Foglio di collegamento tra Gruppi Famiglia

GF104 – aprile 2020

PERIFERIE

Tutti quelli che stanno al margine e che preferiamo ignorare

 

Lettere alla rivista
1-Chiesa "in UScITA" E PARROCCHIE

Per liberare serve la testimonianza non chiacchiere

 

Papa Francesco parla di Chiesa in uscita. Cosa intende? Come dovrebbero organizzarsi le parrocchie?

Luciano

 

Fin dall’inizio, la missione primaria della Chiesa è stata l’annuncio del Vangelo. La Chiesa deve cioè, sempre comunicare la salvezza proposta da Gesù Cristo: nella consapevolezza continua che il messaggio può essere recepito soltanto se trasmesso nelle condizioni culturali, antropologiche, che permettano di percepirlo come annuncio che dà senso per la vita.

Oggi la Chiesa, nell’affrontare la questione, si trova ad interagire con persone che progettano la propria vita e pensano al loro futuro, perlopiù senza mai fare riferimento al sacro. Vede un Paese impaurito, ripiegato sul presente, incapace di pensare al futuro, di fare scelte coraggiose. La denatalità è ormai un dato strutturale; essa non è solo un problema legato a un quadro di incertezza occupazionale ed economica, ma riflette una mentalità nella quale non si è più disposti ad affrontare sacrifici.

De Rita, fondatore del Censis, intervistato in merito, afferma che la cultura odierna esprime una specie di dittatura dell’io, che è rinforzata dalla “egolatria dei social”. Francesco - consapevole di questa realtà - incita la Chiesa - in primis le parrocchie - ad evangelizzare abbandonando una pastorale di sopravvivenza facendo scelte misurate sulla fedeltà al Vangelo ed alla gente attuale. Sollecita una pastorale in “uscita”, cioè che sia missionaria.

Per realizzare questo, non servono parrocchie self-service di sacramenti, centri organizzativi di espressioni religiose. Lo “stile” ossia la modalità costante e coerente di vivere, che rende la comunità cristiana attraente e credibile - osserva Theobald, noto teologo - consiste nella capacità di costruire relazioni positive con Dio e con chiunque si incontri: senza eccezioni, senza pregiudizi. Le relazioni, infatti, hanno il primato sul rito.

L’indifferenza nei confronti di Dio e delle istituzioni che lo rappresentano - non solo nelle nuove generazioni ma persino nelle giovani madri di famiglia - il diffuso fanatismo, il crescere della violenza, ecc. non permettono di continuare ad adottare strategie pastorali che erano proprie di un tempo di cristianità. L’oggi non è più tale.

Occorre il discernimento, che faccia operare scelte fedeli a Gesù, alla sua umanità e divinità, e che dicano qualche cosa di Lui alle persone di oggi. Tra queste, emerge la testimonianza: ossia il far toccare con mano esperienze, far incontrare persone che mettano le coscienze davanti a un bivio.

Non servono tante chiacchiere per liberare l’uomo, affermava don Milani.

don Giovanni Villata

 

Dialogo tra famiglie
2-CREDERE E VIVERE IL VANGELO

Nomadi e stranieri sono pur sempre fratelli

 

Papa Francesco ci invita ad essere attenti agli scartati dalla società. Come famiglia cosa possiamo concretamente fare, visto che tra lavoro, casa, due figli, per me e mio marito di tempo ne resta ben poco?

Alba

 

Non è una questione di azioni concrete che possiamo fare né di tempo da dedicare ai ‘poveri’! Quanto Papa Francesco ci ricorda con forza e insistenza non sono parole sue, ma del Vangelo, ma troppo spesso i cristiani lo sono solo per l’anagrafe delle Parrocchie in cui sono stati battezzati… Prima di pensare a ‘cose da fare’ bisognerebbe diventare credenti: il Vangelo va “CREDUTO e VISSUTO”.

È un cambio di mentalità che tutti dobbiamo fare e con urgenza, visto come stanno andando le cose nel nostro Paese. Abbiamo visto, con infinita tristezza, maree di persone (quasi tutte battezzate!) osannare e seguire chi, Vangelo e Rosario in mano, si è messo, anche se solo simbolicamente, alla guida di una ruspa per demolire un campo nomadi o istigare alla sfiducia verso ogni ‘straniero’ e tanto altro... Nomadi e stranieri, pur se, a volte creano problemi, sono fratelli, sono coloro in cui Gesù ci ha detto di identificarsi “quello che avrete fatto ad uno di questi piccoli, l’avrete fatto a Me”.

O sono parole senza senso o dobbiamo crederle e abbiamo tutti la possibilità di farlo ribellandoci a una mentalità tanto diffusa da essere, secondo me, un’emergenza nazionale. Tutti abbiamo in mano la potenza del voto: usiamola da credenti e non da creduloni egoisti!

Anna Gamberini

 

Editoriale

3-PERIFERIE

Periferie fisiche ed esistenziali, materiali e immateriali

 

di Franco Rosada

Il tema di questo numero raccoglie alcuni argomenti da voi proposti che abbiamo deciso di trattare insieme.

Partendo dalla durezza del linguaggio in voga oggi, affronteremo i giudizi e i pregiudizi che ci condizionano quando parliamo degli “ultimi”: poveri, immigrati, carcerati, ROM..., e che cosa il Vangelo ci chiede di fare nei loro confronti.

Sono temi scomodi, perché ci chiamano ad essere coerenti con la nostra fede in una società che ha idee e atteggiamenti che vanno in tutt’altra direzione.

Per tutti questi temi abbiamo pensato di intitolare il numero con una parola che li potesse riassumere: Periferie.

Sul dizionario troviamo che di solito per periferia si intende “la zona marginale di un'area geograficamente determinata, con particolare riferimento a un agglomerato urbano”. È in quella parte delle nostre città che tendono ad insediarsi gli “ultimi”, intendendo sia gli ultimi arrivati, i migranti, sia i poveri, mentre i ROM lì abitano da sempre.

Ma anche, in senso figurato, periferico è anche ciò che è marginale rispetto ad un centro. E quindi si sottrae alla vista immediata, volontariamente o involontariamente. È il caso dei “nuovi” poveri, che vivono vicino a noi, delle famiglie con figli o anziani malati o handicappati nel fisico e/o nella mente, tossico dipendenti, alcolisti, ludopatici…

Voglio aggiungere ancora un significato: la periferia segna i limite tra città e campagna, è la zona di confine tra due realtà diverse. Non per niente, fino agli anni ’30 del secolo scorso, lì sorgevano ed erano attivi gli edifici dei dazi dove le merci che arrivavano dalla campagna dovevano pagare una tassa per entrare in città.

La periferia può quindi indicare anche il confine tra noi e gli altri, tra sani e malati, tra diversi gruppi sociali e religiosi, tra diverse scuole di pensiero, tra diverse etnie, tra comunitari ed extracomunitari.

Un obiettivo ambizioso, che mi auguro sia stato, con questo numero, almeno in parte raggiunto.

P.S. Negli articoli sono presenti numerose note. Per accedere facilmente ai testi citati consultate la versione on-line della rivista.

 

4-LA CULTURA DELLO SCARTO

Scarto deriva dal latino ex-cerpere che significa togliere, levar via: si separa ciò che non ha valore, per eliminarlo. Che cosa oggi noi separiamo per scartare? Non dovremmo forse considerare meglio i nostri criteri, e magari riconoscere il valore di ciò che scartiamo?

In questo cammino controcorrente ci guida, col suo magistero sapiente, Papa Francesco. In particolare, l'esortazione apostolica Evangelii gaudium ci aiuta a leggere i segni dei tempi con occhi nuovi.

La logica dello scarto, applicata alle persone, produce quella che il sociologo Bauman chiama “vite di scarto”: chi, per ragioni diverse, privato dei modi e mezzi di sopravvivenza (disoccupati, immigrati, persone fragili), non si adatta ai modelli di efficienza e performance circostanti, non raggiunge gli standard richiesti, viene abbandonato al proprio destino: scartato appunto.

Tutt’al più, allontanato dallo sguardo e stoccato in nuovi luoghi sicuri per lo smaltimento dei rifiuti umani: le banlieues, i campi profughi, i quartieri ghetto.

Papa Francesco, nella sua Esortazione, critica con forza questa forma così diffusa di disumanità: “Non è possibile che non faccia notizia il fatto che muoia assiderato un anziano ridotto vivere per strada, mentre lo sia il ribasso di due punti in borsa. Questo è esclusione. Non si può più tollerare il fatto che si getti il cibo, quando c'è gente che soffre di fame. Questo è inequità.

Oggi tutto rientra nel gioco della competitività e della legge del più forte, dove il potente mangia il più debole. Come conseguenza di questa situazione grandi masse di popolazione si vedono escluse ed emarginate: senza lavoro, senza prospettive, senza vie d'uscita. Si considera l'essere umano in se stesso come un bene di consumo, che si può usare, e poi gettare.

Abbiamo dato inizio alla cultura dello ‘scarto’ che, addirittura, viene promossa. Non si tratta più semplicemente del fenomeno dello sfruttamento e dell'oppressione ma di qualcosa di nuovo: con l'esclusione resta colpita, nella sua stessa radice, l'appartenenza alla società in cui si vive, dal momento che in essa non si sta nei bassifondi, nella periferia, o senza potere, bensì si sta fuori. Gli esclusi non sono sfruttati ma rifiuti, ‘avanzi’ ” (EG53).

Chiara Giaccardi

Tratto da: Il Vocabolario di Papa Francesco, Elledici, Leumann (TO) 2015.

 

5-UN’ITALIA RANCOROSA E ARRABBIATA

Cresce l’Italia del rancore. Questo sentimento condiziona la domanda politica di chi è rimasto indietro

 

a cura della Redazione

Non manca di certo il materiale per parlare del “brutto” linguaggio in voga oggi, per proporre una narrazione alternativa sul tema degli “ultimi”, ancora meno per fornire una risposta cristiana su questi temi disponendo di un maestro come papa Francesco.

Il problema riguarda il perché questi fenomeni - purtroppo da sempre presenti - hanno assunto proporzioni così allarmanti, e che ci toccano un po’ tutti impregnando la nostra quotidianità.

 

I sintomi del malessere

I giornali sono pieni di frasi del tipo: “la complessità dei tempi”, “tempi difficili”, “stress da competizione”, “temere per il proprio futuro” e anche “rifiuto di guardare al futuro”.

A queste fanno eco i rapporti Censis sulla situazione sociale del Paese.

Nel 2017 il titolo del rapporto era: “Cresce l’Italia del Rancore. Risentimento e nostalgia condizionano la domanda politica di chi è rimasto indietro”. E le cose non sono andate meglio nel 2018: “Dopo il rancore, la cattiveria: per il 75% degli italiani gli immigrati fanno aumentare la criminalità, per il 63% sono un peso per il nostro sistema di welfare”.

Sempre sui giornali si parla anche di “aumento della povertà”, “ceti sociali impoveriti”, “rischio disoccupazione”, “emergenza sociale”. E, ancora, di “aziende in crisi”, “delocalizzazione”, “abbandono del territorio”, “perdita di competitività”, “incompetenza”, “scarsa visione”.

 

Lavoro e flessibilità

Lo sappiamo, dopo la crisi globale del 2008 - la grande recessione - è sopraggiunta a livello europeo nel 2011 la crisi dei “debiti sovrani” (1) a cui è seguito un lungo periodo di stagnazione nel quale ancora ci troviamo (2). Tutto ciò ha pesato sull’occupazione e sui salari.

Ma, per l’Italia è il caso di risalire decisamente più indietro, alla crisi petrolifera del 1973.

Per ricostruire questa storia ci è stata di aiuto un’intervista radiofonica (3) a Marta e Simone Fana, autori del libro: Basta salari da fame!

La prima parte del testo è dedicata alla ricostruzione della curva del potere d'acquisto dei salari nel nostro paese negli ultimi decenni.

A metà degli anni sessanta vi erano stati significativi aumenti salariali e stabilizzazioni dei diritti sociali che erano culminate nel ‘70 con l’approvazione dello Statuto dei Lavoratori.

A partire dalla crisi energetica del ‘73 si hanno le prime forti forme di austerità da parte del governo e il cambio di passo della struttura produttiva che, dal ’45 in poi, aveva visto la nascita delle grandi industrie (senza purtroppo colmare il grande divario tra nord e sud).

Inizia allora la progressiva crescita delle piccole e medie imprese a scapito della grande industria, una realtà che prenderà il nome di ‘terza Italia’, caratterizzata dalla frammentazione produttiva e dalle esternalizzazioni.

Il lavoro comincia a diventare più flessibile, non ancora attraverso i contratti cosiddetti precari, ma con una grande ripresa del lavoro autonomo, con il passaggio dal ruolo di dipendente a quello di consulente.

Gli anni ‘70 furono segnati in Occidente da forti tendenze inflattive a cui si tentò di porre rimedio con la nascita dello SME, il Sistema Monetario Europeo, che aveva lo scopo di garantire la stabilità dei cambi valutari.

Da quel momento in poi la politica (4) scelse di privilegiare l'equilibrio finanziario a discapito delle misure espansive volte a contrastare la disoccupazione. In questo modo si contenne la crescita dei salari e si imbrigliarono i Sindacati.

Arriviamo così al 16 settembre 1992 (5), il mercoledì nero della lira e della sterlina, in cui entrambe le monete furono costrette ad uscire dallo SME e svalutarsi.

Ma quell’anno fu molto importante perché vide, in un momento di grande debolezza dell’Italia, la cancellazione dell’istituto della scala mobile, grazie al quale i salari aumentavano automaticamente coprendo in buona misura l’inflazione.

Con la cancellazione della scala mobile il Paese sceglieva una politica economica fondata sulla moderazione salariale, con lo scopo dichiarato di stimolare la competitività delle imprese.

 

La moderazione salariale

Da questo momento in poi, la condizione di lavoratori non farà che peggiorare.

Nel ‘97 con l’approvazione del pacchetto Treu viene introdotto nel nostro ordinamento il lavoro interinale a cui fa seguito nel 2003 la legge Biagi che allarga ancora le maglie della flessibilità, aumenta i contratti lavoro atipici, frammentando ulteriormente il mercato del lavoro. Il risultato è stato che, dal ‘92 ad oggi, rapporti di lavoro a tempo determinato sono passati da un milione a circa 3 milioni.

La retorica che ispirava queste scelte politiche era che la flessibilità nel mercato del lavoro consentisse la competitività delle imprese; oggi constatiamo invece che in questi anni, pur con salari stagnanti, la produttività è cresciuta poco.

I grandi sconfitti a causa di queste politiche sono stati la maggioranza dei lavoratori e delle lavoratrici, soprattutto quelli più vulnerabili.

Non è solo un problema di disoccupazione ma anche di povertà anche lavorativa; si rischia di essere poveri nonostante si lavori per più di 5-8 ore al giorno.

Così i top manager delle multinazionali si possono permettere yacht e immobili di lusso, mentre le loro aziende retribuiscono un ingegnere con 800 euro al mese.

Questi salari da fame vengono giustificati perché non siamo, come lavoratori, abbastanza motivati, abbastanza produttivi, abbastanza professionalizzati.

Non è vero: le nuove generazioni sono tra le più istruite della storia d'Italia, sono molto flessibili, molti non hanno paura di emigrare.

Purtroppo quelli che non se ne vanno (6) sono condannati a fare dei lavoretti sotto ricatto, perché se non accetti le condizioni che ti impongono ne assumono un altro; così per 1000 euro al mese devi lavorare h24 anche il sabato e la domenica, sovente senza nessuna tutela, nessun diritto, come l’indennità di maternità o di malattia.

Ci sono medici ospedalieri a partita IVA, archeologi che curano il nostro patrimonio culturale facendo il servizio civile, avvocati utilizzati nei Tribunali e pagati con rimborsi spese.

Questa del lavoro è una priorità sentita anche da papa Francesco che già nel 2014 affermava (7): “non possiamo disertare la sala d’attesa affollata di disoccupati, cassintegrati, precari, dove il dramma di chi non sa come portare a casa il pane si incontra con quello di chi non sa come mandare avanti l’azienda.

È un’emergenza storica, che interpella la responsabilità sociale di tutti: come Chiesa, aiutiamo a non cedere al catastrofismo e alla rassegnazione, sostenendo con ogni forma di solidarietà creativa la fatica di quanti con il lavoro si sentono privati persino della dignità”.

 

Mettere su casa

“Nel momento in cui si decide di mettere su casa e famiglia si finisce di essere due cuori e un sogno, ma si diventa due cuori, sacrifici, felicità, ma anche problemi molto reali, che con i sogni hanno poco a che fare” (7).

Quando si è studiato fino a 24 anni non è facile proiettarsi allo stesso tempo nel lavoro e coltivare una relazione seria. Così si rischia di iniziare a pensare di mettere su casa a trent’anni, quando si è ormai adulti e viene naturale porsi tanti interrogativi su che cosa vuol dire “per sempre”.

Con “per sempre” non intendo necessariamente il matrimonio, ma anche la semplice convivenza, lasciando comunque la casa dei genitori e vivendo insieme.

Non sempre finisce così, ci si può innamorare pazzamente a vent’anni e sposarsi, ma quando il futuro non è chiaro, il lavoro è precario, almeno sul piano degli affetti si cerca di procedere con cautela, visti i tanti fallimenti coniugali a cui si assiste.

