un desiderio indirizzato in maniera ordinata, orientato al bene, a ciò che è realmente caro al nostro cuore.

Paola Lazzarini

 

15-ESSERE CHIESA

Toccare, attraverso la rete dei gruppi Famiglia, l’azione dello Spirito Santo

 

Nella nostra vita frenetica fatta di lavoro, affetti e preoccupazioni sembra non trovare posto l'imprevisto. Tutto è programmato, qualche volta penso che anche le nostre vite scorrano su binari codificati da noi, a discapito dello Spirito Santo.

Ma quando Lui si fa sentire ti sconvolge al punto di far saltare tutta la parvenza di stabilità che ci siamo costruiti.

Questa riflessione l'ho maturata dopo alcuni mesi da un tragico evento occorso ad una mia giovane paziente.

Si è trattato di un repentino passaggio, dall'attesa di un figlio che sanciva l'amore tra due giovani, alla disperazione più totale per la morte di questa creaturina partorita prematuramente, a causa di una gravissima malattia genetica, assolutamente mai nemmeno immaginata in precedenza, e che ha portato in fin di vita anche la madre.

Lo scenario investiva sia i due genitori che le loro rispettive famiglie. Il peregrinare da un ospedale all'altro e da un reparto all'altro si concludeva con un ricovero in rianimazione a Cuneo.

È a questo punto che venivo informata di tutta la situazione clinica e familiare: infatti non solo c'era una folle paura di perdere anche la madre, ma le rispettive famiglie erano in una tensione senza limite. Cosa fare?

Nella mia carriera di medico raramente mi ero trovata di fronte a problematiche così gravi ed impellenti: come aiutare a chiarire le condizioni cliniche a tutti, senza prevaricare i colleghi che stavano facendo l'impossibile per capire cosa fosse successo, curandola nel migliore dei modi.

Come fornire un supporto psicologico per contrastare l'ansia che non li faceva più ragionare? Soprattutto come aiutarli a trovare una sistemazione a 70 km da casa loro, abbastanza lontana dalla rianimazione, nella quale stazionavano ormai da giorni senza mangiare né potersi lavare (si era a fine luglio), ma sufficientemente vicina da essere a portata d'ospedale?

Ecco che mi rivolsi alla rete dei Gruppi Famiglia, da Franco (Rosada) di Torino a Tommy (Rainero) di Cuneo il passo è stato breve, una mia telefonata ad entrambi ed è successo l'impossibile.

Va detto per la cronaca che per Lei pregavamo tutti in paese, almeno quelli che ci credevano e quelli che conoscevano i ragazzi, in chiesa nella messa domenicale come pure nei vari gruppi.

La generosità di Tommy e della sua famiglia, addirittura disposti a dare le chiavi della loro casa a dei perfetti sconosciuti, fa capire che il Signore ha fatto un ottimo lavoro su di loro.

Ma la sistemazione ottimale è arrivata con l'ospitalità di tutti i familiari presso la Casa di Accoglienza La Città dei Ragazzi, dove queste persone non solo hanno trovato la solidarietà umana, come è facile immaginare, ma anche l'accoglienza dei consacrati, che ha fatto loro toccare con mano che il Signore è misericordioso e che il nostro è il Dio dell'Amore.

Questa è la Chiesa, questa è l'opera dello Spirito Santo, queste sono le opere che fanno di Giorgio, Marianna, Franco, Tommy dei veri apostoli di Cristo in cui la frase evangelica di esortazione di Giovanni 13,35: " da questo vi riconosceranno, da come vi amerete gli uni gli altri" viene a collocarsi in un contesto di smarrimento totale in cui loro si sono eretti come fari in mezzo alla nebbia del dolore che avvolgeva tutte queste creature così provate dalla malattia.

Maria Rosa Fauda

 

16-CAMPI ESTIVI 2017

Calendario provvisorio

 

23-30 luglio San Giacomo di Entraque (CN)

Tema da definire.

Relatore: Angelo Fracchia, biblista.

Org.: Diocesi di Cuneo.

È possibile partecipare anche al solo week-end finale.

Info: Angela e Tommy Reinero, 347 5319786,

tommy.angela@libero.it

 

5-12 agosto Valle di Cadore (BL)

villa Letizia

Tema: Il perdono.

Relatore: Fabiola Dall'Agnol.

Sacerdote: don Daniele Vettor.

Org.: Colleg. Gruppi Famiglia.

Info: Valeria e Toni Piccin, 320 5328595, segninuovi@alice.it

 

13-20 agosto Bessen Haut (TO)

Tema e relatori da definire.

Org.: Diocesi di Pinerolo (TO).

Info: Nicoletta e Corrado Demarchi, 0121 77431,

curra@email.it

 

20-27 agosto Voltago Agordino (BL)

Casa al castagneto

Tema da definire.

Relatore: Gabriella Del Signore.

Sacerdote: don Francesco Pellizzer.

Org.: Colleg. Gruppi Famiglia.

Info: Fiorenza e Antonio Bottero, 340 5195718,

antoniobottero@alice.it

 

17-BILANCIO 2016 F&F

In attivo, grazie al vostro 5x1000

 

Carissimi, come potete leggere nella tabella sottostante, il bilancio 2016 dell’associazione Formazione e Famiglia, editrice della rivista, è ritornato in attivo. Questo è merito, come vi avevamo anticipato nel numero di giugno dell’anno scorso, del significativo incremento dovuto alla entrate per il 5x1000 dell’anno fiscale 2014.