 

Progettare un figlio

“L’Italia è un Paese senza figli ma anche senza madri. In dieci anni sono sparite anche le mamme: dal 2008 si contano 900mila donne in meno nella classe 15-50 anni, di cui 200mila ‘scomparse’ solo nell’ultimo anno” (8).

Se metti su casa a trent’anni ci penserai ancora un po’ prima di mettere in cantiere un figlio.

Non per niente le donne italiane fanno il primo figlio, mediamente, quasi a 32 anni. E gli uomini si affacciano alla paternità intorno ai 35.

Oggi i figli hanno un valore immenso per la coppia, sono sempre di meno, si desidera per loro il meglio ma il Sistema Paese rema contro.

In Italia l'asilo nido pubblico è garantito soltanto a 1 bambino su 10 (9) ed ecco allora entrare in campo i nonni, uno dei pilastri del nuovo welfare italiano. Ma se i nonni abitano lontano sono guai (e costi aggiuntivi).

Per le donne che lavorano un figlio rappresenta sovente motivo di discriminazione o di regressione a livello di carriera, arrivando fino alla perdita del posto di lavoro.

Una delle conseguenze è che “il 37% delle donne tra i 25 e i 49 anni con almeno un figlio risulta inattiva, percentuale che sale all’aumentare del numero di figli, fino al 52,5% delle donne con tre o più figli” (10).

 

Separarsi

Anche se il “per sempre” è quello che si desidera quando ci si sposa, i fallimenti coniugali a cui seguono nuove unioni nel 2018 sono state il 20% dei matrimoni contratti nello stesso periodo (11).

La separazione è un grave trauma per entrambe le parti coinvolte. Lo è ancora di più quando si tratta di una separazione giudiziale, disposta dal giudice al termine di una lunga, e a volte non cordiale, causa.

La separazione pesa più sui maschi che sulle femmine, che di solito si vedono assegnati i figli e hanno diritto, a causa del reddito, all’assegno di mantenimento e alla casa coniugale (12). Se per le femmine il rischio più grande è l’insolvenza dell’ex marito, per i maschi il rischio è l’impoverimento.

Per entrambi i generi, comunque, la separazione risulta un vero proprio “lutto” che, per essere superato, va elaborato e richiede tempo e impegno.

C’è, infine, il problema dei figli. “La regola d’oro, in caso di separazione, è la comunicazione. I bambini hanno bisogno di certezze. Si deve annunciare una separazione solo quando è tutto stabilito e si può dire al figlio esattamente cosa accadrà: quando vedrà il papà e quando vedrà la mamma, per esempio, o dove andrà a vivere il genitore che lascerà la casa familiare” (13).

In diversi casi, invece, diventano un’arma di ricatto di un coniuge rispetto all’altro, con il rischio di portarne le conseguenze per tutta la vita.

 

Generazione sandwich

Chi è più avanti negli anni si trova a vivere l’esperienza della “generazione sandwich” come scrive Francesco Riccardi (14).

Si tratta di 45-60enni stretti tra figli ancora non autonomi, nonni a cui badare, e un lavoro da conservare. Ma, a causa dell’allungamento della vita media, oggi si fa strada la variante “doppio sandwich” che coinvolge un’ampia fetta di popolazione tra i 55 e i 75 anni con nipoti e genitori ultra ottantenni.

In questa attività di cura cresce il ruolo maschile, ma la quota più ampia è a carico di madri-nonne che restano allo stesso tempo ancora figlie.

“Una generazione di ‘acrobate’ che, nonostante la minore elasticità, devono rivelarsi più abili persino delle loro stesse figlie – alle prese ‘solo’ con il lavoro e i bambini piccoli – perché impegnate in almeno tre ruoli e altrettanti trapezi tra cui lanciarsi durante la giornata: la cura della casa, l’assistenza ai nipoti per alcune ore e, soprattutto, il sostegno ai genitori, i bis-nonni, non più autosufficienti”, scrive Riccardi.

E continua: “La situazione di chi offre compagnia a un anziano nel giorno di libertà della badante rispetto a quella di coloro che assistono quotidianamente, e a tempo pieno, un figlio o un genitore disabile è certamente assai diversa. È però comune a tutte queste persone, pur nelle diverse gradazioni del loro impegno, la sensazione di non essere compresi – e a propria volta supportati – in questa fondamentale attività”.

Chi vive in queste situazioni ha l’impressione di una scarsa presenza dello Stato sociale, viste le difficoltà che incontra per “poter usufruire di quei (pochi) servizi e provvidenze che pure sono previsti per gli anziani non autosufficienti: dall’assegno di accompagnamento all’assistenza domiciliare, al trasporto sociale verso gli ospedali”.

 

Sotto il segno meno

Le difficoltà e le fatiche per ottenere un lavoro dignitoso, per approdare ad un rapporto affettivo stabile (convivenza o matrimonio poco importa), per mettere al mondo uno o più figli ed allevarli, per coltivare l’unione coniugale, per farsi carico delle generazioni più anziane, possono spiegare quel rancore e quella cattiveria di cui parla il Censis e che caratterizza la nostra vita sociale.

Tutte le fasce di età, esclusi i ragazzi e i “grandi vecchi”, sono coinvolte.

Si può obiettare che queste difficoltà le hanno incontrate anche le generazioni precedenti, ma allora vi era una prospettiva positiva, si confidava che i figli potessero godere di un tenore di vita migliore di quello dei genitori, ora non più. Si è persa la speranza, è rimasta la rabbia.

 

(1) Vedi: http://www.consob.it/web/investor-education/crisi-debito-sovrano-2010-2011

(2) Il dato si ricava facilmente dall’andamento del nostro PIL

(3) RAI3 Fahrenheit, 8 novembre 2019

(4) Vedi: http://www.gruppifamiglia.it/anno2018/99_settembre_2018.htm#6 La finanza globale

(5) Per approfondire vedi: https://it.wikipedia.org/wiki/Mercoled%C3%AC_nero

(6) Intervista a Concita De Gregorio, RAI3 Fahrenheit, 25 novembre 2019

(7) Fonte: https://amore.alfemminile.com/forum/mettere-su-famiglia-fd260635

(8) Fonte: https://www.linkiesta.it/it/article/2018/02/10/addio-mamme-in-italia-e-record-di-donne-senza-figli-e-la-colpa-e-della/37087/

(9) Fonte: https://www.repubblica.it/scuola/2019/09/09/news/in_italia_all_asilo_nido_1_bambino_su_10_aumentano_disuguaglianze_e_poverta_educativa-235554799/

(10) Fonte: https://www.savethechildren.it/blog-notizie/maternit%C3%A0-italia-sempre-pi%C3%B9-difficile-l%E2%80%99equilibrio-tra-famiglia-e-lavoro

(11) Fonte: https://www.istat.it/it/archivio/235759

(12) Fonte: https://www.diritto.it/separazione-ed-addebito-le-conseguenze-non-si-piu-innamorati/

(13) Fonte: https://www.ilfattoquotidiano.it/2017/12/07/divorzio-e-separazione-le-conseguenze-per-i-figli-costretti-a-fare-i-conti-col-dolore-dai-genitori-vogliono-chiarezza/3994414/

(14) Avvenire, giovedì 28 novembre 2019

 

Per il lavoro di coppia e di gruppo

•          Riusciamo a trasmettere sempre speranza in chi ci sta intorno?

•          Quali, tra i diversi punti negativi segnalati dall’articolo, ci tocca più da vicino?

•          Quali, tra questi, patiamo di più come coppia e come famiglia?

 

6-UN LAVORO SEMPRE PIÙ PRECARIO

Rispetto al 2007, nel 2018 si contano 321.000 occupati in più: +1,4%, una tendenza che è continuata anche quest’anno con +0,5% nei primi sei mesi del 2019. Ma non è tutto oro quello che luccica. Il bilancio dell’occupazione è dato da una riduzione di 867.000 occupati a tempo pieno e un aumento di 1,2 milioni di occupati a tempo parziale. Tra il 2007 e il 2018 il part time è aumentato del 38% e anche nella dinamica tendenziale (primo semestre 2018-2019) è cresciuto di 2 punti. Oggi un lavoratore ogni cinque ha un impiego a metà tempo. Il part time involontario, in particolare, riguarda 2,7 milioni di lavoratori. Nel 2007 pesava per il 38,3% del totale dei lavoratori part time, nel 2018 rappresenta il 64,1%. E tra i giovani lavoratori il part time involontario è aumentato del 71,6% dal 2007. E sono in discesa anche le retribuzioni: i salari dei dipendenti sono diminuiti del 3,8%: 1.049 euro lordi all’anno in meno. Quasi tre milioni di persone hanno retribuzione oraria inferiore a 9 euro lordi (2.941.000): un terzo ha meno di 30 anni e si tratta in maggior parte di operai.

Dal Rapporto Censis 2019

 

7-LA SOLITUDINE DELLA NON AUTOSUFFICIENZA

Oggi in Italia le persone non autosufficienti sono 3.510.000 (+25% dal 2008), in grande maggioranza anziani: l’80,8% ha più di 65 anni. Non è autosufficiente il 20,8% degli anziani. Insufficienti e inadeguate sono le risposte pubbliche a un fenomeno destinato a crescere, considerato l’invecchiamento progressivo della popolazione. Il 56% degli italiani dichiara di non essere soddisfatto dei principali servizi socio-sanitari per i non autosufficienti presenti nella propria regione.

L’onere della non autosufficienza ricade direttamente sulle famiglie, chiamate a contare sulle proprie forze economiche e di cura.

Per il 33,6% delle persone con un componente non autosufficiente in famiglia le spese di welfare pesano molto sul bilancio familiare, contro il 22,4% rilevato sul totale della popolazione. Forte è la richiesta delle famiglie di un supporto anche economico: il 75,6% degli italiani è favorevole ad aumentare le agevolazioni fiscali per le famiglie che assumono badanti.

Dal Rapporto Censis 2019

 

8-LA DISPUTA FELICE

In un mondo litigioso occorre reimparare a comunicare “bene” il bene:

per strada, in rete, negli spazi pubblici, sul lavoro, in famiglia

 

A cura della Redazione

È sufficiente camminare per strada, spostarsi in auto o con un mezzo pubblico per cogliere i dissapori continui tra ciclisti e pedoni, tra pedoni e automobilisti, tra chi suona il clacson e chi lo deve subire, tra passeggeri e conducenti dei mezzi pubblici, tra i padroni dei cani e gli altri cittadini, e così via.

Se si accende la televisione e si assiste ad un talk show è facile assistere a vere proprie risse verbali che arrivano facilmente ad insulti anche pesanti.

 

Diffidenti e aggressivi

Il rancore, la rabbia che ci portiamo dentro in gran parte nascono dalla vita che conduciamo, sempre di corsa, sempre di fretta, anche quando andiamo in vacanza: non bisogna sprecare un secondo.

Così corriamo il rischio di scambiare comportamenti che vogliono essere gentili con gesti ostili come in questo episodio vissuto da Bruno Mastroianni (1).

Roma. Metro A Termini. Mi accingo con la bici pieghevole a uscire dal tornello di entrata (per chi non lo sapesse: con bici, carrozzine e simili si può uscire da lì, è fatto apposta).

Mi avvicino, ma il tizio dell’Atac seduto accanto alla barriera alza la mano, unisce la punta delle dita come a fare un cono e inizia a scuoterla davanti alla mia faccia dicendo: “Perché deqquà?”. Mi fermo. Pieno di stupore e senso di ingiustizia, dichiaro: “Ma come? Si può uscire da qui!”.

Lui scuote ancora quella manina saccente e adesso ha aggiunto pure il movimento della testa da destra e sinistra abbassando gli occhi, come deluso da me. È qui che incalzo: “Guardi, guardi! C’è pure l’indicazione!” e indico quei riquadrini con bici, carrozzine e donne incinte stilizzate che lo inchiodano alla verità.

Lui scuote ancora di più la testa e dice addirittura: “Noneee! Dove devi anna’?”. Ormai sto per sbottare, sto per dirgliene quattro, sto per fargli un discorsone su diritti, segnali, autorizzazioni, cittadinanza, servizio pubblico e tutto il repertorio... quando lui aggiunge: “Se devi anna’ in stazione te faccio uscì dellà che ce metti de meno!”.

Ha smesso di muovere la manina e la testa, ora indica qualcosa alle mie spalle. Poi grida “Mariooooo! Che me lo fai uscì sto ragazzo?”. Si sta rivolgendo a un collega che sta dietro di me, ai tornelli di uscita, accanto a una porta con maniglione antipanico; quello annuisce spinge il maniglione e mi fa cenno con la mano di andare lì.

Io ancora stordito per tanta gentilezza e per quel “sto ragazzo”, mi giro verso il mio interlocutore, vorrei dirgli qualcosa, e lui aggiunge: “Dellà ce stanno pure le scale mobili così nun te devi incolla’ sta bici”.

L’ho ringraziato, ho ringraziato anche Marioooo e ho proseguito in silenzio. Ora, mentre raggiungo agevolmente la stazione, con la bici trascinata dal movimento regolare degli scalini metallici, penso a quanto sia rischioso stare sempre sul piede di guerra per guadagnarsi la strada: va a finire che non ti accorgi nemmeno quando qualcuno ti sta dando una mano.

“Quasi l’80 per cento degli italiani, scrive Antonio Galdo (2), “sono convinti che ‘bisogna stare molto attenti nei confronti degli altri’ e solo il 21 per cento pensa che ‘la gran parte degli altri è degna di fiducia’. Da notare, per completare la statistica, che le donne sono ancora più diffidenti degli uomini”.

Che cos’è la diffidenza nell’era dell’incertezza, del rancore e dell’insicurezza? È, secondo l’autore, “un sentimento che si può definire attraverso due sguardi, entrambi piuttosto torvi. Da un lato c’è la mancanza di fiducia, il sentirsi poco rassicurato dall’altro, da ciò che fa, dice e pensa; dall’altro versante una somma di timori, sospetti e paure di essere ingannati.

La diffidenza, specie se portata oltre la soglia fisiologica dell’uomo che ha sempre qualche giusta precauzione da mettere in atto, semina i suoi veleni. L’esistenza si appesantisce, diventiamo stressati, irascibili. Rinunciamo a priori alla possibilità di nuovi rapporti e nuove relazioni, e mettiamo più facilmente in discussione quelle che già abbiamo in qualche modo consolidato”. Così la diffidenza ci porta a peggiorare la qualità della nostra vita.

 

Leoni da tastiera

Le cose vanno ancora peggio quando si inizia a navigare nel mondo virtuale dei social media.

In questo ambiente occorre essere molto cauti nel scrivere commenti o esprimere opinioni, perché si può incorrere in un vero e proprio linciaggio verbale.

Molti sfogano la loro rabbia, covata durante la giornata, infierendo contro chi ha espresso opinioni che non condividono.

Lo racconta molto bene Alessandra Bano (3).

Sono triste. Vorrei confidarmi con qualcuno ma non so come iniziare, non so se riuscirei a spiegarmi ed ho paura del giudizio della persona con cui parlerò.

Abbandono l’idea di confidarmi e mi lascio cadere sul divano. Prendo il cellulare per schiarirmi le idee, oppure per mandarle via, non lo so di preciso. Scrollo la home del mio social network abituale ed un’immagine attrae la mia attenzione. Non sono d’accordo con ciò che comunica.

Sento delle parole spingere su per la gola, gridando affinché le faccia uscire ma non c’è nessuno a fianco a me con cui possa esprimerle adesso. Percepisco però che se le lasciassi andare mi sentirei più tranquilla.

Apro i commenti. “Che idea di merda!” digito. “L’unica cosa che dovrebbero fare le persone che la pensano così è suicidarsi”.

Indugio, ma invio.

In qualche modo, le parole che mi disturbavano la gola sono svanite ed i miei muscoli sono rilassati. Dopotutto l’avevo letto da qualche parte: è scientificamente provato che imprecare allevi la rabbia e lo stress del momento.

“Del momento”. Forse è questa la parola chiave.

Guardo il mio commento. I primi “mi piace” e le prime risposte cominciano a presentarsi: qualcuno mi sostiene. Un senso di sicurezza e coraggio mi invade velocemente il petto: è quasi come se quelle persone mi stessero dando manforte, aiutandomi in questo momento tanto difficile per me. Mi sento ancora meglio di prima… ma perché?

Posso davvero considerare queste persone, questi estranei, meritevoli di potermi influenzare emotivamente in questo modo? Perché dovrebbe importarmi di loro?

Guardo fuori dalla finestra: il sole splende ma il mio stomaco è chiuso. Il mondo oggi mi fa davvero schifo.

Con questo unico pensiero mi rendo conto che il benessere che ho provato pubblicando quel commento è già svanito: sto di nuovo male.

Ancora. Ho bisogno di sentirmi ancora meglio. Il mio sguardo torna sul cellulare. Stringo forte l’apparecchio mentre il mio pollice si muove. Si sposta sulla scritta “aggiungi un nuovo commento” ma resta sospeso nell’aria.

A cosa mi servirà? Tra qualche minuto mi sentirò ancora come prima.

Beh, allora dovrò solo scrivere altri commenti, altri sfoghi e continuare a scriverli.

Ma a questo punto cosa diventerei? Un odio-dipendente? Un drogato di rabbia? Non voglio diventare così anche se… ho così tanto bisogno di sentirmi meglio.

Muovo anche l’altro pollice ma questa volta verso la scritta “elimina commento”. Pure questo però resta sospeso.

Rispondo? Elimino?Continuo? Cancello tutto?

Sospiro. Nella camera solo il silenzio. Abbasso il pollice.

Si diventa così “leoni da tastiera”. Cosa significa? Lo spiega bene un’immagine presente in rete: “raffigura un gatto in posa che, illuminato da una fonte di luce proveniente dal basso, proietta sul muro dietro di sé un’ombra deformata, ingigantita al punto da assumere le sembianze di un leone” scrive in un articolo Mastroianni (4). “È un’immagine molto efficace che sintetizza il problema da sempre presente nella comunicazione umana (anche da prima dell’avvento del digitale): essere sotto i riflettori ingigantisce, ci fa sentire più importanti”.

Vorremo sembrare forti di fronte agli altri, in realtà siamo solo più fragili.

 

La disputa felice

“La svolta epocale provocata dalle tecnologie digitali è stata quella di mettere tutti in una condizione di costante confronto. Sui social network diversi mondi – culturali, sociali, religiosi – si incontrano ogni giorno, senza mediazioni e senza filtri”, scrive ancora Mastroianni nel suo libro: La disputa felice (5).

“La diversità, che prima era un’esperienza specifica nella vita, è diventata un aspetto ordinario della realtà. È questa la radice dell’ostilità online e di quel senso di polarizzazione e contrapposizione che sembra inquinare stabilmente il discorso pubblico. Grazie al web tutti – volenti o nolenti – ci siamo avvicinati, ma questo non ci ha reso automaticamente dei ‘buoni vicini’: questo è qualcosa che dobbiamo conquistare giorno per giorno”.

“Si può imparare a sostenere il proprio punto di vista davanti all’altro che non è d’accordo anche se è faticoso e richiede impegno e intenzionalità. La nostra tendenza è stare con i simili, rifiutare i diversi, cercare conferme, fuggire da chi mette in dubbio i nostri assunti.

Una volta riconosciuto in noi questo istinto, ci si può lavorare, scoprendo ad esempio che le migliori idee nella vita di solito le abbiamo a seguito di un confronto o di una divergenza. Nessuno di noi vive come un intellettuale solitario in una torre. Conoscere è spesso “scontrarsi” con un pezzo di realtà che non si era notato fino a quel momento; spesso è proprio qualcuno con una prospettiva opposta a mostrarcelo”.

Mastroianni propone quattro strumenti per costruire un confronto pacifico.

La prima è interpretare se stessi, cioè affrontare i confronti dal proprio punto di vista, con le proprie competenze reali e sugli argomenti che veramente conosciamo.

La seconda è rompere le bolle, cercare cioè di uscire dalla zona di sicurezza delle proprie certezze e prendere per buoni gli argomenti dell’altro, rispondendo ad essi con il ragionamento e non per reazione.

La terza è sovvertire: cercare sia di rielaborare le proprie tesi in modo nuovi e più comprensibili, sia essere distaccati e autoironici, riconoscendo i limiti delle proprie argomentazioni.

Infine la quarta: scendere dai pulpiti. In una discussione, soprattutto online, non conta il ruolo, non contano gli studi, non contano gli anni di esperienza: bisogna argomentare con semplicità sul campo, accettando la sfida del dibattito senza mediazioni in cui si è tutti, in qualche modo, alla pari”.

 

La comunicazione

La comunicazione (6) è una realtà che riguarda il nostro essere persona ed è un’esigenza che caratterizza da sempre l’uomo.

Non esistono solo le relazioni sui social media, anche di esse si parla tanto, esistono soprattutto reazioni nella vita reale, a partire da quella coniugale. Sono confrontandomi con l'altro ho la possibilità di conoscermi, è solo nell'incontro che mi viene rivelato chi sono realmente.

Nell'istante che entro in comunicazione con l'altro mi misuro con lui e, da questo confronto, possono nascere diverse modalità di comunicazione che sono frutto dell'immagine che io ho dell'altro.

Le modalità positive sono lo scambio e il confronto.

Nel primo caso “l'altro per me è una ricchezza”, il relazionarmi con lui mi arricchisce, mi dà soddisfazione. Nel secondo, pur cogliendo che “l'altro non è uguale a me”, la differenza favorisce l'integrazione dei diversi punti di vista.

Ma la comunicazione può anche essere fonte di ostilità e conflitto.

Questo accade quando “l'altro mi penalizza ed è cattivo”, se sento l'altro come “nemico” mi chiudo in me stesso. Oppure voglio emarginare il mio interlocutore per cui “lo ignoro”. Oppure ancora mi limito a sopportarlo perché l'altro “mi dà fastidio”.

L'impegno diventa quindi quello di coltivare atteggiamenti positivi verso gli altri (p.e. la fiducia: ritenere l’altro un interlocutore valido e degno di rispetto, anche quando mi fa soffrire) per poter crescere nello scambio e nel confronto.

 

Cosa davvero conta

Vi sono alcuni assiomi che sono alla base del processo di comunicazione e senza i quali la comunicazione non può aver luogo. Il primo, più scontato, è il “comunicare”. Questo non vuol dire che obbligatoriamente si debba parlare, si comunica anche tacendo (come pesano i silenzi nella coppia!). E quando si parla è importante l’assertività, cioè la capacita di comunicare all’altro, nel rispetto reciproco, bisogni, esigenze, sentimenti...

Il secondo riguarda sia il contenuto - ciò che ti dico - sia la relazione - come mi porgo davanti a te -. Posso ripetere all'infinito all'altro che gli voglio bene ma se lo dico in modo svogliato o senza gesti di tenerezza faccio intendere esattamente il contrario.

Il terzo, in qualche modo già anticipato, riguarda il linguaggio che può essere verbale o non verbale.

Nella comunicazione (non in quella virtuale!) il linguaggio non verbale ha un ruolo fondamentale: quello che dico è importante ma se il mio corpo, il mio atteggiamento, trasmette all'altro un messaggio di segno opposto a quanto dico, prevale questo secondo messaggio.

 

Una comunicazione efficace

Perché una comunicazione sia efficace è necessario che: le modalità siano quelle dello scambio o del confronto, vi sia un ascolto attento, la qualità del contenuto di ciò che viene detto e del modo con cui viene detto sia buona, si risponda in modo adeguato (feed-back).

Un ascolto attento

Ascoltare significa prestare attenzione a ciò che l'altro dice, l'attenzione deve risultare a livello fisico (non ti posso sbadigliare in faccia!), a ciò che l'altro ci comunica con il suo corpo (il linguaggio non verbale!), all'ascolto vero e proprio. Per ascoltare bene devo sospendere il giudizio (non farmi immagini preconcette dell'altro!) e devo concentrarmi su tutti gli elementi che l'altro mi comunica (chi, cosa, perché… quando, come, dove…).

Il feed-back

Quando uno parla si aspetta una risposta dal suo interlocutore. Le risposte che noi forniamo all'altro dopo averlo ascoltato (feed-back) possono essere positive o negative. Sono feed-back positivi: chiedere ulteriori informazioni (per poter capire meglio), manifestare una relazione personale (comunicare quello che il messaggio ricevuto ha fatto risuonare in me, i sentimenti che ho provato).

Un feed-back che può essere o positivo o negativo è la reazione giudicante: do un giudizio su quello che l'altro mi ha detto. Il rischio è che se il giudizio è positivo l'altro si senta rafforzato in un atteggiamento magari errato, se è negativo l'altro si senta rifiutato e si chiuda in se stesso.

Sono feed-back negativi quello forzato - non giudico quello che l'altro ha detto, ma l'intera persona - e quello interpretante - se interpreto male l'altro si sente non solo non capito ma anche preso in giro!-.

 

Comunicare il bene

Come abbiamo visto, comunicare bene non è facile. Comunicare il Vangelo, il bene, ancora di meno. Ma possiamo cogliere qualche insegnamento dalle parole che, recentemente, papa Francesco ha rivolto ad alcuni specialisti della comunicazione (7). “Si comunica con l’anima e col corpo, con la mente, col cuore, con le mani, si comunica con tutto”, ha affermato, sottolineando poi che “la comunicazione più grande è l’amore”. Bergoglio ha infine invitato a non fare proselitismo. “Se volete comunicare senza coinvolgervi, senza testimoniare con la vostra vita, la vostra carne, fermatevi, non fatelo! C’è sempre la firma della testimonianza in ognuna delle cose che facciamo: testimoni cristiani vuol dire cristiani martiri. È questa la dimensione martoriale della nostra vocazione”.

 

(1) Fonte: #diariopendolare, 4 novembre 2019

(2) Fonte: https://www.nonsprecare.it/diffidenza-verso-gli-altri-degli-italiani-svantaggi

(3) Fonte: https://paroleostili.it/abbasso-il-pollice/

(4) Fonte: http://www.exagere.it/la-mossa-del-gattino-lautoironia-per-alleggerire-il-sovraccarico-nelle-discussioni-online/

(5) Fonte: http://www.francocesatieditore.com/catalogo/la-disputa-felice/

Vedi anche: https://www.letture.org/la-disputa-felice-dissentire-senza-litigare-sui-social-network-sui-media-e-in-pubblico-bruno-mastroianni/

(6) Sintesi tratta dalle dispense di: Cervellini Luigi, Psicologia della relazione umana, ISSR Torino, anno 2004-2005.

Vedi anche: http://www.gruppifamiglia.it/anno2007/La%20comunicazione.htm

(7) Fonte: https://agensir.it/quotidiano/2019/9/23/papa-francesco-a-dicastero-per-la-comunicazione-voi-siete-specialisti-non-dovete-fare-pubblicita-ne-proselitismo/

 

Per il lavoro di coppia e di gruppo

•          In quali situazioni ci capita di temere gli altri?

•          Quali tecniche adottiamo per evitare di trasformare ogni discussione in un litigio?

•          In quali occasioni ci capita di non ascoltare con attenzione quello che ci dice chi ci sta di fronte?

 

9-IL MANIFESTO DELLA COMUNICAZIONE NON OSTILE

1          Virtuale è reale

Dico e scrivo in rete solo cose che ho il coraggio di dire di persona.

2          Si è ciò che si comunica

Le parole che scelgo raccontano la persona che sono: mi rappresentano.

3          Le parole danno forma al pensiero

Mi prendo tutto il tempo necessario a esprimere al meglio quel che penso.

4          Prima di parlare bisogna ascoltare

Nessuno ha sempre ragione, neanch’io. Ascolto con onestà e apertura.

5          Le parole sono un ponte

Scelgo le parole per comprendere, farmi capire, avvicinarmi agli altri.

6          Le parole hanno conseguenze

So che ogni mia parola può avere conseguenze, piccole o grandi.

7          Condividere è una responsabilità

Condivido testi e immagini solo dopo averli letti, valutati, compresi.

8          Le idee si possono discutere. Le persone si devono rispettare

Non trasformo chi sostiene opinioni che non condivido in un nemico da annientare.

9          Gli insulti non sono argomenti

Non accetto insulti e aggressività, nemmeno a favore della mia tesi.

10        Anche il silenzio comunica

Quando la scelta migliore è tacere, taccio.

Fonte: https://paroleostili.it/manifesto/

 

10-ESODO AFRICANO VERSO L’EUROPA?

Semplicemente non c’è, e non ci sarà. I fenomeni migratori sono realtà complesse, non argomenti da bar Sport

 

A cura della Redazione

Abbiamo tutti negli occhi le scene di soccorso in mare al largo di Lampedusa. Barconi, grossi gommoni pieni di gente di colore, salvagente arancione, mani tese. Abbiamo anche presente le tendopoli dei braccianti nel Sud Italia. Anche qui tanti uomini di colore.

Finiremo per essere invasi dagli africani, giovani, vigorosi, determinati?

Prima di provare a rispondere facciamo un passo indietro.

 

Quando ad emigrare eravamo noi

L'emigrazione italiana è stato un fenomeno che, iniziato nell’Ottocento, è durato sino agli anni sessanta del secolo scorso e, purtroppo, sta riprendendo.

Ha riguardato dapprima il Nord Italia e, dopo il 1880, anche il Sud (1).

La causa principale dell'emigrazione di allora fu la povertà dovuta alla mancanza di terra da lavorare, al Sud a causa dei latifondi, al Sud e al Nord-Est anche a causa dei contratti agricoli, penalizzanti per chi lavorava la terra non sua.

Un’altra causa fu la sovrappopolazione. Con l’unità d’Italia migliorarono le condizioni socio-economiche del Paese. Ciò portò a una crescita demografica, che spinse le nuove generazioni, tra la fine del XIX secolo e l'inizio del XX secolo, ad emigrare all'estero, soprattutto nelle Americhe.

Nei primi anni dopo l'Unità d'Italia l'emigrazione non era controllata dallo Stato. Gli emigranti erano spesso nelle mani di agenti di emigrazione il cui obiettivo era fare profitto per sé stessi senza curarsi più di tanto degli interessi degli emigranti.

Le notizie sulle Americhe, prefabbricate dalle compagnie di navigazione e dai consolati esteri dei paesi interessati, venivano filtrate attraverso gli agenti di emigrazione e ribadite poi nelle innumerevoli discussioni tra conoscenti (2).

“Molte famiglie di contadini”, denunciava nel 1873 la “circolare Lanza”, “sedotte da promesse ingannevoli, vendono le masserizie e persino parte dei loro indumenti per pagare il prezzo del viaggio a speculatori, che poi li imbarcano press’a poco a somiglianza di mandrie, e quando non li abbiano abbandonati in qualche porto intermedio, li sbarcano in America, ove, per magre anticipazioni, quei disgraziati cadono in balìa di altri speculatori che ne traggono il miglior partito per sé, togliendo ad essi ogni libertà e lasciandoli nella miseria”.

Solo nel 1901 fu creato il commissariato dell'emigrazione, che migliorò la situazione dei migranti, offrendo loro aiuti concreti.

 

Quando ad emigrare sono gli africani

Quanto accadde agli italiani si ripete, fatte le dovute differenze, in ogni esperienza di migrazione, come quella africana.

Nella maggioranza di quei paesi (3) l’aumento della natalità è tale da comportare un raddoppio della popolazione ogni 25-30 anni. Questa tumultuosa crescita rende molto difficile far uscire dalla povertà buona parte della popolazione.

In più, a causa della cattiva distribuzione delle risorse idriche e delle condizioni climatiche, l’agricoltura è poco sviluppata e praticata per lo più a scopo di mera sussistenza.

A questo si aggiungono i conflitti armati nella forma di guerre civili, golpe militari, scontri fra nazioni.

Però non sono i più poveri che provano “a migrare, ma le classi più benestanti che possono permetterselo, coloro che ormai sono ‘emersi dalla sussistenza’ e possono pagare per intraprendere un viaggio oltre il continente, oppure coloro che godono di ‘reti di supporto’, cioè comunità di africani già residenti in Europa che facilitano la migrazione” (4).

“Il problema non è il reddito in sé, quanto la differenza tra il proprio reddito e la percezione di quanto maggiore questo potrebbe essere una volta in Europa. Per quanto ciò possa sembrare sorprendente, se non addirittura ‘offensivo’, si tratta di una élite migrante, anche se una ‘élite della disperazione’ ” (5).

Il viaggio e la traversata via mare costano, e se non hai i soldi corri il rischio di finire male.

“Durante il viaggio verso la Libia attraverso vari paesi africani i migranti rischiano di essere rapiti o costretti alla schiavitù”, scrive il giornalista Patrick Kingsley (6). E aggiunge: “Girano molte storie di trafficanti che hanno abbandonato i loro ‘clienti’ tra le dune del deserto, lasciandoli morire di sete. Indicativamente ci sono due modi per raggiungere la Libia. Il più rapido e il più costoso è compiere il viaggio tutto in una volta, a bordo di diversi pick-up. Altri migranti ci arrivano facendo delle tappe intermedie, fermandosi quindi per diversi mesi in altri paesi per guadagnare i soldi necessari a proseguire il viaggio”.

Così molti “uomini e donne che arrivano in Libia sono già depredati di ogni loro avere durante il viaggio nel Sahel o nel Sahara, e hanno già assistito a numerose morti violente o per stenti durante l’itinerario compiuto”, scrive Nigrizia (7). E continua: “Ora si tratta di convincerli, attraverso l’intimidazione, che la loro unica speranza è di sottoporsi disciplinatamente a un duro periodo di lavori forzati gratuiti, la cui retribuzione consisterà, dopo sei mesi o un anno, in un passaggio su imbarcazioni malsicure verso la sponda nord del Mediterraneo”.

Ebbene sì, anche per gli africani, fatte le dovute differenze, l’esperienza migratoria non è una passeggiata.

 

Chi emigra in Italia

Emigrare sarà faticoso, a volte anche mortale - secondo UNHCR 1 ogni 18 migranti perde la vita nella traversata dal nord Africa all’Italia - ma chi ci dice che non ci invaderanno? Lo dicono i numeri.