Da quest’anno poi, come anticipato a pag. 3, avrete la possibilità di firmare anche per il 2x1000; ci siamo infatti iscritti nella lista delle associazioni culturali. Dobbiamo segnalare, invece, il calo di oltre il 6% dei contributi liberali. Non fateci mancare il vostro sostegno: è quello che ci sostiene e ci permette di continuare.

il Presidente Noris Bottin

Vedi: http://www.gruppifamiglia.it/Bilanci/Bilanci.htm

 

18-PER APPROFONDIRE IL TEMA

I libri usati per realizzare questo numero

 

Paolo Ricca, Le dieci parole di Dio. Le tavole della libertà e dell’amore, Editrice Morcelliana, Brescia  20143

Il testo del libro è tratto dalla trasmissione radiofonica in onda su Radio3 la domenica mattina, e  curata da Gabriella Caramore.

In questo contesto è nata la serie delle Dieci parole di Dio, guidata da Paolo Ricca e che ha ispirato Roberto Benigni per le due serate di RAI1 dedicate ai comandamenti.

Scrive Ricca: “Viviamo disorientati, smarriti, sotto il peso delle libertà che ci siamo conquistate, resi inquieti dal sospetto che quelle libertà non le amiamo fino in fondo, e tacitamente convinti che mai la complessità della vita potrà essere interamente regolata dal diritto”.

Il libro è agile, scorrevole, anche se si articola in una serie di domande e risposte, come richiede una trasmissione radiofonica, con l’intervento di ospiti che integrano e stimolano la riflessione.

 

Gianfranco Ravasi, I comandamenti, Edizioni San paolo, Cinisello balsamo (MI) 2014.

Questo testo è molto gradevole, di facile lettura ma mai banale. Possono pesare i rimandi letterali e artistici che l’autore cita, ma che ci danno l’idea degli interessi poliedrici dell’autore.

Il decalogo è così importante per la nostra fede cristiana? “Alla base della domanda c’è un antico contrasto tra Vangelo e Legge e più in generale tra libertà e norma, spirito e struttura” scrive Ravasi. E continua: Per alcuni “l’Antico Testamento è necessario per la fede cristiana, ma non lo è invece per la morale”. L’autore ovviamente contesta questa lettura: “Il cristianesimo non seppellisce il Decalogo nella polvere del passato, ma lo conduce alle sue estreme conseguenze, ne svela le grandi potenzialità, ne scopre l’anima d’amore sottesa”.

Il libro si legge rapidamente ma conviene riprenderlo per non perderne la ricchezza.

 

Frère John di Taizé, Verso una terra di libertà. Una riflessione sui dieci comandamenti, Edizioni Messaggero, Padova 2005.

Il titolo rivela da subito le intenzioni dell’autore: i dieci comandamenti sono dati da Dio al suo popolo perché non ricada nella schiavitù da cui Lui lo ha appena tratto.

È un versetto di Esodo che  come cattolici, quando enumeriamo i comandamenti, omettiamo: Io sono il Signore, tuo Dio, “che ti ho fatto uscire dalla terra d'Egitto, dalla condizione servile” (Es 20,2).

Scrive infatti frère John: “Le dieci parole tracciano il perimetro di uno spazio di libertà”, la loro ‘negatività’ serve per definire “i parametri che rendono possibile la libertà”. E continua: “Senza questo limite saremmo rinchiusi per sempre in un universo auto referenziale, prigionieri incoscienti del nostro io”.

Il libro è ancora disponibile sul sito dell’editore.

 

Otto Hermann Pesch, I dieci comandamenti, Editrice Queriniana, Brescia 1983.

L'autore, teologo e professore universitario, ha operato molto nel campo ecumenico e ha collaborato alla convergenza fra luterani e cattolico-romani, sulla dottrina della giustificazione.

Nel libro spiega in maniera facile, intuitiva e pratica i dieci comandamenti.

Purtroppo  si tratta di un testo “datato”, pubblicato più di trent’anni fa. Questo aspetto si coglie bene durante la lettura, alcune riflessioni risultano superate dagli eventi.

Ha però una caratteristica importante: ogni comandamento viene attualizzato attraverso una serie di domande poste al lettore, che si trova così interpellato in prima persona.

Da questo testo, infatti, abbiamo tratto ispirazione per le domande relative al lavoro di coppia e di gruppo. Il libro è non è più in commercio ma si può trovare nelle biblioteche dei seminari.

 

Marc-Alain Ouaknin, Le dieci Parole. Il Decalogo riletto e commentato dai maestri ebrei antichi e moderni , Edizioni paoline, Milano 2001.

Questo testo è molto interessante, pur non essendo sempre di facile lettura.

Alcune riflessioni, relative all’etimologia di alcune parole chiave e sviluppate attingendo alla  kabbalah ebraica e ai maestri di Israele, risultano ardue da seguire.

In compenso il libro è ricco di aneddoti e spunti divertenti, ma anche sorprendenti e originali.

Un altro aspetto che l’autore coglie riguarda il mondo al femminile.

Si scopre così che Elohim può significare “una donna incinta di un uomo” (quello che è per noi il volto paterno e materno di Dio). Che La liturgia del sabato mette in gioco il matrimonio tra l’uomo e la santità del tempo trasformato in sposa. Che rubare e commettere adulterio sono tra loro legati, ecc.