“I migranti di origine africana sono solo il 14,1% del totale dei migranti nel mondo nel 2017, rispetto al 23,7% di origine europea. Inoltre, il 70% degli emigranti africani rimane all’interno del continente e, del restante 30%, solo 1 su 4 sceglie l’Europa come meta di arrivo”, sottolinea uno studio del think-tank Tortuga (8). Che continua: “In Italia a fine 2018, secondo l’Istat, erano presenti 5.144.440 stranieri regolari, corrispondenti all’8,5% della popolazione italiana. Di questi, quasi il 40% era di origine rumena, albanese o marocchina, le tre cittadinanze più numerose, mentre il 19% veniva da un altro paese dell’Unione Europea.

I migranti di origine sub-sahariana, gli africani per intenderci, rappresentavano invece 8,6% degli stranieri e lo 0,7% della popolazione totale residente in Italia”.

 

Raccontare l’immigrazione

“Quando si parla di immigrazione in Italia” afferma Michele Colucci, intervistato da Annalisa Camilli (9), “si commette spesso l’errore di pensare che si tratti di un fenomeno recente. Invece si tratta di un fenomeno strutturale da almeno 25 anni” molto articolato e che ha origine con il boom economico del Paese.

“I cinque milioni di cittadini di origine straniera presenti in Italia nel 2018, non sono arrivati tutti insieme, ma sono il frutto di un processo molto lungo. L’immigrazione in Italia ormai è arrivata alle terze generazioni, mentre i media stanno ancora parlando delle seconde”, continua Colucci.

“Nel corso degli anni sessanta e dei primi anni settanta del novecento si registrano i primi movimenti migratori verso l’Italia. Questi primi flussi sono interessanti soprattutto per il tipo di persone che arrivano: si tratta di donne che s’inseriscono nel settore del lavoro domestico, arrivano dalle ex colonie italiane o da altri paesi africani come Capo Verde. Anche in Italia come in altri paesi europei c’è un rapporto molto stretto tra decolonizzazione e immigrazione.

Mentre l’immigrazione cresce senza una legge che se ne occupi, nel 1978 esce il primo rapporto del Censis sui lavoratori stranieri in Italia e si scopre con sorpresa che gli stranieri sono circa mezzo milione. Un fenomeno sul piano quantitativo tutt’altro che marginale, di cui fino a quel momento non ci si era resi conto”.

“Negli altri paesi europei l’immigrazione straniera si è concentrata in luoghi molto visibili: vicino alle grandi fabbriche, nelle grandi città. Questa visibilità ha provocato scontri, ma ha anche stimolato il dibattito”, spiega Colucci. “In Italia invece l’immigrazione è rimasta in qualche modo sottotraccia, non legata allo sviluppo industriale del paese, ma allo stesso tempo con una diffusione maggiore sull’intero territorio nazionale, anche in zone marginali: In Italia si è sempre trattato di un mosaico di nazionalità, niente di simile al fenomeno più omogeneo delle comunità magrebine in Francia o di quella turca in Germania. E fin dall’inizio gli immigrati hanno trovato impiego in settori meno strutturati come il lavoro domestico o l’agricoltura”.

 

L’immigrazione e la società

“Oggi vediamo delle navi con qualche decina di persone a bordo, che non possono attraccare nei porti italiani e che suscitano isteria tra i politici e nell’opinione pubblica”, continua Colucci. “Sembra inconcepibile, se pensiamo che nel 2002 un governo di centrodestra regolarizzò con una sanatoria quasi 700mila persone. Questa è una strategia ricorrente dei governi italiani: nel 2002 da una parte si approvò la legge Bossi-Fini (che modificò in senso restrittivo la Turco-Napolitano) e contemporaneamente si regolarizzarono centinaia di migliaia di migranti irregolari”.

Non vogliamo rifare qui la storia dell’immigrazione in Italia dal dopoguerra ad oggi, perciò ci limitiamo a fare nostre quelle che sono le conclusioni di Colussi su questo tema (10).

Si può restare in Italia attraverso due canali: i visti di lavoro e richiesta di asilo o protezione umanitaria.

Nel primo caso l’Italia non ha mai avuto una politica attiva di reclutamento di lavoro straniero e ha scelto lo strumento della periodica sanatoria come elemento di regolazione dei flussi migratori. Questo strumento è stato poi sostanzialmente accantonato a seguito della crisi economica del 2008.

Nel secondo caso il governo dei flussi legati al diritto d’asilo ha conosciuto una fase di eccezionale restrizione fino al 1990 per poi diventare quello più praticato parallelamente alla chiusura dei flussi legati al lavoro.

La legislazione nazionale ha sistematicamente privilegiato le norme relative ad ingresso ed espulsione e ha delegato agli enti locali e al privato sociale le politiche di integrazione. A livello di Stato, l’accoglienza - quando c’è stata - non è stata accompagnata da un cammino di integrazione, così il fenomeno migratorio è stato gestito in modo parcellizzato e parziale.

Allo stesso modo le mobilitazioni sociali e la partecipazione dell’opinione pubblica hanno influenzato enormemente le scelte politiche, sia nelle fasi in cui è stato particolarmente forte l’attivismo rivendicativo degli immigrati stranieri e delle realtà che lo hanno sostenuto, sia nelle stagioni in cui hanno prevalso le ragioni dei fautori di scelte restrittive.

 

L’immigrazione e la Chiesa

Sappiamo quanto Papa Francesco abbia a cuore gli ultimi, gli “scartati”.

Ne abbiamo una testimonianza precisa nel suo messaggio per la giornata mondiale del migrante e del rifugiato 2018 (11) che ruota intorno a quattro verbi: accogliere, proteggere, promuovere e integrare.

Scrive il Papa: “Accogliere significa innanzitutto offrire a migranti e rifugiati possibilità più ampie di ingresso sicuro e legale nei paesi di destinazione. In tal senso, è desiderabile un impegno concreto affinché sia incrementata e semplificata la concessione di visti umanitari e per il ricongiungimento familiare. Torno a sottolineare l’importanza di offrire a migranti e rifugiati una prima sistemazione adeguata e decorosa” come “i programmi di accoglienza diffusa, già avviati in diverse località, che facilitano l’incontro personale, permettono una migliore qualità dei servizi e offrono maggiori garanzie di successo”.

“Il secondo verbo, proteggere, si declina in tutta una serie di azioni in difesa dei diritti e della dignità dei migranti e dei rifugiati, indipendentemente dal loro status migratorio. Tale protezione comincia in patria e consiste nell’offerta di informazioni certe e certificate prima della partenza e nella loro salvaguardia dalle pratiche di reclutamento illegale. Essa andrebbe continuata, per quanto possibile, in terra d’immigrazione, assicurando ai migranti un’adeguata assistenza consolare, il diritto di conservare sempre con sé i documenti, un equo accesso alla giustizia, la possibilità di aprire conti bancari personali e la garanzia di una minima sussistenza vitale”.

Promuovere vuol dire essenzialmente adoperarsi affinché tutti i migranti e i rifugiati così come le comunità che li accolgono siano messi in condizione di realizzarsi come persone in tutte le dimensioni che compongono l’umanità voluta dal Creatore”.

Siccome ‘il lavoro umano per sua natura è destinato ad unire i popoli’, incoraggio a prodigarsi affinché venga promosso l’inserimento socio-lavorativo dei migranti e rifugiati, garantendo a tutti – compresi i richiedenti asilo – la possibilità di lavorare, percorsi formativi linguistici e di cittadinanza attiva e un’informazione adeguata nelle loro lingue originali”.

“L’ultimo verbo, integrare, si pone sul piano delle opportunità di arricchimento interculturale generate dalla presenza di migranti e rifugiati.

L’integrazione, come scriveva già San Giovanni Paolo II, “non è un’assimilazione, che induce a sopprimere o a dimenticare la propria identità culturale. Il contatto con l’altro porta piuttosto a scoprirne il ‘segreto’, ad aprirsi a lui per accoglierne gli aspetti validi e contribuire così ad una maggior conoscenza reciproca”.

 

Accoglienza e prudenza

Ma papa Francesco è un uomo concreto che sa distinguere il piano degli ideali da quello della concretezza quotidiana.

Così, nella conferenza stampa tenuta nel volo di ritorno dal viaggio in Irlanda il 27 agosto 2018 (12) ha affermato: “Accogliere i migranti è una cosa antica come la Bibbia. […] È un principio morale”. Ma non “si tratta di accogliere alla ‘belle étoile’ (13), ma di un’accoglienza ragionevole”.

Se si accoglie senza integrare si possono generare mostri. “I ragazzi che hanno fatto l’attentato a Zaventem (31 morti e almeno 250 feriti) erano belgi, ma figli di immigrati non integrati, ghettizzati. Erano stati accolti in Belgio ma lasciati lì, e hanno fatto un ghetto”.

Un esempio positivo è quello svedese che Francesco conosce bene. “Durante la dittatura in Argentina, dal 1976 al 1983, tanti argentini e anche uruguayani sono fuggiti in Svezia. E il governo di quel paese ha fatto loro studiare la lingua e dato loro lavoro, li ha integrati”, anche se riconosce che ora le cose sono cambiate.

E, a questo punto, fa riferimento alla virtù della prudenza “che è la virtù del governante. Se un popolo può accogliere ma non ha possibilità di integrare, è meglio non accolga”.

Occorre coniugare accoglienza e prudenza.

 

(1) Fonte: https://it.wikipedia.org/wiki/Emigrazione_italiana

(2) Fonte: https://revistapolis.ro/il-ruolo-degli-agenti-di-emigrazione-e-delle-compagnie-di-navigazione-nei-flussi-in-uscita-dallitalia-sino-alla-prima-guerra-mondiale/

(3) Fonte: https://it.wikipedia.org/wiki/Povert%C3%A0_in_Africa

(4) Fonte: http://blog.ilgiornale.it/rossi/2018/07/04/leuropa-sara-africana-lo-vuole-lelite/

(5) Fonte: https://www.sinistrainrete.info/societa/14873-militant-storia-dell-immigrazione-straniera-in-italia.html

(6) Fonte: https://www.ilpost.it/2015/04/27/traffico-migranti-scafisti-mediterraneo/

(7) Fonte: http://www.nigrizia.it/notizia/lager-libici-immagini-funzionali-alla-sottomissione

(8) Fonte: https://www.lastampa.it/cronaca/2019/07/08/news/ecco-perche-i-migranti-fuggono-dall-africa-1.36736167

(9) Fonte: https://www.internazionale.it/bloc-notes/annalisa-camilli/2018/10/10/storia-immigrazione-italia

(10) Fonte: Corso di Formazione "Linee di pastorale migratoria 2019". Fondazione Migrantes

(11) Fonte: http://www.vatican.va/content/francesco/it/messages/migration/documents/papa-francesco_20170815_world-migrants-day-2018.html

(12) Fonte. https://www.assisiofm.it/news-il-papa-e-san-francesco-tra-accoglienza-e-prudenza.html

(13) La frase era usata in passato in modo ironico e che veniva usata come se La Belle Etoile fosse il nome di una locanda. Mentre si dormiva sotto le stelle, vale a dire all'aria aperta, il soffitto delle "stanze" era il cielo pieno di stelle.

 

Per il lavoro di coppia e di gruppo

•          Il tema delle migrazioni è complesso: ne siamo consapevoli o tendiamo a banalizzare?

•          Che sentimenti serpeggiano su questo tema nella nostra comunità?

•          La nostra Chiesa locale fa abbastanza, troppo poco, oppure esagera nell’accoglienza?

 

11-I FLUSSI MIGRATORI VERSO L’EUROPA

Nel corso degli ultimi 10 anni, la rotta orientale verso la Grecia è stata quella maggiormente percorsa, con 1,2 milioni di arrivi dal 2009. Più delle altre due rotte sommate insieme (Italia e Spagna). Il 73% di questi arrivi risale al 2015 a causa dei conflitti in corso in Siria, Iraq e Afghanistan.

Il flusso da questa direzione ha iniziato a scemare nel 2016, in seguito ad un accordo tra Turchia e Unione Europea.

Il secondo canale più percorso dalle migrazioni, è quello che porta dal nord Africa all’Italia. Dal 2009 infatti sono arrivati 780mila migranti, anche se quest’anno i numeri sono calati: i 20mila sbarcati hanno rappresentato il numero più basso di arrivi dal 2012.

Ad ogni modo, dopo un picco nel 2015, le migrazioni verso l’Europa sono calate di molto.

Fonte: www.documentazione.info

 

12-IMMIGRAZIONE E DISINFORMAZIONE

Il tema dell’immigrazione è oggi uno degli ambiti in cui più si misurano i problemi della disinformazione, delle fake news e dei discorsi d’odio (hate speech). Basti pensare che, secondo una rilevazione di Amnesty International, durante la campagna elettorale delle elezioni politiche 2018 si sono registrati 787 commenti e dichiarazioni di incitamento all’odio, il 91% delle quali ha avuto come oggetto i migranti. Fra i più colpiti dall’odio online anche singoli individui o gruppi impegnati in attività solidaristica o di tipo umanitario, i musulmani, gli ebrei, le donne e i rom. Una situazione che si ripropone anche su Twitter, dove il 32% dei tweet (messaggi) negativi prende di mira i migranti: vale a dire che un hater su tre si scatena contro “lo straniero”.

Dal XXVIII Rapporto Immigrazione 2018-2019 Caritas e Migrantes
 

 

13-CAMPI NOMADI. DA RADERE AL SUOLO?

Comunità che non si lasciano integrare o che non viene loro permesso di integrarsi?

Le “fatiche” per superare secoli di discriminazioni e di pregiudizi

 

a cura della Redazione

Se ci sentiamo invasi dagli africani, cosa proviamo nei confronti dei Rom?

Lo riassume molto “bene” una dichiarazione di Riccardo De Corato, dal 2018 assessore regionale alla sicurezza della Regione Lombardia, fatta nel 2017 (1) commentando un fatto di cronaca riguardante un giovane sinto: “Come dimostra questa vicenda, in determinate culture, la delinquenza s’impara fin da giovani […] In questi anni, accanto a notizie di cronaca che vedevano le diverse etnie nomadi al centro di vicende criminose, abbiamo letto di iniziative, pagate con i soldi dei contribuenti, a loro favore [...] Come possono certi Comuni continuare a fornire sostegno a queste persone? Ben sapendo quanto comportamenti criminosi siano insiti nel loro stile di vita?”.

Ma è davvero così?

 

Un po’ di Storia

I Rom e i Sinti (2) sono due gruppi etnici conosciuti anche come "gitano" o "zingaro", e sono anticamente originari dell'India del nord.

La caratteristica comune di queste comunità è che parlano - o è attestato che nei secoli scorsi parlassero - dialetti legati alla lingua "Romaní", che deriva da varianti popolari del sanscrito.

Si ritiene che abbiano lasciato l'India all'inizio dell'undicesimo secolo per giungere in Asia Minore alla fine dello stesso secolo e quindi nei secoli successivi migrare attraverso l'Impero Bizantino in Europa.

I Rom propriamente detti sono presenti principalmente nei Balcani, in Europa centrale e in Europa orientale, mentre i Sinti sono stanziati soprattutto nei paesi dell'Europa occidentale.

La loro storia è una storia di oppressione che va dalla discriminazione quotidiana e persecuzione razzista fino agli internamenti operati dal regime fascista e al genocidio sistematico, perpetrato dal regime nazista. Fin dal loro arrivo in Europa gli “zingari” sono stati definiti “stranieri pericolosi” e sono stati accusati di spionaggio, stregoneria, di essere creature diaboliche e spaventose, così come di rifiutare di lavorare per la loro “predisposizione al furto”.

Le istituzioni che si occupano oggi dei Rom si trovano spesso ad affrontare il problema di un'opinione pubblica ostile, orientata a considerare solo i “dati antisociali” e le “statistiche criminali”, con la conseguenza di individuare nella condizione dei Rom un fenomeno di devianza sociale. Il risultato è l'assenza di una politica di “reale inclusione”.

 

Le difficoltà dell’inclusione

I Rom vivono in un mondo diverso, parallelo a quello dei gagè, le popolazioni presso cui si insediano. La relazione con i gagè è una relazione che non è di "confine", in quanto non vi sono “territori rom” e “territori non-rom”; né può essere definita una relazione coloniale, in quanto i gagè non hanno mai conquistato i Rom, né viceversa. Le popolazioni non-rom costituiscono l'ambiente sociale dove vivono i Rom.

In questo ambiente sociale i Rom preferiscono chiudersi in una struttura che permette loro, da un lato, di resistere a tutti i tentativi di genocidio culturale, dall'altro, a sfruttare con successo le risorse economiche e territoriali dei gagè, collocandosi in tutte le nicchie nelle quali intravedono una possibilità.

A costruire l'immagine negativa del popolo Rom contribuisce anche l'accattonaggio, specie se affidato a minori o a donne anziane. Ciò crea molta diffidenza da parte dei gagè: “siccome pare che in quella comunità ci sia più devianza, non mi fido e non do loro lavoro”. Quindi i Rom non hanno vie di uscita e ripiombano in comportamenti, come l'accattonaggio, fastidiosi per la maggioranza o si procurano reddito con atti delittuosi di varia gravità che rinforzano il pregiudizio nei loro confronti.

Ai pregiudizi esterni si sommano difficoltà culturali interne (3).

I rapporti di parentela sono molto forti e non è facile “uscirne”, operando scelte contro-corrente. Infatti, la fine di questi legami è sentita più come una rottura dolorosa che come una semplice dissoluzione. Ciò è ben visibile anche nei “campi-nomadi” allestiti dagli enti locali e persino nell’occupazione degli alloggi popolari.

È significativo (4) che, quando ciò accade, tendono a scambiarli con altri fino a ricostruire il gruppo nello stesso palazzo; chi non vi riesce, preferisce lasciare l’appartamento e tornare nella baraccopoli per evitare l’isolamento sociale e culturale. Questo naturalmente con grave scandalo delle autorità assegnatarie e dei benpensanti, che non riescono a capire come la sopravvivenza etnica sia più importante delle comodità individuali.

Nascono così condomini, quando non addirittura quartieri, ghetto.

Un esempio eclatante è costituito dal piccolo quartiere di Ciambra (5), alla periferia di Gioia Tauro, un agglomerato di case popolari cadenti e prive dei servizi essenziali, dove dagli inizi degli anni Novanta vivono 260 Rom italiani, su un totale stimato di 600 abitanti, tra cui 100 e più minori.

 

Le proposte di inclusione

Nel caso dei Rom cosa si intende per inclusione? Che accettino le regole del resto della società, mandino i figli a scuola, abbiano un lavoro regolare, si facciano curare.

Non si ha nessuna intenzione di mettere in discussione le loro particolarità etniche e si prende come modello quanto fatto in Spagna dopo la caduta della dittatura franchista.

Il governo spagnolo (6) ha beneficiato le famiglie Rom, non per la loro condizione di gitani bensì perché cittadini con maggiori difficoltà.

Di conseguenza ha messo in atto misure parallele, specificatamente indirizzate alla comunità Rom, per correggere gli svantaggi di partenza. Si sono sviluppate soluzioni adeguate alle esigenze dei Rom in settori quali l’istruzione, l’alloggio, l’accesso al lavoro e la tutela della salute. Misure che perseguono un obiettivo di normalizzazione e non di segregazione.

I risultati spagnoli, dopo trent’anni di programmi governativi, non sono di poco conto:

il 92% dei gitani vive in appartamenti o case normali, e per circa la metà i Rom ne sono proprietari; il 50% dei lavoratori Rom già nel 2005 era regolarmente impiegato, a dispetto del “mito” che, quale “nomade”, un Rom non può mantenere un impiego stabile.

Infine, praticamente tutti i bambini gitani sono iscritti alle scuole elementari e possono contare sulla presenza di mediatori che facilitano l’inserimento.

Perché ha funzionato il modello spagnolo? Le ragioni sono molteplici e non semplici da esportare.

Nonostante secoli di emarginazione, i gitani sono parte integrante della cultura spagnola, pensiamo alla musica e alla danza.

I governi, prescindendo dal gruppo politico al potere, hanno perseguito con costanza l’obiettivo di arrivare a dare la piena cittadinanza ai Rom, anche sostenendo costi economici importanti; si parla di 130 milioni di dollari fra il 2007 ed il 2013, di cui 60 milioni provenienti da fondi europei.

Quanto questi elementi sono presenti in Italia? Quante amministrazioni hanno il know-how e capacità amministrativa per assorbire i fondi comunitari? Quante riescono a godere dell’appoggio da parte della società civile e a coinvolgere le comunità Rom?

Ci sta provando Torino, con l’impegno congiunto di Prefettura, Comune, Regione e Diocesi (7), che ha portato alla firma di un protocollo per il superamento dei campi Rom in città e in Piemonte.

 

La Chiesa e i Rom

L’arcivescovo di Torino, mons. Cesare Nosiglia, già nel 2012 aveva dedicato una lettera pastorale al tema dei Rom e dei Sinti (8).

In essa scriveva: “Conosco le vostre sofferenze, le umiliazioni, le difficoltà, ma anche i vostri sogni, le vostre speranze, la fatica di raggiungere una vita migliore”.

“Vi chiediamo di avere fiducia: è importante che impariate la nostra lingua, che possiamo parlare insieme e comprenderci, è importante che i vostri bambini possano studiare e imparare a vivere insieme agli altri, è importante che vi prendiate cura della vostra salute, è importante che impariate un mestiere e possiate guadagnarvi onestamente da vivere del vostro lavoro”.

E ai torinesi chiedeva: “Se qualcuno facesse amicizia, fosse disponibile a superare l’imbarazzo dell’estraneità, il muro del pregiudizio; se qualcuno si facesse prossimo di questi poveri così vicini, ma così lontani dall’affetto fraterno delle nostre comunità cristiane… forse per tanti Rom e Sinti la vita potrebbe cambiare, forse tanti giovani potrebbero avere almeno un’opportunità nella vita, forse anche tutti noi saremmo arricchiti della presenza del Signore: ‘Avevo fame, avevo sete, ero nudo, ero malato, ero forestiero, ero in carcere…’ ”.

Il 16 dicembre u.s., in occasione della firma del protocollo d’intesa di cui sopra, Nosiglia ha dichiarato (9): “È giusto che tutti rispettino le regole, come è altrettanto importante offrire a tutti un accompagnamento all'indipendenza e al lavoro. L’inclusione nel tessuto sociale della città deve tenere conto delle differenze culturali. per questo servirà un approccio graduale e paziente”.

La diocesi promette spazi, case e terreni, attraverso i progetti di accoglienza diffusa nelle parrocchie e nelle comunità religiose; sono previsti anche tirocini formativi e aiuti per l'apprendimento e il perfezionamento della lingua italiana.

Anche papa Francesco ha a cuore i Rom e i Sinti. Incontrandoli 9 maggio u.s. in Vaticano (10), ha dichiarato che effettivamente “ci sono cittadini di seconda classe. Ma i veri cittadini di seconda classe sono quelli che scartano la gente: sono di seconda classe, perché non sanno abbracciare”.

Ma Francesco conosce molto bene le chiusure presenti all’interno delle comunità Rom. Incontrando a giugno in Romania una comunità Rom (11) l’ha invitata a ricevere tutte le cose buone che gli altri possono offrire e apportare.

“Desidero invitarvi a camminare insieme nella costruzione di un mondo più umano andando oltre le paure e i sospetti, lasciando cadere le barriere che ci separano dagli altri alimentando la fiducia reciproca nella paziente e mai vana ricerca di fraternità. Impegnarsi per camminare insieme, con la dignità: la dignità della famiglia, la dignità di guadagnarsi il pane di ogni giorno – è questo che ti fa andare avanti – e la dignità della preghiera”.

Per incontrarsi bisogna essere in due: è un cammino lungo, graduale e paziente, ma va fatto, da entrambe le parti.

 

(1) I margini del margine. Rapporto 2018. Associazione 21 luglio ONLUS

(2) Fonte: https://it.wikipedia.org/wiki/Rom_(popolo)

(3) Fonte: http://www.romsintimemory.it/assets/files/conosciamo_rom_sinti/la_storia/II.2.a%20ALLEGATO%202%20Piasere,%20breve%20storia%20dei%20rapporti%20tra%20rom%20e%20gage%20in%20Europa.pdf

(4) Fonte: https://www.rivistaetnie.com/sinti-rom-italia/

(5) Fonte: Nadia Ferrigo, La Stampa, 4 marzo 2019

(6) Fonte: https://www.saluteinternazionale.info/2011/02/rom-ed-integrazione-il-modello-spagnolo-e-di-esempio-per-leuropa/

(7) Vedi: https://www.interno.gov.it/it/notizie/verso-superamento-dei-campi-rom-torino-e-piemonte

(8) Vedi: http://www.webdiocesi.chiesacattolica.it/cci_new/documenti_diocesi/203/2012-10/24-46/Lettera%20Mons%20Nosiglia%20nomadi.pdf

(9) Fonte: https://www.lastampa.it/torino/2019/12/16/news/superamento-dei-campi-rom-la-firma-del-protocollo-nella-prefettura-di-torino-1.38218729

(10) Fonte: https://www.vaticannews.va/it/papa/news/2019-05/incontro-papa-francesco-popolo-rom-distanza-mente-cuore.html

(11) Fonte: https://www.vaticannews.va/it/papa/news/2019-06/papa-francesco-romania-incontro-rom-blaj.html

 

Per il lavoro di coppia e di gruppo

•          Che sentimenti provate nei confronti degli “zingari”? Corrispondono al Vangelo?

•          Per voi gli “zingari” sono tutti uguali?

•          Nella vostra comunità si fa qualcosa in loro favore, soprattutto verso i minori?

 

14-IL “LAVORO” DEI ROM

Da un’inchiesta sul lavoro degli uomini presenti nelle comunità Rom del Lazio risulta che il 54.5% svolge attività autonome (38.5% commercio e artigianato, 16% Luna Park); il 5.2% svolge un lavoro dipendente mentre i disoccupati sono il 40.3%.

Va notato che i “disoccupati“ vivono generalmente di accattonaggio o di espedienti. Spesso il peso del mantenimento della famiglia grava praticamente sulle spalle delle donne e dei bambini. I giovani vengono facilmente assorbiti in organizzazioni criminali al rango di “manovalanza” e così ai piccoli furti, che erano i maggiori reati fino a poco tempo fa, ora si aggiungono le rapine, il sequestro di persona, la prostituzione, la droga. Il numero di detenuti zingari sia adulti che minori aumenta in modo allarmante. Su questo processo di devianza influisce in modo rilevante la presenza di quei Rom della Jugoslavia che non svolgono nessuna attività lavorativa e sfruttano bambini appositamente addestrati al furto.

Fonte: https://www.rivistaetnie.com/sinti-rom-italia/

 

15-PARLARE DI ROM NELLE SCUOLE

Popica è un’associazione che si occupa dell’inclusione dei Rom e che ha deciso operare nelle scuole per combattere i pregiudizi nei confronti di questa etnia.

“Abbiamo scelto di svolgere gli incontri con un’impostazione frontale e dinamica, per non annoiare con freddi numeri e dati e soprattutto per far esprimere liberamente gli studenti, consentendo loro di dar sfogo alle loro critiche e obiezioni.

Il problema dell’esclusione sociale, della discriminazione, del pregiudizio, della disinformazione, della persecuzione dei Rom è tutt’altro che risolto. Durante questi incontri, la lavagna si riempiva di ciò che il termine “zingaro” evocava nelle menti degli studenti e, ogni volta, per ogni classe, la discriminazione, il pregiudizio e la disinformazione emergevano feroci. Ma da lì a poco le certezze crollavano, di fronte ai video proiettati, alle immagini di personaggi famosi (grande successo per Pirlo e Ibrahimovic) di origine romanì, fino alle importanti testimonianze dirette di chi ha vissuto e vive nelle baraccopoli di Roma, subendo sgomberi e blitz polizieschi”.

Fonte: http://www.popica.org/?p=433

 

16-MALATI NELLA TESTA

Un malato di mente entra nel manicomio come ‘persona’ per diventare una ‘cosa’. (…) Noi siamo qui per dimenticare di essere psichiatri e per ricordare di essere persone. (Franco Basaglia)

 

A cura della Redazione

Se qualcuno ci definisse normo nevrotici probabilmente non lo prenderemmo come un complimento. Eppure se non reagissimo adeguatamente – senza eccessi e senza carenze – agli stimoli che riceviamo avremmo problemi mentali.

Questa definizione ci ricorda quanto sia sottile il confine che separa l’essere sano dall’essere malato, e come i disturbi mentali più comuni, come ansia o depressione, siano sempre dietro l’angolo.

La fragilità della nostra mente, che è specchio della nostra fragilità creaturale, ci dovrebbe far riflettere sullo stato di coloro che malati di mente lo sono davvero e su cosa significa questo per le loro famiglie.

 

I manicomi

Fino al 1978 per chi era malato di mente c’era praticamente solo il manicomio. Era considerato irrecuperabile e pericoloso socialmente e, pertanto, veniva allontanato dalla società, emarginato e rinchiuso.

In manicomio (1), per molto tempo, ci finirono anche vagabondi, mendicanti, asociali, in genere quelle persone che erano scomode o d’imbarazzo per le loro famiglie o per la comunità in cui vivevano.

Con la legge Basaglia (2) – dal nome dello psichiatra che ne fu l’ispiratore – i manicomi furono chiusi e sostituiti dai servizi di igiene mentale pubblici e si regolamentò il trattamento sanitario obbligatorio.

La legge voleva anche essere un modo per modernizzare l'impostazione clinica dell'assistenza psichiatrica, instaurando rapporti umani rinnovati tra pazienti, il personale e la società, riconoscendo appieno i diritti e la necessità di una vita di qualità per i malati. In altre parole (3), voleva porre fine a metodi di cura prevalentemente basati sulla custodia e il contenimento, riconoscendo invece la necessità di una presa in carico del paziente come persona.

 

Oltre i manicomi

Il passaggio dai manicomi ai servizi di salute mentale non fu indolore. Alberta Basaglia (4) riconosce: “La legge diceva di chiudere i manicomi, dava degli indirizzi generali e spettava poi alle Regioni applicarla, ma molte non l’hanno fatto. Per questo, il principale problema sono stati i politici”.

“Perché la situazione si sanasse in modo decente”, afferma Annibale Crosignani (5), “ci sono voluti dieci anni, fino ai ’90, col sostegno di enti caritatevoli e di associazioni varie.

Ora c’è il servizio di salute mentale, ci sono gli ambulatori ma sono burocratizzati [vedi riquadro a pag.20]. Come se gli ambulatori andassero bene uguali per tutte le specialità. Voglio dire che se uno ha il mal di cuore e gli fissi un appuntamento, verrà. Ma un malato mentale è diverso, non vuole venire o non è capace di venire. Le famiglie, poverette, li spingono, si sforzano: ma ha senso che il medico, lo psichiatra, lo aspetti tranquillamente al suo tavolo alla tal ora? Questa è burocratizzazione del servizio che non tiene conto della malattia reale”.

C’è dell’altro. “Il rapporto sulla salute mentale effettuato nel 2015 dal Ministero della Salute”, scrive Barbara Massaro (6), “ha mappato una penisola in cui il rapporto tra malati, personale medico e assistenti sociali è insufficiente e troppo spesso ancora oggi si ricorre alla terapia farmacologica e, ancora peggio, alla contenzione meccanica (i pazienti vengono legati ai letti) per ovviare a mancanza di fondi e di energie istituzionali orientate alla cura della malattia mentale”.

Più in generale, nella società, “la malattia mentale viene vista ancora con diffidenza e paura perché non viene compresa. Avere in casa un familiare senza una gamba o con il cuore che funziona male è duro da accettare, ma viene affrontato con coraggio e dignità dall'intera sfera affettiva del soggetto interessato.

Invece quando un fratello, un figlio o una moglie è malata mentalmente la vergogna la fa ancora da padrona. Perché mia figlia non mangia? Perché mia moglie è depressa? Perché mio fratello ha una personalità multipla con scatti d'ira e abissi di sofferenza? Il nero del cervello di chi soffre viene vissuto con impotenza e fa paura”.

 

Nuove patologie

Da tempo, in una società dove essere in forma, vivere sempre al top, dare il massimo, sembrano essere i requisiti per riuscire nella vita, aumentano ansia e depressione, bulimia e anoressia, ludopatia, spese compulsive. Questi disturbi si affiancano alle dipendenze classiche: alcool, fumo, sesso patologico, tossicodipendenze.

Non c’è spazio per affrontare in dettaglio tutte queste patologie, che comunque nascondono una malattia mentale più o meno evidente.

Per esempio, nel caso della tossico dipendenza, risulta che “una percentuale del 50-90% sul un campione di pazienti presenta disturbi della personalità (soprattutto disturbi della personalità antisociale), il 20-60% disturbi affettivi e il 15-20% del campione mostra disturbi psicotici”, scrive Giovanni Carollo (7). E conclude: “dall’analisi epidemiologica risulta che le forme psicopatologiche di solito precedono il consumo di droghe”.

 

Il ruolo della comunità

Come affrontare il disagio mentale? Per quanto riguarda la tossicodipendenza papa Francesco (8) ha affermato: “La droga è una ferita nella nostra società, che intrappola molte persone nelle sue reti. Per vincere le dipendenze è necessario un impegno sinergico, che coinvolga le diverse realtà presenti sul territorio nell’attuare programmi sociali orientati alla salute, al sostegno familiare e soprattutto all’educazione”.

Sul tema della salute mentale in generale mons. Marco Brunetti (9) ha scritto: “A volte si devono curare i sintomi di un disagio con dei farmaci per aiutare mente ed umore; altrettanto importante sarebbe però comprendere che spesso bisogna cambiare qualcosa anche nello stile di vita e nelle abitudini.

La buona salute mentale dipende anche dalla qualità delle nostre relazioni, dalla disponibilità – in primis nostra – all’incontro ed all’ascolto, all’apertura verso le alterità, insomma quella ‘saggezza’ e sensibilità che ci permettono di non escludere le persone più fragili. La sofferenza psichica si previene o si allevia anche vivendo in una comunità generatrice di crescita e benessere”.

Anche il Ministero della Salute (10) è su questa linea: “La consapevolezza di poter contare sull’aiuto di una rete sociale costituisce una risorsa basilare per la salute mentale di ognuno di noi. I rapporti quotidiani con familiari, amici, colleghi di lavoro o l’appartenenza a gruppi scolastici, religiosi, politici o di altro genere possono svolgere una importante funzione protettiva”.

La diagnosi è quindi ampiamente condivisa, ma la comunità è disposta a frasi carico di queste problematiche?

 

(1) Fonte: https://it.wikipedia.org/wiki/Storia_delle_istituzioni_psichiatriche

(2) Fonte: https://it.wikipedia.org/wiki/Legge_Basaglia

(3) Fonte: https://neomesia.com/il-significato-della-legge-basaglia

(4) Fonte: http://www.sossanita.org/archives/2136

(5) Fonte: https://www.fondazioneveronesi.it/magazine/articoli/neuroscienze/la-legge-basaglia-40-anni-dopo

(6) Fonte: https://www.panorama.it/news/cronaca/legge-basaglia-dopo-40-anni-come-e-cambiata-la-cura-del-disagio-mentale/

(7) Fonte: https://www.amicidilazzaro.it/index.php/associazione-tra-abuso-dipendenza-e-patologia-psichiatrica/

(8) Fonte: https://www.vaticannews.va/it/papa/news/2018-12/droga-dipendenze-papa-francesco-no-politiche-isolate.html
(9) Fonte: https://www.diocesi.torino.it/salute/wp-content/uploads/sites/9/2019/10/Messaggio-Consulta-Regionale-Pastorale-Salute-e-Vescovo-Delegato-Giornata-Mondiale-Salute-Mentale-2019.pdf

(10) Fonte: http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_opuscoliPoster_422_allegato.pdf

 

Per il lavoro di coppia e di gruppo

•          Provate a condividere le varie forme di handicap mentale, frutto di malattia o di vizi, di cui siete a conoscenza.

•          Chi soffre di questi tipi di handicap va isolato dalla società o può essere curato senza internamento? Quali sono le vostre esperienze?

 

17-BUROCRAZIA

Piero, quarantacinque anni, di cui almeno venti passati in carcere, un po’ di gioventù e il resto in strada. Con lui avevo sperato molto quando improvvisamente decise con convinzione di ricoverarsi in un centro per la disintossicazione. Andava tutto bene, Da lì sarebbe dovuto andare in una comunità, ma l'ultimo momento venne fuori che il posto non c'era, o meglio, l'ASL non aveva i soldi per pagare la retta, era necessario aspettare.
Dal centro di disintossicazione doveva uscire perché il tempo massimo consentito era scaduto e la convenzione non permetteva deroghe, mentre per la comunità bisognava attendere. Così Piero, dopo due mesi senza sostanze, demotivato e con qualche soldo del sussidio, è ritornato da dove era venuto: in strada.
Fabrizio Floris. Tratto da: Periferie esistenziali, Robin Edizioni, Torino 2018
 

18-NE VALE LA PENA!

Uno sguardo al mondo carcerario in Italia

A cura della Redazione

Ci sono dei gesti che segnano l’operato di un Pontefice. Come la prima uscita pubblica di papa Francesco è stata a Lampedusa, così uno dei primo gesti di san Giovanni XXIII fu la visita al carcere Regina coeli a Roma.

Le carceri meritano quindi la nostra attenzione perché molti dei loro abitanti sono quegli “scartati” dalla società di cui parla Bergoglio.

 

Un po’ di numeri

In Italia, scrive Daniela de Robert (1), “gli istituti di pena per adulti sono 190 con una capienza teorica di 50.644 posti e una disponibilità reale di 47.105. Ma i detenuti alla fine del 2018 erano 59.854 (2).

Di queste oltre 31 mila sono le persone detenute con una condanna o un residuo pena fino a un massimo di tre anni e di queste oltre 10 mila con pena inferiore all’anno”.

Sono più di quarantamila persone che potrebbero usufruire di misure alternative e che si potrebbero aggiungere ai 34 mila soggetti che già ne godono.

Ma purtroppo non è così: chi ha meno possibilità fuori, ne avrà ancora di meno in carcere. “Alcune pene alternative”, continua la de Robert, “sono puramente teoriche per chi non ha possibilità solide di supporto sociale: impossibile una detenzione domiciliare per chi non ha una casa o una semilibertà per chi non ha un lavoro o una rete esterna in grado di supportarlo”.

In carcere troviamo prevalentemente le categorie più fragili: stranieri, tossici, soggetti con disturbi mentali.

Spiega padre Francesco Occhetta sj (3): “Il 33% dei detenuti ruota intorno alla tossicodipendenza, il 45% è straniero, il 38% è senza fissa dimora, solamente l’1% dei detenuti è laureato; il tasso di suicidi nelle carceri è 18 volte superiore a quello fuori”.

 

Le tipologie carcerarie

Su questo tema lasciamo la parola alla de Robert (4).

Gli stranieri sono presenti soprattutto nelle case circondariali delle grandi città, dove talvolta raggiungono percentuali ben superiori alla metà della popolazione ristretta. Per loro il primo ostacolo è la lingua, la capacità di comprendere e farsi comprendere. Su di loro pesa anche l’assenza di vincoli familiari, con le visite e il prezioso supporto affettivo, e la mancanza di certezze sul loro futuro, sulla possibilità di restare nel nostro Paese.

C’è poi il disagio psichico, un fenomeno in crescita all’interno degli istituti di pena: persone borderline o con disagio grave rappresentano una delle maggiori criticità, che ricade sul personale chiamato a gestire situazioni senza avere avuto alcuna formazione specifica.

Da anni il disagio psichico rappresenta la patologia più frequentemente rilevata all’interno delle strutture detentive: secondo una indagine epidemiologica, il 41,3% dei detenuti è affetto da almeno un disturbo psichico di lieve o maggiore entità.

Al momento chi ha una grave patologia fisica può chiedere e ottenere di rinviare l’esecuzione della pena fino al termine delle cure. Chi ha una patologia psichiatrica no.

Infine ci sono le donne, che rappresentano mediamente il 4% della popolazione detentiva totale.

Non si può parlare della detenzione femminile senza affrontare il capitolo doloroso dei bambini di età 0-3 anni che vivono ristretti con le loro madri.

La collettività dovrebbe assumersi le proprie responsabilità: gli enti locali per realizzare quelle case famiglia protette previste dalla legge, i cittadini che troppo spesso non vogliono tali strutture vicino a loro, le direzioni degli istituti perché attivino rapporti positivi con il territorio, favorendo l’inserimento dei bambini nelle scuole del quartiere e valorizzando il prezioso apporto del volontariato e del Terzo settore.

 

Il lavoro in carcere

La legge 354 del 1975 sottolinea che il lavoro nelle carceri è uno dei fattori fondamentali per la riabilitazione dei detenuti.

Ma ci sono lavori e lavori. Il 32% dei detenuti (5) lavora ma la maggior parte di essi è alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria e si occupa di pulizie, distribuzione del vitto, mansioni di segreteria, scrittura di reclami e documenti per gli altri reclusi.

Inoltre, per dare un impiego al maggior numero possibile di persone si organizzano dei turni, così molti sono occupati soltanto per brevi periodi o per poche ore alla settimana.

Il lavoro che “funziona” è quello che viene offerto dalle cooperative a dalle aziende esterne.

In questo caso si riduce drasticamente la probabilità di tornare a commettere un reato: si passa dal 75% di recidiva a meno del 10% (6).

 

Carceri e Chiesa

Cosa hanno detto i Pontefici quando sono andati a visitare i detenuti?

Il discorso di san Giovanni XXIII era stato breve e diretto. Riportiamo solo una frase: “Il Papa è venuto, eccomi a voi. Penso con voi ai vostri bambini che sono la vostra poesia e la vostra tristezza, alle vostre mogli, alle vostre sorelle, alle vostre mamme…” (7).

Papa Francesco, nel novembre 2016, incontrò mille detenuti in piazza San Pietro ed ebbe per loro queste parole (8): “A volte, una certa ipocrisia spinge a vedere in voi solo delle persone che hanno sbagliato, per le quali l’unica via è quella del carcere.

E l’ipocrisia fa sì che non si pensi alla possibilità di cambiare vita: c’è poca fiducia nella riabilitazione, nel reinserimento nella società. Ma in questo modo si dimentica che tutti siamo peccatori e, spesso, siamo anche prigionieri senza rendercene conto.

Quando si rimane chiusi nei propri pregiudizi, o si è schiavi degli idoli di un falso benessere, quando ci si muove dentro schemi ideologici o si assolutizzano leggi di mercato che schiacciano le persone, in realtà non si fa altro che stare tra le strette pareti della cella dell’individualismo e dell’autosufficienza, privati della verità che genera la libertà. E puntare il dito contro qualcuno che ha sbagliato non può diventare un alibi per nascondere le proprie contraddizioni”.

A noi, nella consapevolezza di quanto sia difficile praticare l’opera di misericordia di visitare i carcerati, interrogarci se possiamo fare qualcosa.

 

(1) Tratto dal dossier Carcerati, Città Nuova Editrice.
(2) Al 30 giugno 2019 erano 60.522.
Fonte: https://www.antigone.it/news/antigone-news/3238-numeri-e-criticita-delle-carceri-italiane-nell-estate-2019

(3) Intervista a padre Francesco Occhetta sj di Carlo Cefaloni. Tratto dal dossier Carcerati, Città Nuova Editrice.
(4) Sintesi della Redazione

(5) Fonte: https://www.lifegate.it/persone/news/lavoro-in-carcere

(6) Fonte: http://www.myfreedhome.it/
(7) Fonte: http://www.giovaniemissione.it/testimoni/papa23carcerati.htm

(8) Fonte: http://www.vatican.va/content/francesco/it/homilies/2016/documents/papa-francesco_20161106_giubileo-omelia-carcerati.html

 

Per il lavoro di coppia e di gruppo

•          Conoscete qualche carcerato od ex carcerato? Che rapporti avete con lui o con la sua famiglia?

•          Le carceri sono luoghi chiusi, lontani. Conoscete delle iniziative a sostegno di coloro che sono reclusi? Ci partecipate, le sostenete?

 

19-LA CASA DELLA LIBERTÀ

A Torino c’è un negozio che si chiama così, anche se il nome originale è Freedhome.
Aperto nel 2016 in locali di proprietà del Comune di Torino e messo a disposizione dell’Amministrazione Penitenziaria del Piemonte, è gestito dalla cooperativa Extraliberi, che lavora nel carcere di Torino.
Ciò è stato possibile grazie al sostegno della Compagnia di San Paolo, alla dedizione di Monica Cristina Gallo, Garante per i diritti dei detenuti del Comune di Torino, e all’impegno della rete delle cooperative che operano in diverse carceri italiane.
“Siamo convinti”, scrive la cooperativa, “che nelle carceri esista un grande potenziale ancora da scoprire: le storie delle esperienze di economia carceraria, delle persone che coinvolgono, delle speranze che racchiudono. Ma soprattutto delle certezze che sanno esprimere”.
“Con questo negozio”, continuano, “abbiamo dato vita a un luogo capace di ospitare idee e progetti per ribadire forte e chiaro che l’economia carceraria è la chiave di volta per ripensare il sistema penitenziario italiano in modo più efficace”.
http://www.myfreedhome.it/

 

20-SULLA STRADA

Si può considerare veramente libero un uomo che ha fame, che è nella miseria, che non ha lavoro, che è umiliato perché non sa come mantenere i suoi figli e educarli? Questo non è un uomo libero! Sarà libero di bestemmiare, di imprecare, ma questa non è la libertà che intendo io. (Sandro Pertini)

 

A cura della Redazione

Questa è una storia che porta agli Inferi, che da un tetto sulla testa ti porta ad avere solo più un cartone, che da una casa ti porta alla strada.

 

Equilibristi della povertà

Vi sono forme di povertà che si manifestano con maggiore impatto ed altre, quasi invisibili, liquide, instabili che solo chi è vicino agli ultimi coglie.

“Li abbiamo chiamati ‘gli equilibristi della povertà’ ”, scrive don Benoni Ambarus (1). “Queste persone vivono sul piano inclinato del disagio senza mai riuscire a mettersi al sicuro in maniera definitiva”.

“Nella società liquida”, aggiunge Elisa Manna (2), “paradossalmente neanche la povertà è stabile, contrariamente a quanto ritenuto comunemente, ma presenta un carattere ‘oscillante’ che fa sì che la persona vulnerabile ed esposta ad essa, si ritrovi a vivere costantemente su un ‘confine’ che separa i poveri dai non-poveri o, come oggi spesso si sente dire, i penultimi dagli ultimi.

Non si può dire che il senza dimora di lungo corso e la madre sola di una classe media impoverita appartengano alla stessa collocazione sociale, anche se poi approdano entrambi alla Caritas; però condividono la difficoltà ad immaginare percorsi di speranza ragionevoli. Sembra quasi che l’ambiente, il degrado dello scenario urbano dialoghi con i fallimenti dei singoli diffondendo una sensazione di sconfitta generale”.

 

Come si diventa poveri

Normalmente si pensa alla povertà come il risultato di un evento o di un accidente improvviso.

In realtà, i motivi e le ragioni che portano alla povertà e alla strada sono molto complessi ed articolati, non tanto perché variano da soggetto a soggetto quanto perché non sono così palesemente visibili i momenti di rottura.

“Raramente si tratta di un evento traumatico che altera all’improvviso un equilibrio. La maggior parte delle volte sono casi in cui si verifica l’aggravamento di una condizione individuale o familiare a seguito a un’accelerazione di eventi destrutturanti o di fallimenti nelle strategie esistenziali che si cumulano nel tempo”.

Ma vi sono “casi di percorsi di vita assolutamente ordinari, che subiscono un cambiamento dopo un evento imprevisto e fortemente traumatico, come ad esempio la perdita del lavoro o dell’autonomia personale per problemi sanitari, oppure individui coinvolti in un lutto e che, in assenza delle reti sociali primarie, si ritrovano in condizione di marginalità. Oppure, ancora, persone che, con un lavoro anche a tempo indeterminato, in seguito della separazione dal coniuge, si ritrovano nell’impossibilita di mantenere lo status precedente e, in carenza di reti sociali, sono costrette a vivere in macchina, in strada o in un centro di accoglienza, per un lungo periodo” (3).

 

Vivere in strada

“Quando abiti la strada”, scrive Fabrizio Floris (4), “ogni azione è una barriera da superare: scelte piccole, banali, come fare la pipì, lavarsi, comprare un litro di latte oppure il biglietto dell'autobus, si rivelano ostacoli insormontabili sia dal punto di vista economico che psicologico. Se spendo 50 centesimi per andare in bagno in stazione, avrò i soldi per il latte? Si resta bloccati e si rimandano tutte le scelte non obbligate: si aspetta, si resta immobili in attesa di non si sa che cosa. Subentra l'afasia, ‘tanto è uguale’: il domani non esiste”.

Solo alcuni di coloro che abitano la strada sono visibili agli occhi dei più. È di notte che si rivelano.

“La città notturna”, spiega Floris, “è una città senza bambini. La sua identità e l'assenza: è ciò che manca a dire ciò che è. Il 30% dei suoi abitanti ha problemi di alcolismo, il 12,5% è stato in carcere o è in attesa di giudizio, il 40% è tossicodipendente, il 10% ha un disagio psichico, e il 15% ha una doppia diagnosi, di dipendenza e malattia.

Nella città notturna si entra con la maggiore età e non mancano gli abitanti che superano i 70 anni; tuttavia, la maggioranza ha un'età media tra i 39 e i 55 anni.

Stando con la gente della strada si percepisce, in modo evidente, che le sofferenze più profonde sono quelle che riguardano gli affetti. Dolori senza remissione, difficili da recuperare: l'addio a un figlio, l'abbandono della famiglia...”.

 

Papa Francesco e i poveri

Se c’è un papa che ha prestato particolare attenzione ai poveri questo è Francesco. Nel suo primo incontro con il mondo dell’informazione nel marzo 2013 aveva affermato: “Come vorrei una Chiesa povera per i poveri”.

E, nell’agosto dello stesso anno, nella lunga intervista a padre Antonio Spadaro sj (5) aveva affermato: “I ministri del Vangelo devono essere persone capaci di riscaldare il cuore delle persone, di camminare nella notte con loro, di saper dialogare e anche di scendere nella loro notte, nel loro buio senza perdersi”.

Tra i poveri, un ruolo privilegiato nel cuore di Francesco ce l’hanno i barboni. Nel 2015, nel colonnato del Bernini in piazza San Pietro, ha voluto creare un servizio di docce e di barberia per i senza fissa dimora. Nel 2018 a questa struttura si è aggiunto un ambulatorio medico.

Infine, nel novembre dello scorso anno, nel Palazzo Migliori, di proprietà del Vaticano e adiacente a San Pietro, ha inaugurato un nuovo Centro di accoglienza notturna e diurna.

A fianco di queste e altre scelte che hanno avuto una grande visibilità, vi è stata una continua attenzione nei confronti di migliaia persone in difficoltà economiche, sia italiane che straniere. Per esempio, papa Bergoglio nel 2018 ha donato tre milioni e mezzo di euro per pagare loro bollette arretrate, affitti e farmaci, utilizzando denaro delle donazioni e non fondi pubblici.

 

Nelle scarpe degli altri

Nel febbraio del 2017 papa Francesco ha rilasciato un’intervista a “Scarp de' tenis”, mensile delle persone senza dimora di Milano (6).

Prendendo spunto dal titolo del mensile, Bergoglio ha affermato: “È molto faticoso mettersi nelle scarpe degli altri, perché spesso siamo schiavi del nostro egoismo.

Quando incontro un senza tetto la prima cosa che gli dico è ‘Buongiorno’. ‘Come stai?’. Le persone che vivono sulla strada capiscono subito quando c’è il vero interesse da parte dell’altra persona o quando c’è, non voglio dire quel sentimento di compassione, ma certamente di pena. Si può vedere un senza tetto e guardarlo come una persona, oppure come fosse un cane. E loro di questo differente modo di guardare se ne accorgono”.

E ha concluso: “Un aiuto è sempre giusto. Certo non è una buona cosa lanciare al povero solo degli spiccioli. È importante il gesto, aiutare chi chiede guardandolo negli occhi e toccando le mani. Buttare i soldi e non guardare negli occhi, non è un gesto da cristiano”.

 

(1) Fonte: http://www.caritasroma.it/wp-content/uploads/2019/11/Rapporto_2019.pdf

(2) Fonte: Ibidem

(3) F. Bonadonna, Il nome del barbone. Vite di strada e povertà estreme in Italia, DeriveApprodi, Roma, 2005, p. 16

(4) Periferie esistenziali, Robin Edizioni, Torino 2018

(5) Fonte: https://www.laciviltacattolica.it/wp-content/uploads/2013/09/SPADARO-INTERVISTA-PAPA-PP.-449-477.pdf

(6) Fonte: https://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2017/02/28/0127/00299.pdf

 

Per il lavoro di coppia e di gruppo

•          Che atteggiamento abbiamo verso coloro che chiedono l’elemosina per strada? Attenzione, rifiuto, indifferenza?

•          Conosciamo famiglie che si sono ritrovate “povere”? Cosa abbiamo fatto per loro?

•          Alcool e droga. Come si possono aiutare le famiglie che vivono questi problemi?

 

21-LA PAROLA CI INTERROGA

L’opzione preferenziale della Bibbia per i poveri. Le “fatiche” per mettere in pratica questa Parola

 

di Carlo Miglietta*

Il Dio della Bibbia ha una caratteristica, una peculiarità, direi quasi un “pallino”: la predilezione per i poveri. Israele lo ha capito fin dall'origine della sua storia, quando, in Egitto, “Dio ha ascoltato il lamento di Israele” (Cfr Es 2,24).

 

Il grido del povero

Nella Bibbia c’è una vera e propria teologia del grido del povero: il lamento dell'oppresso sempre arriva a Dio e da Lui viene ascoltato.

Dio non solo accoglie il grido di chi è in difficoltà e interviene con potenza: Dio fa anche giustizia all’oppresso, castigando duramente i suoi persecutori.

La teologia della vendetta di Dio contro gli oppressori non è un oscuro retaggio veterotestamentario, ma è presente con forza anche nel Nuovo Testamento.

Dio vindice dei poveri è un concetto troppo spesso dimenticato, però è Parola rivelata: esso sostiene la speranza quando si è nella prova e nella desolazione e incute ai credenti un santo timore quando troppo spesso si dimenticano degli altri, non mettono in comune i loro beni.

Il “pallino di Dio” della predilezione dei poveri trova nella Scrittura un'espressione del tutto peculiare. Al Dio biblico non interessa tanto essere onorato per sé stesso, non ama culti e liturgie; Dio ha una grande passione: essere amato nei fratelli.

Nel Nuovo Testamento viene ribadito che il Signore si identifica con l'affamato, l’assetato, il forestiero, l’ignudo, il malato, il carcerato (Mt 25,31-46).

Dio è il creatore, il padre di tutti gli uomini. Fin dalla Genesi è ricordata la reciproca fratellanza degli uomini. Come ci viene ricordato nel racconto di Caino e Abele, ognuno è responsabile di fronte a Dio dei problemi, delle sofferenze, delle tragedie degli altri.

Con Gesù, la paternità di Dio e quindi la fratellanza tra gli uomini sono esplicitate con estrema chiarezza: basti pensare che Dio è chiamato Padre in ben 142 passi dei Vangeli e in 40 testi di Paolo.

La paternità di Dio verso il Figlio fatto povero fino alla Croce assume poi un significato particolare: essa è sacramento della sua speciale paternità verso tutti i sofferenti, gli umiliati, gli oppressi della terra.

 

Il Messia dei poveri

Fin dall'inizio della sua vita pubblica, Gesù proclama di essere venuto per la liberazione dei poveri e degli oppressi. La sua vita fu tutto un aiutare concretamente chi era nella sofferenza: “passò beneficando e risanando tutti” (At 10,38).

Gesù non solo soccorre concretamente i tribolati che incontra: egli è venuto per evangelizzarli, cioè per far loro conoscere che essi sono amati in maniera particolare da Dio, e che Dio porrà fine alle loro sofferenze, per il tramite dell'incarnazione, morte e resurrezione del Figlio.

Per Gesù, la scelta dei poveri riveste anzitutto la caratteristica della concretezza; essa non è un pio sentire, una buona disposizione d'animo: è operare a fianco di chi è solo o in difficoltà.

Altro carattere tipico della scelta dei poveri da parte di Gesù è l'astensione dal giudizio. Il regno di Dio non viene perché qualcuno se lo merita: viene per azione gratuita e amorosa di Dio che, Padre, interviene per i figli che soffrono.

Altro carattere della scelta dei poveri da parte di Gesù è il suo spirito trasgressivo: nel mondo ebraico, la sua predilezione per gli ultimi si scontrava con la mentalità legalistica, che proponeva la salvezza nell'osservanza di prescrizioni e di rituali, e non in slanci di cuore.

A Gesù ciò che interessa è l'uomo, con i suoi problemi di ogni giorno, la sua fame, la sua emarginazione, la sua segregazione. Per questo trasgredisce la stessa legge, va contro la cultura comune, le logiche di opportunità o di pseudo giustizia.

 

La Chiesa e la povertà

La predilezione per i poveri e la ricerca della povertà sono una costante della storia della Chiesa, pur tra mille contraddizioni e cadute: basti pensare al monachesimo, ai grandi ordini religiosi, specialmente quello di Francesco d'Assisi, alle schiere di “santi sociali” di tutti i secoli, fino al moderno impulso al volontariato. Anche se non mancarono le voci che cercarono di attenuare la chiamata di tutti alla povertà, riducendola a “consiglio” per alcuni, e rimproverando alla tradizione patristica di aver interpretato la Scrittura in senso troppo letterale.

La dottrina sociale della Chiesa prese le mosse dalla famosa enciclica Rerum novarum del 1891, ma con Papa Giovanni XXIII si fece strada addirittura l'idea di “Chiesa dei poveri”. Il grande cardinal Lercaro voleva che sotto questa proposta profetica si svolgesse tutto il Concilio Vaticano II.

In realtà il tema della povertà al Concilio fu insufficientemente trattato, ma ciò non può essere imputato al Concilio, ma piuttosto alla situazione teologica trovata dal Concilio e perdurante ancora oggi.

Eppure il Concilio tracciò la strada per tutta la Chiesa, definendo la povertà non tanto un problema etico, ma una questione eminentemente cristologica, inerente alla missione stessa del Salvatore.

Come Gesù Cristo, che per noi “da ricco che era si fece povero” (2Cor 8,9), così anche la Chiesa non è fatta per cercare la gloria terrena, bensì per diffondere, anche col suo esempio, l'umiltà e l'abnegazione.

Le due encicliche sociali di Giovanni XXIII, proposte alla riflessione “degli uomini tutti”, la Mater et magistra e la Pacem in terris rilanciarono con forza il tema dell'attenzione ai poveri e l'urgenza dello sviluppo economico dei paesi più arretrati.

Il pontefice successivo, Paolo VI, disse: “la povertà è attualmente il problema più grave della chiesa”. E nella Populorum progressio, enciclica tutt’oggi di sconvolgente attualità, si autodefinì “l'avvocato dei popoli poveri”.

L'impatto del messaggio conciliare della scelta preferenziale dei poveri si è però poi andato progressivamente affievolendo. Ma il grande imperativo, del Vangelo e della tradizione della Chiesa, di stare con i poveri e da poveri deve essere messo al centro delle scelte e dello stile di vita dei credenti.

Eppure poche questioni come la scelta dei poveri trovano nella Chiesa tanta diffidenza e anche opposizione, con conseguenze pastorali spesso devastanti.

Quante volte, nelle nostre chiese, assistiamo ad una predicazione disincarnata, che non coinvolge mai le scelte economiche dei credenti! O vediamo cristiani assidui in una preghiera ritualistica e assolutamente sordi a mettere a mettere in discussione di fronte al Vangelo il loro tenore di vita e il possesso delle loro ricchezze!

* Medico e biblista

Liberamente tratto dal libro: Condividere per amore, Gribaudi Editore, Milano 2003

 

22-LA SCELTA DI FRANCESCO

Una Chiesa povera e per i poveri a immagine del Signore

 

A cura della Redazione

Il tema della povertà nella Chiesa risulta ancora oggi, anno del Signore 2020, un tema divisivo. Lo possiamo verificare nelle critiche che vengono costantemente mosse a gran parte dell’operato di papa Francesco.

Eppure “la povertà come mysterium magnum e come ‘evidenza evangelica’ è lʼintuizione mistica che da Paolo VI arriva fino a papa Francesco”, scrive Miela Fagiolo DʼAttilia (1). Vivere il mistero della povertà “ci aiuta a crescere come persone e come esperienza di fede, perché ci mette di fronte a una realtà radicalmente provocatoria che attraversa la Storia”.

 

L’imitazione di Cristo

L’evidenza evangelica è Cristo stesso, che “da ricco che era, si è fatto povero” per noi (2Cor 8,9).

Ma ciò che muove Cristo è il servizio. “La povertà è premessa, modalità ma anche destinazione del servizio”, scrive Giovanni Villata (2). “Cristo è povero e serve da povero i poveri. La logica della povertà è subordinata a quella del servizio. La povertà e servizio nella Chiesa e della Chiesa sono partecipazione alla povertà e al servizio di Cristo; da esse sono regolate, motivate e rese possibili”.

Infatti, “la Chiesa, per divenire più conforme a Cristo che si è proposto come esempio ai suoi discepoli, deve essere povera, progredire nella povertà. Dall'attenzione a questo problema della povertà, dipenderà, per un buona parte, l’attitudine della Chiesa a evangelizzare il mondo moderno (3)”.

La conformità a Cristo viene spiegata così da papa Francesco (4): “Come, concretamente, possiamo piacere a Dio? Quando si vuole far piacere a una persona cara, ad esempio facendole un regalo, bisogna prima conoscerne i gusti, per evitare che il dono sia più gradito a chi lo fa che a chi lo riceve. Quando vogliamo offrire qualcosa al Signore, troviamo i suoi gusti nel Vangelo. Egli dice: ‘Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me’ (Mt 25,40).

Questi fratelli più piccoli, da Lui prediletti, sono l’affamato e l’ammalato, il forestiero e il carcerato, il povero e l’abbandonato, il sofferente senza aiuto e il bisognoso scartato. Sui loro volti possiamo immaginare impresso il suo volto; sulle loro labbra, anche se chiuse dal dolore, le sue parole: ‘Questo è il mio corpo’ (Mt 26,26).

Nel povero, Gesù bussa al nostro cuore e, assetato, ci domanda amore. Quando vinciamo l’indifferenza e nel nome di Gesù ci spendiamo per i suoi fratelli più piccoli, siamo suoi amici buoni e fedeli, con cui Egli ama intrattenersi”.

 

Oltre il volontariato

“Non pensiamo ai poveri solo come destinatari di una buona pratica di volontariato da fare una volta alla settimana, o tanto meno di gesti estemporanei di buona volontà per mettere in pace la coscienza”, scrive ancora papa Francesco (5). “Queste esperienze, pur valide e utili a sensibilizzare alle necessità di tanti fratelli e alle ingiustizie che spesso ne sono causa, dovrebbero introdurre ad un vero incontro con i poveri e dare luogo ad una condivisione che diventi stile di vita. Infatti, la preghiera, il cammino del discepolato e la conversione trovano nella carità che si fa condivisione la verifica della loro autenticità evangelica. E da questo modo di vivere derivano gioia e serenità d’animo, perché si tocca con mano la carne di Cristo. Se vogliamo incontrare realmente Cristo, è necessario che ne tocchiamo il corpo in quello piagato dei poveri, come riscontro della comunione sacramentale ricevuta nell’Eucaristia. Il Corpo di Cristo, spezzato nella sacra liturgia, si lascia ritrovare dalla carità condivisa nei volti e nelle persone dei fratelli e delle sorelle più deboli”.

 

Un invito alla Chiesa

Quando papa Francesco si è rivolto ai partecipanti del V Convegno nazionale della Chiesa Italiana (6) ha spiegato che preferisce “una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze. Non voglio una Chiesa preoccupata di essere il centro e che finisce rinchiusa in un groviglio di ossessioni e procedimenti (cfr EG 49).

Si può dire che oggi non viviamo un’epoca di cambiamento quanto un cambiamento d’epoca (7). Le situazioni che viviamo oggi pongono dunque sfide nuove che per noi a volte sono persino difficili da comprendere. Questo nostro tempo richiede di vivere i problemi come sfide e non come ostacoli: il Signore è attivo e all’opera nel mondo. Voi, dunque”, ha continuato Francesco, “uscite per le strade e andate ai crocicchi: tutti quelli che troverete, chiamateli, nessuno escluso (cfr Mt 22,9). Soprattutto accompagnate chi è rimasto al bordo della strada, ‘zoppi, storpi, ciechi, sordi’ (Mt 15,30). Dovunque voi siate, non costruite mai muri né frontiere, ma piazze e ospedali da campo”.

Perché a Bergoglio “piace una Chiesa inquieta, sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti, una Chiesa lieta col volto di mamma, che comprende, accompagna, accarezza. Sognate anche voi questa Chiesa, credete in essa, innovate con libertà”.

Anche noi siamo inviati a partecipare a questo sogno.

 

(1) Fonte: http://www.mgd.missioitalia.it/wp-content/uploads/2018/09/la-chiesa-dei-poveri.pdf

(2) Che idea di Chiesa abbiamo?, Elledici, Torino 2019

(3) René Voillaume, citato da G. Villata in ibidem

(4) Omelia per la Giornata mondiale dei poveri 2017

(5) Messaggio per la Giornata mondiale dei poveri 2017

(6) Discorso al V Convegno nazionale della Chiesa Italiana

(7) NdR: Viviamo in  un’epoca di “confine”

 

Per il lavoro di coppia e di gruppo

•          Quanto abbiamo bisogno di “sicurezze” e quanto ci affidiamo alla Provvidenza?

•          Quale spazio ha la scelta degli “ultimi” nella nostra vita di coppia e di famiglia?

•          Papa Francesco “esagera” o è nel giusto?

 

23-QUANDO UNA CHIESA È POVERA?

Parlare di Chiesa povera non significa certo ignorare che la Chiesa ha bisogno di beni, di risorse, in assenza delle quali difficilmente potrebbe svolgere la sua missione, ad esempio nei paesi più poveri dove le comunità cristiane dispongono di mezzi umili, oppure nel far fronte ad emergenze umanitarie purtroppo sempre attuali. Una Chiesa è povera quando fa un uso trasparente dei suoi beni, quando riesce a mostrare la provenienza delle sue risorse e parimenti la loro destinazione. Una Chiesa è povera quando le sue "ricchezze" sono indirizzate in una prospettiva solidale. Una Chiesa è povera quando vive una effettiva sobrietà nello stile di vita di chi la rappresenta e nel modo di porgersi al mondo. Certamente dovremo riprendere questo discorso.

Dunque, ben venga che nella comunità cristiana torni in voga la grammatica della povertà, non tanto come sterile esaltazione di una Chiesa priva di risorse, quanto come riaffermazione di una "predilezione" obbligatoria a favore di quanti la vita ha messo ai margini e gli uomini hanno derubato dei propri diritti.

Don Roberto Davanzo, Caritas ambrosiana

 

24-COSA FARE IN CONCRETO

Un impegno che deve essere uno stile di vita

 

A cura della Redazione

Abbiamo passato in rassegna, in questo numero, una serie di “periferie”. Il Vangelo ci chiede di prendere posizione, ma non basta sdegnarsi di fronte al male se poi non si fa nulla (1).

Non basta neanche impegnarsi nel volontariato, una volta la settimana, né avere dei momenti di generosità verso gli ultimi se questi servono solo per mettersi in pace la coscienza (2).

 

La santità della porta accanto

Siamo spiazzati, pensavamo già di fare molto e invece… Pensavamo di diventare santi praticando le opere di misericordia e invece…

In realtà, prima dei poveri, vi sono coloro che ci sono vicini nella vita. È inutile darsi da fare per chi è lontano se dimentichiamo coloro che ci sono immediatamente prossimi.

Lo spiega molto bene papa Francesco quanto, nell’Esortazione apostolica Gaudete et exsultate (3) scrive: “Mi piace vedere la santità nel popolo di Dio paziente: nei genitori che crescono con tanto amore i loro figli, negli uomini e nelle donne che lavorano per portare il pane a casa, nei malati, nelle religiose anziane che continuano a sorridere. In questa costanza per andare avanti giorno dopo giorno vedo la santità della Chiesa militante. Questa è tante volte la santità ‘della porta accanto’, di quelli che vivono vicino a noi e sono un riflesso della presenza di Dio, o, per usare un’altra espressione, ‘la classe media della santità’ ”.

E continua: “Tutti siamo chiamati ad essere santi vivendo con amore e offrendo ciascuno la propria testimonianza nelle occupazioni di ogni giorno, lì dove si trova. Sei una consacrata o un consacrato? Sii santo vivendo con gioia la tua donazione. Sei sposato? Sii santo amando e prendendoti cura di tuo marito o di tua moglie, come Cristo ha fatto con la Chiesa. Sei un lavoratore? Sii santo compiendo con onestà e competenza il tuo lavoro al servizio dei fratelli. Sei genitore o nonna o nonno? Sii santo insegnando con pazienza ai bambini a seguire Gesù. Hai autorità? Sii santo lottando a favore del bene comune e rinunciando ai tuoi interessi personali”.

 

Volontariato e volontarismo

Ci sono anche, e non sono pochi, coloro che fanno scelte radicali, e si giocano la loro vita per gli altri.

Ma anche in questo caso occorre fare discernimento.

“I cristiani hanno la sindrome del salvatore: si buttano nelle situazioni più disperate pensando di cambiarle o persino di redimerle”, scrive Fabrizio Floris (4), sociologo, con una lunga esperienza nel volontariato. E continua: “Contraddicono le loro stesse affermazioni quando non si rendono conto che, primo, è Cristo che salva; secondo, Cristo opera la sua salvezza morendo in croce.

Noi giochiamo costantemente il ruolo dei buoni, di quelli che stanno dalla parte del giusto e finiamo per crederci giusti. E invece noi non salviamo nessuno, possiamo creare un contesto favorevole perché questa ‘salvezza’ avvenga solo se sappiamo scendere costantemente dalle nostre teorie e ci mettiamo in ascolto, cioè cambiamo perché la realtà che bussa alla nostra porta cambia.

Anche noi volontari, come altri soggetti, tendiamo a strumentalizzare i poveri per rassicurare il nostro buon cuore di benefattori, ma mai per loro stessi, per renderli protagonisti, soggetti attivi.

Per me che ‘lavoro’ con la gente che abita in strada, rendere ‘protagonista’ una persona significa anche subire il dolore di lasciarla dormire fuori dal dormitorio, quando quella persona si ripiega su richieste di totale assistenza, senza fare un solo passo, una sola scelta in cui mettere la sua piccola goccia di sudore.

Quando non accetta nessuna proposta che non sia la sua, ripiegandosi sul fatto che ‘sono povera, quindi devo essere assistita come dico io’. Lasciare la persona fuori vuol dire restituirla alle sue scelte perché nessuno può essere libero al posto tuo e non serve essere liberi senza essere felici, appunto, delle proprie scelte”.

 

(1) Cfr Papa Francesco, omelia per la Giornata mondiale dei poveri 2017

(2) Cfr Papa Francesco, messaggio per la Giornata mondiale dei poveri 2017

(3) Papa Francesco, Gaudete et exsultate

(4) Periferie esistenziali, Robin Edizioni, Torino 2018.

 

Per il lavoro di coppia e di gruppo

•          Quanto è sobrio lo stile di vita della nostra famiglia?

•          Chi c’è al primo posto nel nostro servizio agli altri?

•          Il povero va sempre aiutato o vanno poste delle condizioni? Quali?

 

25-PER APPROFONDIRE IL TEMA

I libri usati per realizzare questo numero

 

Marta e Simone Fana, Basta salari da fame!, Editori Laterza, Roma - Bari 2019.

Michele Colucci, Storia dell’immigrazione straniera in Italia, Carocci Editore, Roma 2018.

Sono due libri di cui ho letto solo ampi stralci ma credo possano essere utili per chi vuole approfondire i temi che trattano evitando facili semplificazioni.

Del libro del fratelli Fana ho apprezzato la prima parte che ricerca nella storia recente il progressivo impoverimento dei lavoratori.

Il libro di Colucci ci costringe a riandare indietro con la memoria e a chiederci dove eravamo quando da popolo di migranti siamo divenuti meta ambita degli immigrati (bianchi e di colore).

 

Bruno Mastroianni, La disputa felice, Franco Cesati Editore, Firenze 2017.

Bruno Mastroianni è un collaboratore del Forum delle Associazioni Familiari.

Esperto di comunicazione, l’autore illustra in questo volumetto (di sole cento pagine ma scritto fitto-fitto) come dissentire, senza litigare, sui social network, sui media e in pubblico.

Collaboratore della RAI, tende a privilegiare i media a livello esemplificativo ma non ignora gli altri due contesti: i social e il confronto tra persone.

Quello che ci propone l’autore, anche con numerosi esempi, è “imparare a sostenere il nostro punto di vista davanti a chi non è d’accordo, senza litigare ma anche senza scadere nell’asettico politically correct ”.

Per esporre le proprie ragioni senza farsi invischiare nelle provocazioni della controparte occorre essere preparati e non improvvisare.

 

Daniela de Robert, Carcerati, Città Nuova Editrice, Roma 2018.

Si tratta di un piccolo dossier in formato tascabile con un centinaio di pagine che viene pubblicato tre volte l’anno e spedito come allegato al mensile Città nuova, rivista del movimento dei Focolari.

L’apparenza dimessa non deve far sottovalutare la qualità del contenuto.

Da questo dossier a più mani abbiamo attinto soprattutto dal testo di Daniela de Robert, giornalista RAI, molto attenta alle questioni sociali, in modo particolare dei carcerati.

Il dossier, nel suo insieme, si propone di contrastare il populismo penale, che cerca “capri espiatori che paghino con la loro libertà e con la loro vita per tutti i mali sociali”. I detenuti, in questa visione, “concentrano in se stessi tutte le caratteristiche che la società percepisce o interpreta come minacciose”.

 

Fabrizio Floris, Periferie esistenziali, Robin Edizioni, Torino 2018.

Sociologo, ricercatore universitario, giornalista, impegnato nel volontariato, Floris sa bene di che cosa scrive perché lo ha vissuto in prima persona.

È dal titolo del suo libro che ho preso spunto per titolare questo numero.

Le periferie che l’autore esplora sono i barboni, i poveri in generale, i tossici, i precari e i disoccupati. Su tutte queste periferie posa il suo sguardo, attento e rispettoso, di volontario.

Scrive Floris: “Il disagio è sempre qualcosa che ha origine lontano. Non è nell’oggi che bisogna ricercare le cause, ma nel tempo passato.

Il disagio è qualcosa che monta lentamente e indebolisce le barriere, piccole fratture che sul momento non possono ‘dare preoccupazione’, ma una dopo l'altra erodono la personalità e la capacità di far fronte ai cambiamenti, ad affrontare le sfide della vita”.

 

Carlo Miglietta, Condividere per amore, Gribaudi Editore, Milano 2003.

Medico e biblista, Miglietta è un prolifico divulgatore della Parola.

Il libro ha un significativo sottotitolo: “La chiamata dei cristiani alla povertà” ed è un testo da leggere per chi si sente interpellato da questo tema.

Prendendo le mosse dalla Parola di Dio, dal Primo e dal Nuovo testamento, l’autore si focalizza sulla figura di Gesù, messia dei poveri, povero a sua volta, che ci chiama alla sua sequela.

Il libro termina analizzando come la Chiesa ha vissuto l’invito alla povertà nei primi secoli della sua storia e come la vive oggi.

L’unico limite del lavoro di Miglietta è dato dalla data di pubblicazione: la sua riflessione si ferma al Grande Giubileo del 2000.

Manca dal libro il Magistero di Benedetto XVI e di Francesco ma a questo, penso, abbiamo rimediato noi.

 

26-ABBIAMO IN CIELO UN ALTRO AMICO CHE CI ATTENDE

Sabato 29 febbraio si è spento, all’età di 74 anni, Edoardo Verderio, noto a tutti come Dino.

I Gruppi Famiglia lo avevano conosciuto, insieme a sua moglie Gloria, in occasione di un campo estivo a Spello cui, anni fa, avevano partecipato come relatori. Li abbiamo incontrati l’ultima volta l’anno scorso all’incontro di collegamento di Ronco Briantino.

Coppia senza figli, avevano consacrato la loro esistenza al sostegno del popolo nicaraguense e più in generale agli “ultimi”.

Così parlavano di se stessi in un articolo apparso su questa rivista nel 2015: “La nostra avventura cominciò con la passione per i viaggi ma presto ci siamo resi conto che la povertà e la miseria segnavano una grande parte dell’umanità e la nostra coscienza - e conoscenza - ci ha portato poi a sostenere vari progetti”.

Si trattava di progetti di sviluppo per le comunità rurali in Nicaragua, tutti realizzati con la loro associazione, La Comune di Milano, fondata nel 1967.

In un’altra occasione avevano scritto: “Noi quando rientriamo dai nostri viaggi tra gli ‘ultimi’, dopo aver vissuto momenti di solidarietà concreta con molte famiglie poverissime, coppie con tanti figli, siamo stanchi, a volte malati, ma dentro sentiamo la gioia di essere cresciuti nell’amore che ci lega”.

Mentre siamo vicini a Gloria in questo momento di lutto, facciamo nostre le loro parole che ben si addicono ai temi trattati in questo numero.

Noris e Franco Rosada

 

27-IL QUESTIONARIO ON-LINE

Un’anteprima delle risposte ricevute

 

di Franco Rosada

Al momento di andare in stampa, al questionario on-line sui Gruppi Famiglia che avevamo lanciato a inizio dicembre - soprattutto via mail - hanno risposto più di 50 famiglie.

 

L’identikit dei partecipanti

La fascia di età va dai 40anni in su, la Regione più rappresentata è il Veneto, seguita a distanza dal Piemonte, e quasi l’80% svolge attività pastorale, tipicamente in parrocchia.

Più della metà ha conosciuto i Gruppi Famiglia attraverso il passa parola, e attinge per la formazione permanente da libri e riviste (60%) o da incontri, convegni, catechesi.

 

La rivista di collegamento

Per quanto riguarda la rivista il 75% legge uno o più articoli (e ciò ci è di grande consolazione!) e oltre il 50% conserva tutti i numeri arretrati.

Per gli incontri in parrocchia la rivista non viene usata moltissimo, quello che risulta più utile sono gli articoli e le domande per il lavoro di coppia o di gruppo.

Come sapete, ci fa piacere ricevere indirizzi di nuove famiglie a cui mandare la rivista. Il 35% si è detto disponibile a fornirceli ma non li ha ancora inviati. Noi invece ci contiamo!

 

I campi estivi

Il 75% delle famiglie ha partecipato ai campi estivi, anche se in maggioranza non recentemente.

Il gradimento dei campi risulta molto alto: i delusi risultano veramente pochi (e ciò farà senz’altro piacere alle coppie che li hanno organizzati con tanto impegno in questi anni).

Di fronte alla proposta di frequentare WE lunghi – proposta legata anche alle difficoltà emergenti di gestire campi settimanali – le risposte sono state contrastanti. Volendole sintetizzare, le preferenze sono comunque andate ai “ponti” offerti dal calendario.

Grazie a tutte le famiglie che hanno risposto, grazie a tutte quelle che vorranno ancora rispondere!

Trovate il questionario sul sito:

www.gruppifamiglia.it

 

28-GLI APPUNTAMENTI

A causa della grave situazione sanitaria che attraversa il Paese, gli incontri di collegamento regionale sono stati ricalendarizzati.

Di seguito trovate le nuove date (coronavirus permettendo).

Veneto

L’incontro di Collegamento regionale si terrà sabato 18 aprile 2020 presso il Centro Parrocchiale di Vallà (TV), in piazza Caduti, 18.

Orario 16,30 -18,30

Piemonte

L’incontro di Collegamento regionale si terrà sabato 9 maggio 2020 presso l’oratorio della parrocchia della SS. Annunziata a Torino, in via Sant’Ottavio, 5.

Orario 16,30 -18,30

Incontro nazionale

Resta confermata la tre giorni di Loreto (AN) di cui trovate tutti i dettagli in ultima pagina.

 

29-CAMPI ESTIVI 2020

Calendario provvisorio

 

19–26 luglio Soggiorno Don Orione, Soraga (TN)

Vacanza formativa per giovani sposi.

Relatore: don Renzo Bonetti.

Org. Mistero grande.

Info: Annalisa 334 3011224, giovanisposi@misterogrande.org

 

20-26 luglio San Giacomo di Entraque (CN)

Tema da definire.

Relatore: Angelo Fracchia, biblista.

Org.: Diocesi di Cuneo.

Info: Angela e Tommy Reinero, 347 5319786, tommy.angela@libero.it

 

26 luglio - 2 agosto Soggiorno Don Orione, Soraga (TN)

Vacanza formativa per giovani sposi.

Relatori: Davide e Nicoletta Oreglia.

Org. Mistero grande.

Info: Annalisa 334 3011224, giovanisposi@misterogrande.org

 

16-21 agosto Chiappera (CN)

Tema e relatori da definire.

Org.: Diocesi di Mondovì (CN).

Info: Daniela e G.Paolo Basso, 339 1541258, 320 7015124, gbasso@credem.it

 

23-30 agosto Valle di Cadore (BL)

Tema e relatori da definire.

Org.: Colleg. Gruppi Famiglia.

Info: Fiorenza e Antonio Bottero, 340 5195718, 375 6066265, antoniobottero@alice.it

 

Il calendario è provvisorio. Per gli aggiornamenti in tempo reale: www.gruppifamiglia.it cercando, nella home page, tra le notizie in evidenza.

 

30-BILANCIO 2019 F&F

In leggero attivo, grazie ai risparmi effettuati

 

Carissime/i,

Come potete leggere nella tabella on-line, il bilancio 2018 dell’associazione Formazione e Famiglia, editrice della rivista, si è chiuso con un leggero attivo.

Il dimezzamento delle entrate per il 5x1000 per l’anno fiscale 2017 ci ha portato lo scorso anno alla decisione di trasformare la rivista da trimestrale a quadrimestrale.

L’esser usciti nel 2019 con tre numeri, anziché quattro, ha contenuto le uscite; a questo si è aggiunto un leggero aumento dei contributi liberali all’associazione insieme ad una risalita del loro numero: da 157 del 2018 a 186 del 2019.

In attesa di conoscere le entrate per il 5x1000 per l’anno fiscale 2018, pensiamo di mantenere, come già anticipato, la cadenza quadrimestrale per la rivista.

Un’altra riduzione, questa volta non per motivi economici ma per minore richiesta, riguarda i campi estivi organizzati dall’associazione, che passano da tre a due.

Un altro tema su cui riflettere.

il Presidente Noris Bottin

 

31-30°COLLEGAMENTO GRUPPI FAMIGLIA

Loreto (AN) 22 – 24 maggio 2020

LA CASA LUOGO DI FECONDITÀ

 

Durante l’ultimo incontro di Collegamento che si è tenuto domenica 20 ottobre a Ronco Briantino abbiamo deciso di festeggiare i trent’anni del Collegamento tra Gruppi Famiglia partecipando al ritiro di Pentecoste che si terrà a Loreto (AN) il 22 – 24 maggio 2020.

Perché questa scelta? Per la centralità geografica di Loreto, per la sua spiritualità (la basilica custodisce la Santa Casa di Nazareth), perché papa Francesco ha voluto che il santuario divenisse Casa di ogni famiglia.

Il programma prevede: accoglienza entro 18,30 del venerdì sera, conclusione dopo il pranzo della domenica. Ci saranno riflessioni guidate, momenti di preghiera, tempi per il confronto di coppia. Sabato sera si recita il Santo Rosario e si partecipa alla fiaccolata in piazza.

Dedicheremo il sabato pomeriggio ad incontrarci fra noi e a festeggiare il trentennale.

Il Ritiro sarà condotto da mons. Renzo Bonetti (già responsabile per 10 anni dell’Ufficio Famiglia nazionale) e avrà per tema: La casa luogo di fecondità: il dono dello Spirito con Maria e Giuseppe.

Vi aspettiamo numerosi, Noris e Franco Rosada

Per informazioni e chiarimenti ci potete contattare al 338 1474856 (Franco)

 

INFO: i costi sono contenuti: Adulti 76,00 € a testa per 2 giorni di pensione completa dalla cena di venerdì al pranzo di domenica. Riduzione bambini: 0-5 anni gratis; 6-12 anni sconto 50%.

La prenotazione va effettuata usando questo link:

http://www.loretofamily.it/la-casa-luogo-di-fecondita-il-dono-dello-spirito-con-maria-e-giuseppe/#iscrizioni

e va confermata tramite l’invio di una caparra del 30% da effettuarsi tramite bonifico bancario da versare a:

Delegazione Pontificia per il Santuario della S. Casa di Loreto

c/o UBI Banca – Filiale di Loreto IBAN: IT 55 G 03111 37381 0000 0000 1877

Vi invitiamo ad effettuare la prenotazione al più presto, per evitare di non trovare più posto nella Casa.

P.S. Per conoscere e diffondere l’iniziativa vi suggeriamo questo breve video:

https://www.youtube.com/watch?v=9v-oPk49UiE